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Abuso di ufficio: nella nozione di danno ingiusto rientrano anche gli interessi legittimi


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso di ufficio, la nozione di danno ingiusto non ricomprende le sole situazioni giuridiche attive a contenuto patrimoniale ed i corrispondenti diritti soggettivi, ma è riferita anche agli interessi legittimi, in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, sempre che, sulla base di un giudizio prognostico, il danneggiato avesse concrete opportunità di conseguire il provvedimento a sé favorevole, così da poter lamentare una perdita di chances. (Fattispecie in cui il direttore generale di un'azienda ospedaliera conferiva incarico di responsabile del procedimento per l'esecuzione di lavori ingegneristici ad un soggetto esterno, anziché al tecnico di ruolo interno all'azienda il quale vantava un'aspettativa concreta a ricevere tale incarico, in ragione del ristrettissimo numero dei legittimi aspiranti e della circostanza che, in un momento successivo, quella funzione sarebbe stata assegnata proprio a lui.



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 18/07/2019 , n. 44598

RITENUTO IN FATTO

1. Ad G.A., direttore generale dell'azienda ospedaliera "(OMISSIS)" di (OMISSIS), si rimprovera di aver commesso il delitto di abuso d'ufficio, punito dall'art. 323, c.p., per aver nominato l'ing. M.F. responsabile del procedimento per l'esecuzione di alcun lavori disposti da quell'ente, benchè questi non fosse dipendente di ruolo dello stesso, ma ivi prestasse temporaneamente servizio in regime di comando, in tal modo consapevolmente violando il disposto del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 9, ed avvantaggiando indebitamente lo stesso M. nonchè arrecando un ingiusto danno ad altri tecnici di ruolo in quell'amministrazione, tra cui il denunciante F.B.G.F..


Per tale reato, G. è stato condannato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Cagliari alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore di F., costituitosi parte civile nel processo; e tale decisione è stata poi confermata dalla Corte di appello di Cagliari con sentenza del 7 giugno 2018, avverso la quale, per il tramite del suo difensore, egli ha dunque proposto il ricorso in scrutinio.


2. Quattro sono i motivi su cui questo si articola.


2.1. Il primo attiene all'erronea applicazione di norme extrapenali, segnatamente quelle di cui al citato D.P.R. n. 207 del 2010, art. 9, ed al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 10, comma 5, allora vigente: con riferimento alla prima - si sostiene - la posizione del "comandato" sarebbe del tutto sovrapponibile a quella del dipendente "di ruolo"; nel caso specifico, poi, registrandosi una carenza in concreto di figure professionali adeguate tra i dipendenti di ruolo dell'ente, a causa del sovraccarico di lavoro sulle stesse, specificamente da esse lamentato, avrebbe dovuto trovare applicazione l'eccezione di cui al predetto art. 10, che consente di attingere tra i dipendenti non di ruolo.


2.2. Il secondo motivo lamenta la violazione dell'art. 323 c.p., in ragione del mancato verificarsi dell'evento tipico: M., infatti, non ha conseguito alcun vantaggio, perchè non ha mai ottenuto il compenso per tale incarico, peraltro legittimamente spettantegli, avendo prestato l'attività affidatagli; F. non ha subito alcun danno, per essere stato officiato anch'egli di un diverso incarico in quella procedura ed essere stato nominato, successivamente, dopo la cessazione del comando di M., responsabile unico della stessa.


2.3. Con il terzo motivo, si contesta comunque la sussistenza del necessario dolo intenzionale. La Corte d'appello avrebbe trascurato che la delibera di nomina del M. - come risulta dal testo della stessa - aveva ricevuto l'avallo del direttore amministrativo e del direttore sanitario dell'azienda ospedaliera, nonchè - secondo quanto riferito dal testimone C.G., dirigente amministrativo dello stesso ente - il benestare del relativo ufficio legale. Se a tanto si aggiunge che G. non aveva specifiche cognizioni tecnico-giuridiche e che F. non è stato affatto pretermesso da tale procedimento, ottenendo da G. dapprima un diverso incarico remunerato e, successivamente, proprio quello di responsabile unico dello stesso, se ne deve logicamente dedurre che l'imputato non abbia comunque agito con l'intenzione di danneggiare costui.


2.4. Con il quarto motivo, infine, la difesa ricorrente, sul comune presupposto della occasionalità della condotta del proprio assistito e della modesta lesività della stessa, che, nei fatti, comunque non avrebbe arrecato nessun danno all'efficienza ed economicità dell'attività amministrativa, lamenta l'erronea applicazione della disciplina normativa di riferimento, nella parte in cui la Corte di appello ha escluso il riconoscimento della non punibilità per particolare tenuità del fatto o, in via gradata, delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 323-bis e 62-bis c.p..


3. Ha tempestivamente depositato memoria scritta la difesa della parte civile F., replicando specificamente agli argomenti di controparte e richiamando, in relazione ai vari punti, i passaggi qualificanti dell'impugnata sentenza, nonchè evidenziando, a sostegno, alcuni dati di fatto idonei a lumeggiare il contesto in cui la vicenda si è svolta, onde dimostrare la piena riconducibilità della condotta del G. alla fattispecie dell'art. 323 c.p..


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Nessuno dei motivi di ricorso è fondato e, pertanto, lo stesso dev'essere respinto.


2. Il primo muove da una pretesa equiparazione, di tipo funzionale, tra dipendenti pubblici "di ruolo" e "in comando", che, tuttavia, quand'anche fosse ravvisabile in linea generale, non rileva ai fini che qui interessano.


2.1. Il dato si coglie all'evidenza dalla piana lettura della disciplina di riferimento, richiamata dallo stesso ricorrente.


Il D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 9, dispone, infatti, che il responsabile del procedimento per la realizzazione di lavori pubblici dev'essere "nominato dalle amministrazioni aggiudicatrici nell'ambito dei propri dipendenti di ruolo" fatto salvo quanto previsto dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 10, comma 5, (codice dei contratti pubblici), allora vigente. Norma, quest'ultima, che marca ancora più nitidamente la distinzione tra le due figure, poichè ribadisce che il responsabile del procedimento "per le amministrazioni aggiudicatrici deve essere un dipendente di ruolo", poi specificando che, soltanto "in caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate, le amministrazioni aggiudicatrici nominano il responsabile del procedimento tra i propri dipendenti in servizio".


2.2. La sentenza impugnata (pag. 19) ha specificamente posto in evidenza tale aspetto, con motivazione esauriente, correttamente osservando, in particolare, come, nell'ipotesi del "comando", tra il dipendente e l'amministrazione presso cui questi presta la propria attività lavorativa, s'instauri soltanto un rapporto di servizio, permanendo quello organico, invece, con l'ente di appartenenza (in questi termini, tra altre, Sez. L, n. 18460 del 29/08/2014, Rv. 632327).


2.3. La motivazione resa dalla Corte distrettuale è adeguata in fatto e corretta in diritto anche nella parte in cui ha escluso l'operatività, invocata in via gradata dal ricorrente, del disposto del citato art. 10, comma 5.


La sentenza, infatti, ha ritenuto insussistente il presupposto per l'applicazione di tale disciplina, ovvero la carenza di adeguate figure professionali di ruolo all'interno dell'ente, evidenziando come nessuno dei due tecnici idonei ed in rapporto organico con quello (uno dei quali è F.) sia stato formalmente interpellato dalla Direzione generale prima dell'assegnazione dell'incarico ed abbia manifestato la propria indisponibilità all'assunzione dello stesso.


La difesa dell'imputato deduce, sul punto, che tale carenza sussistesse nei fatti, valorizzando, a tal fine, la testimonianza del Dott. C.G., all'epoca direttore amministrativo dell'azienda, secondo cui F. ed il suo collega ingegnere avessero più volte rassegnato delle lamentele per il sovraccarico di lavoro.


L'argomento è specioso e la Corte d'appello ne ha dato condivisibile dimostrazione logica, osservando (pagg. 22 s.): per un verso, che, nella delibera di conferimento dell'incarico all'ing. M., non era contenuto alcun esplicito riferimento all'indisponibilità o, comunque, alla carenza in organico di adeguate figure professionali di ruolo; e, per l'altro, che, una volta cessato il comando del M., l'incarico precedentemente a lui affidato sia stato assegnato, a condizioni di lavoro invariate, proprio a F..


E, a tali rilievi, il ricorso nulla replica.


3. Anche il secondo motivo di ricorso non coglie nel segno, riproponendo doglianze alle quali la Corte distrettuale ha offerto esauriente risposta.


3.1. La circostanza per cui M. non abbia richiesto nè ottenuto dall'azienda sanitaria la remunerazione legittimamente spettantegli per l'incarico svolto non esclude che egli, per effetto di esso, abbia pur sempre conseguito un vantaggio di tipo patrimoniale: non soltanto potenziale, in ragione dell'arricchimento del suo curriculum e delle conseguenti ricadute positive in termini di prospettive professionali; ma anche diretto ed immediato, perchè egli ha comunque maturato un diritto di credito a tali compensi.


Indiscutibile è, poi, l'ingiustizia di tale vantaggio, trattandosi - come s'è visto - d'incarico conferito in violazione di legge, rispetto al quale M., nelle condizioni date, non poteva vantare una legittima pretesa, e non giustificato neppure da un esclusivo interesse pubblico, cogente e non altrimenti tutelabile.


3.2. Analoghe considerazioni merita il correlato profilo dell'ingiusto danno per F..


Va anzitutto rilevato che, in tema di abuso di ufficio, la nozione di "danno ingiusto" non può intendersi limitata solo a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, ma riguarda anche l'aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dalle norme costituzionali (così, fra molte altre, Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Rv. 268222).


3.2.1. Ne discende, in primo luogo, che, tra le situazioni giuridiche soggettive del privato meritevoli di tutela, debbano essere annoverati anche gli interessi legittimi, ed in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo. In tali ipotesi, è necessario procedere ad un giudizio prognostico sulla base della normativa applicabile, verificando se la parte sia titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, ovvero di una situazione che, secondo un criterio di normalità, sarebbe stata destinata ad un esito favorevole, così da esserne derivata una c.d. perdita di chances (v. Sez. 6, n. 22871 del 21/02/2019, Rv. 275985, in motivazione).


Del resto, pure la giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte, chiamata a confrontarsi con la medesima categoria giuridica del "danno ingiusto", prevista dall'art. 2043 c.c., è da tempo orientata nel medesimo senso (Sez. 1, n. 21170 del 13/10/2011, Rv. 619550; Sez. 3, n. 8097 del 06/04/2006, Rv. 588732), anche con particolare riferimento alle ipotesi - del tutto assimilabili a quella oggetto del presente giudizio - dei concorsi (Sez. 1, n. 2771 del 08/02/2007, Rv. 595218) e delle procedure di gara ad evidenza pubblica, riconoscendo ai partecipanti non vincitori la possibilità di agire in giudizio, per far valere la responsabilità aquiliana dell'amministrazione ed ottenere il risarcimento del danno ingiusto derivante dalla perdita di chances, cioè dal venir meno, per effetto della condotta non jure della stazione appaltante, dell'occasione di ottenere l'utilità patrimoniale conseguibile con la gara (Sez. 1, n. 22370 del 25/10/2007, Rv. 600670).


In applicazione di tali principi al caso di specie, risulta agevole riconoscere, allora, in capo al F., un'aspettativa concreta - e perciò giuridicamente meritevole di tutela - al conferimento di tale incarico, ove si consideri il ristrettissimo numero dei legittimi aspiranti (egli ed il suo collega in ruolo) e la circostanza per cui, sebbene in un momento successivo, quella funzione sia stata assegnata proprio a lui.


Resa così più esplicita, l'osservazione in tal senso compiuta dalla Corte distrettuale (pag. 26, sent.) non può che essere condivisa.


3.2.2. Ma, secondo il principio generale dianzi rammentato, il danno ingiusto può avere anche natura non patrimoniale, e derivare, in particolare, da condotte che determinino una perdita di prestigio e decoro del destinatario al cospetto dei colleghi di lavoro (Sez. 6, n. 4945 del 15/01/2004, Rv. 227281; Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, Rv. 213032).


Appare plausibile ritenere che ciò si sia verificato nel caso di specie, in cui la preferenza per il "comandato" M., non giustificata da specifiche esigenze di funzionalità dell'attività amministrativa ed accordata a soggetto in servizio presso quell'azienda sanitaria soltanto temporaneamente ed in posizione al più paritetica rispetto a F., poteva ragionevolmente essere interpretata dal personale dell'ente come un atto di disistima nei confronti di quest'ultimo, pregiudizievole, come tale, per la sua reputazione professionale.


3.2.3. Infine, il danno provocato dal ricorrente con la sua condotta si presenta come ingiusto anche nella prospettiva dei principi di imparzialità e buon andamento dell'attività amministrativa.


In primo luogo, perchè - stando alla ricostruzione dei fatti compiuta in sentenza e non avversata, per questa parte, dal ricorso - era ampiamente prevedibile che, in ragione dell'entità dei lavori dei quali era stato nominato responsabile e della limitata durata del suo comando presso quell'ente, M. non avrebbe potuto condurre a termine il relativo incarico.


Per altro verso - anche questo passato in rassegna dalla Corte distrettuale (pag. 29, sent.) - perchè è altamente probabile che la scelta di G. di nominare M. sia stata determinata, almeno in parte concorrente ma significativa, dalla sua intenzione di penalizzare proprio F., con il quale vi era una situazione di conflitto "molto aspro", secondo quanto riferito dal direttore amministrativo C..


A tale proposito, in fattispecie assimilabile a quella in discussione, questa Corte ha già avuto modo di precisare che integra il reato di abuso di ufficio il demansionamento di un pubblico dipendente, attuato con intenti discriminatori o ritorsivi, trattandosi di condotta non rispettosa dei doveri costituzionali di imparzialità e di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.), ma anche di quello che impone di adempiere con disciplina ed onore all'esercizio di funzioni di pubbliche (art. 54 Cost.), che costituiscono regole di immediata portata precettiva ed esprimono il divieto per i pubblici agenti di comportamenti connotati da ingiustificate preferenze e favoritismi (Sez. 6, n. 22871 del 21/02/2019, cit.).


4. E' infondato anche il terzo motivo di ricorso, con cui si contesta la sussistenza del dolo intenzionale richiesto dall'art. 323 c.p..


La motivazione resa sul punto dalla Corte di appello è dettagliata e non presenta evidenti smagliature logiche, avendo essa individuato plurimi elementi di fatto che, soprattutto se letti complessivamente, rendono altamente probabile l'ipotesi che il ricorrente abbia agito in consapevole violazione della disciplina di riferimento e con l'intenzione di avvantaggiare M. e danneggiare F.: la sua specifica competenza professionale, in quanto già commissario straordinario di quell'azienda; la macroscopica violazione di legge compiuta; l'inesistente apparato motivazionale del relativo provvedimento; il conferimento di analoghi incarichi, dopo d'allora, solo a dipendenti di ruolo dell'azienda; la prevedibile impossibilità per M. di terminare l'incarico; i rapporti personali usurati con F. (pagg. 27 ss.).


Le circostanze addotte a confutazione dalla difesa non si presentano tali da disarticolare logicamente tale motivazione, in quanto: a) l'assenso dell'ufficio legale non è mai intervenuto, poichè il testimone C. risulta aver soltanto riferito vagamente di informali scambi di vedute (pag. 20, sent.) e, nella delibera, non v'è menzione di un qualsivoglia intervento di tale ufficio: nè tale mancanza si può efficacemente liquidare - come prova a fare la difesa - come espressione della "nota sciatteria amministrativa"; b) G. era provvisto di sufficienti cognizioni specifiche e, se è vero quanto la sua difesa sostiene, ovvero che egli avesse ritenuto sussistere un'ipotesi di carenza di personale di ruolo, significa che era consapevole del problema; c) i pareri dei dirigenti dell'area amministrativa e sanitaria non investivano il profilo della scelta del "R.u.p.", che rientrava nei poteri esclusivi della Direzione generale: sicchè risulta logicamente improbabile che G. potesse da quelli ritrarre la ragionevole convinzione di agire legittimamente; d) il diverso incarico inizialmente conferito a F. all'interno della medesima procedura comunque era per lui penalizzante, perchè d'importanza secondaria rispetto a quello di "R.u.p." e remunerato in misura inferiore: circostanze, entrambe, ben note a G.; e) la successiva designazione di F. come "R.u.p.", in quanto intervenuta dopo che quest'ultimo aveva presentato un esposto alla locale Procura della Repubblica, appare ragionevolmente giustificabile con la volontà del G. di evitare altri problemi, piuttosto che con l'assenza di una sua pregressa avversione verso F..


Le allegazioni difensive, in conclusione, sollecitano questa Corte ad un'alternativa ricostruzione in fatto, che, oltre ad essere decisamente meno plausibile, sul piano logico, di quella contenuta nel provvedimento impugnato, è comunque preclusa al giudice di legittimità, il cui sindacato - com'è noto - deve arrestarsi al rilievo di un'eventuale illogicità manifesta della relativa motivazione.


5. Analoghe osservazioni conducono al rigetto anche del quarto motivo.


La valutazione dei presupposti per il riconoscimento della particolare tenuità del fatto e delle circostanze attenuanti dev'essere compiuta secondo i parametri indicati dall'art. 133 c.p..


Si tratta di una tipica valutazione in fatto, riservata ai giudici del merito e non censurabile dalla Corte di cassazione, se non nei limiti dell'assenza o della manifesta illogicità della relativa giustificazione.


Nella fattispecie, la Corte di appello di Cagliari ha ritenuto di assegnare prevalenza al dato negativo della posizione apicale rivestita dall'imputato, che gli imponeva di essere il primo garante della correttezza e dell'efficienza dell'azione amministrativa dell'ente; ed a quello dell'intensità del dolo, sottolineando la "disinvoltura quanto meno inappropriata" con cui egli ha agito, anche in considerazione dello "specifico contesto di alta conflittualità" con F..


Si tratta di aspetti indiscutibilmente suscettibili di colorare negativamente la condotta dell'imputato e, pertanto, la loro valorizzazione non può reputarsi manifestamente illogica.


6. Da tali considerazioni, dunque, consegue il rigetto del ricorso, con l'obbligatoria condanna del proponente al pagamento delle spese processuali, a norma dell'art. 616 c.p.p..


7. A norma dell'art. 592 c.p.p., il ricorrente, in quanto integralmente soccombente, va altresì condannato alta rifusione delle spese di giudizio sostenute nel grado dalla costituita parte civile: che, in applicazione della tariffa professionale di cui al D.M. 10 marzo 2014, n. 55, considerando l'attività non particolarmente impegnativa svolta dal difensore della stessa, si stima equo fissare in complessivi 3.500 Euro, oltre accessori di legge.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al pagamento delle spese di costituzione del grado in favore della parte civile costituita, liquidate in Euro 3.500,00, oltre accessori di legge.


Così deciso in Roma, il 18 luglio 2019.


Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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