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Bancarotta documentale:il dolo comprende anche la consapevolezza dell'impossibilità di ricostruzione

Bancarotta fraudolenta documentale

Bancarotta documentale:il dolo comprende anche la consapevolezza dell'impossibilità di ricostruzione

In questo articolo si affronta il caso di un imprenditore condannato per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, accusato di aver omesso la tenuta della documentazione contabile relativa all'impresa e di aver reso, in tal modo, impossibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari.

Nella sentenza analizzata si affronta il tema del dolo del reato di bancarotta fraudolenta documentale.



Indice:

2. Il processo

4. La linea difensiva dell'imprenditore


1. Il caso

All'imprenditore veniva contestato il reato di cui all'art. 216 comma 1, n. 2, L. Fall. (bancarotta fraudolenta documentale), perché, nella sua qualità di socio unico e legale rappresentante della società fallita, ometteva di tenere qualunque documentazione contabile relativa all'impresa, rendendo impossibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari.


2. Il processo

All'esito del processo di primo grado, l'imprenditore veniva condannato per il reato di bancarotta fraudolenta e la sentenza veniva confermata nel successivo giudizio di appello.

La corte di cassazione annullava la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie e rinviava per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna.


3. I riferimenti

Giudici di merito: Tribunale di Bologna - Corte di Appello di Bologna

Autorità Giudiziaria: Quinta Sezione della Corte di Cassazione

Reato contestato: Bancarotta fraudolenta documentale

Sentenza: n.4352 (ud. 17/01/2023, dep. 01/02/2023)


4. La linea difensiva dell'imprenditore

Secondo la difesa, la società fallita sarebbe entrata in una grave crisi economica e finanziaria, a partire dall'anno 2012, a seguito del fallimento del suo unico cliente.

Tale crisi avrebbe poi condotto al successivo fallimento nonostante gli sforzi personali profusi dallo stesso imprenditore imputato.

Cosicché, fino al 2012, la contabilità sarebbe stata regolarmente tenuta da un commercialista, ma, per gli anni successivi, a causa delle successive difficoltà economiche in cui versava la società, la tenuta della contabilità non sarebbe stata più tenuta, nell'incapacità del ricorrente di curarla.

Mancherebbe, quindi, il dolo tipico della bancarotta fraudolenta, essendo al massimo ravvisabile l'elemento soggettivo della bancarotta semplice, in quanto dalla sola successiva mancata istituzione della contabilità non si può dedurre la quella consapevolezza della successiva impossibilità di ricostruzione, necessaria per integrare il reato contestato.


5. La massima

Nella sentenza in argomento, la Suprema Corte ha affermato che la bancarotta documentale semplice si differenza da quella fraudolenta non solo per il diverso oggetto materiale (le sole scritture contabili obbligatorie nella bancarotta semplice, a fronte di ogni documentazione necessaria per la compiuta ricostruzione del patrimonio e dei movimenti dell'impresa) e per la diversa condotta (omessa istituzione ed irregolare tenuta), ma anche per l'ulteriore requisito oggettivo rappresentato dall'impossibilità di ricostruzione (che dell'irregolare tenuta rappresenta l'evento), elemento, invece, estraneo al fatto tipico descritto nell'art. 217, comma 2, della legge fallimentare.

E tanto, sotto il profilo soggettivo, si traduce nella necessità che anche tale elemento sia coperto dalla necessaria partecipazione soggettiva dell'agente. Cosicché il dolo, generico, che sorregge la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale generale, deve comprendere tanto la consapevolezza della irregolare tenuta della documentazione contabile, quanto la consapevole rappresentazione della successiva impossibilità di ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari del fallito (seppur in termini di eventualità).


6. Le ragioni della condanna

Ad avviso dei giudici, la condotta contestata non doveva intendersi di omessa istituzione, ma di irregolare tenuta e non era limitata alle solo scritture contabili obbligatorie e della movimentazione degli affari, ma a tutta la documentazione necessaria per la corretta ricostruzione della consistenza patrimoniale e del movimento degli affari.

Sotto il profilo soggettivo, la partecipazione dell'imprenditore non è limitata alla consapevole volontà di non istituire le scritture (anche laddove si volesse intendere in questi termini l'omesso aggiornamento), ma involge anche la consapevolezza della successiva impossibilità di ricostruzione.

Sotto tale profilo, infatti, la corte territoriale ha evidenziato come la pregressa esperienza imprenditoriale del ricorrente (desunta da una antecedente dichiarazione di fallimento e da alcune condanne per reati inerenti la gestione dell'impresa) rappresenta un elemento sufficiente per ritenere che l'imprenditore fosse pienamente consapevole degli obblighi connessi all'esercizio dell'attività imprenditoriale (in relazione ai quali, peraltro, l'eventuale errore non esclude la responsabilità dell'imprenditore, in quanto avente per oggetto una norma extrapenale che integra il precetto penale) ed avesse consapevolmente omesso del tutto di aggiornare, dal 2012, le scritture contabili. Cosicché, proprio alla luce della pregressa esperienza e della totale omissione di ulteriori aggiornamenti, può logicamente ritenersi che l'imprenditore si fosse rappresentato anche che da tale condotta potesse discendere l'eventuale futura impossibilità (se non certezza) di ricostruire il patrimonio e i movimenti della società.

In questo contesto, la collaborazione prestata al curatore o l'impegno personale profuso o ancora la non imputabilità del fallimento rappresentano elementi del tutto inconferenti. Tanto più che, verificata l'impossibilità di prosecuzione dell'attività, è preciso obbligo dell'imprenditore richiedere la dichiarazione di fallimento (art. 217 L. Fall., oggi art. 323 codice della crisi).


7. La sentenza della corte di cassazione

RITENUTO IN FATTO

1. D.L.S. è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 216 comma 1, n. 2, L. Fall., perché, nella sua qualità di socio unico e legale rappresentante della (Omissis) s.r.l., successivamente dichiarata fallita (il (Omissis)), ometteva di tenere qualunque documentazione contabile relativa all'impresa, rendendo impossibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari.


La condanna pronunciata in primo grado è stata confermata dalla corte d'appello.


Avverso tale sentenza ricorre l'imputato, articolando due motivi di censura, intimamente connessi tra loro, formulati sotto il profilo del vizio di motivazione e della violazione di legge, attraverso i quali si contesta la sussistenza dell'elemento soggettivo.


Secondo la prospettazione difensiva, nel 2012, a seguito del fallimento del suo unico cliente (la Coopsette), la (Omissis) sarebbe entrata in una grave crisi economica e finanziaria; crisi che, poi, avrebbe condotto al successivo fallimento nonostante gli sforzi personali profusi dallo stesso D.L..


Cosicché, fino al 2012, la contabilità sarebbe stata regolarmente tenuta da un commercialista, ma, per gli anni successivi, a causa delle successive difficoltà economiche in cui versava la società, la tenuta della contabilità non sarebbe stata più tenuta, nell'incapacità del ricorrente di curarla.


Mancherebbe, quindi, il dolo tipico della bancarotta fraudolenta, essendo al massimo ravvisabile l'elemento soggettivo della bancarotta semplice, in quanto dalla sola successiva mancata istituzione della contabilità non si può dedurre la quella consapevolezza della successiva impossibilità di ricostruzione, necessaria per integrare il reato contestato.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Si è detto che al ricorrente è formalmente contestata la condotta di omessa tenuta della contabilità, la quale avrebbe reso impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento di affari della fallita.


Appare opportuno precisare che l'ipotesi di omessa tenuta dei libri contabili può rientrare nell'alveo della bancarotta fraudolenta documentale, ma solo qualora si accerti che scopo dell'omissione sia stato quello di recare pregiudizio ai creditori, atteso che altrimenti risulterebbe impossibile distinguere tale fattispecie da quella, analoga sotto il profilo materiale, prevista dall'art. 217 L. Fall. (per quanto riferita alla sola contabilità obbligatoria: Sez. 5, n. 44886 del 23/09/2015, Rv. 265508), punita sotto il titolo di bancarotta semplice documentale (Sez. 5, n. 25432 del 11 aprile 2012, De Mitri e altri, Rv. 252992).


D'altronde, sotto il profilo oggettivo, appare evidente come l'imprenditore non possa al contempo omettere di istituire i libri contabili e tenerli in "guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio", condotta quest'ultima che presuppone l'inattendibilità fraudolentemente provocata di scritture effettivamente esistenti (Sez. 5, n. 11115 del 22/01/2015, Rv. 262915).


Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, però, per come emerge dalla sentenza impugnata e per come ribadito anche dal ricorrente in questa sede, è stato accertato che fino al 2012, anno in cui l'incarico al commercialista è cessato, i libri e le scritture contabili sono stati tenuti. Per cui "l'omessa tenuta" in realtà si sarebbe sostanziata nell'omesso aggiornamento di scritture contabili invero istituite. Ed in questi termini, rientra nella previsione generale di cui al comma 1 dell'art. 216, ultima parte, quale bancarotta fraudolenta documentale generale, quale tenuta frammentaria e incompleta delle scritture contabili.


In questi termini, per il consolidato insegnamento di questa Corte, la condotta deve essere sorretta dal dolo generico, rappresentato dalla consapevolezza tanto della tenuta irregolare, quanto della possibilità che da tale irregolarità discenda l'impossibilità di ricostruire il patrimonio e la movimentazione degli affari della società.


Il ricorrente ritiene che tale condotta debba essere qualificata in termini di bancarotta semplice, deducendo, a tal fine, le ragioni economiche - esterne alla società - che hanno condotto al fallimento, il suo impegno economico personale, la collaborazione prestata al curatore e la sostanziale assenza di creditori.


La deduzione è infondata.


La bancarotta documentale semplice si differenza da quella fraudolenta non solo per il diverso oggetto materiale (le sole scritture contabili obbligatorie nella bancarotta semplice, a fronte di ogni documentazione necessaria per la compiuta ricostruzione del patrimonio e dei movimenti dell'impresa) e per la diversa condotta (omessa istituzione ed irregolare tenuta), ma anche per l'ulteriore requisito oggettivo rappresentato dall'impossibilità di ricostruzione (che dell'irregolare tenuta rappresenta l'evento), elemento, invece, estraneo al fatto tipico descritto nell'art. 217, comma 2, della legge fallimentare. E tanto, sotto il profilo soggettivo, si traduce nella necessità che anche tale elemento sia coperto dalla necessaria partecipazione soggettiva dell'agente. Cosicché il dolo, generico, che sorregge la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale generale, deve comprendere tanto la consapevolezza della irregolare tenuta della documentazione contabile, quanto la consapevole rappresentazione della successiva impossibilità di ricostruzione del patrimonio e dei movimenti degli affari del fallito (seppur in termini di eventualità).


Ebbene, in concreto, la condotta contestata, nei termini sopra precisati, non deve intendersi di omessa istituzione, ma di irregolare tenuta e non è limitata alle solo scritture contabili obbligatorie e della movimentazione degli affari, ma a tutta la documentazione necessaria per la corretta ricostruzione della consistenza patrimoniale e del movimento degli affari. Parallelamente, sotto il profilo soggettivo, la partecipazione del D.L. non è limitata alla consapevole volontà di non istituire le scritture (anche laddove si volesse intendere in questi termini l'omesso aggiornamento), ma - per come accertato dalla corte territoriale - involge anche la consapevolezza della successiva impossibilità di ricostruzione.


Sotto tale profilo, infatti, la corte territoriale ha evidenziato come la pregressa esperienza imprenditoriale del ricorrente (desunta da una antecedente dichiarazione di fallimento e da alcune condanne per reati inerenti la gestione dell'impresa) rappresenta un elemento sufficiente per ritenere che il D.L. fosse pienamente consapevole degli obblighi connessi all'esercizio dell'attività imprenditoriale (in relazione ai quali, peraltro, l'eventuale errore non esclude la responsabilità dell'imprenditore, in quanto avente per oggetto una norma extrapenale che integra il precetto penale) ed avesse consapevolmente omesso del tutto di aggiornare, dal 2012, le scritture contabili. Cosicché, proprio alla luce della pregressa esperienza e della totale omissione di ulteriori aggiornamenti, può logicamente ritenersi che il D.L. si fosse rappresentato anche che da tale condotta potesse discendere l'eventuale futura impossibilità (se non certezza) di ricostruire il patrimonio e i movimenti della società.


In questo contesto, la collaborazione prestata al curatore o l'impegno personale profuso o ancora la non imputabilità del fallimento rappresentano elementi del tutto inconferenti. Tanto più che, verificata l'impossibilità di prosecuzione dell'attività, è preciso obbligo dell'imprenditore richiedere la dichiarazione di fallimento (art. 217 L. Fall., oggi art. 323 codice della crisi).


Ciò considerato, il ricorso deve essere rigettato ma la sentenza va annullata in relazione alla durata delle pene accessorie, in conseguenza della pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 2018 che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267 nella parte in cui dispone: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", anziché: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni".


In coerenza con tali indicazioni, con la sentenza del 28/02/2019, Suraci, le Sezioni Unite hanno affermato che "le pene accessorie previste dall'art. 216 L. Fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. "


In concreto, essendo state le pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, si impone l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al punto delle pene accessorie, ex art. 216 ultimo comma L. Fall., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna.


Ai sensi dell'art. 624 c.p.p., dall'annullamento con rinvio circoscritto all'indicato punto della decisione, deriva l'autorità di cosa giudicata di tutti i restanti punti della sentenza privi di connessione con quello annullato.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della


durata delle pene accessorie e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna.


Rigetta il ricorso nel resto.


Spese al definitivo.


Così deciso in Roma, il 17 gennaio 2023.


Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2023

 

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