La massima
Il delitto di concussione, di cui all'art. 317 cod. pen. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319 quater cod. pen. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico. (In applicazione del principio, la Corte ha qualificato come concussione la condotta di un militare della Guardia di Finanza, il quale aveva sistematicamente omesso di pagare consumazioni per sè e per familiari ed amici in alcuni esercizi commerciali, rimarcando la propria qualifica professionale ed alludendo a possibili controlli). (Cassazione penale , sez. VI , 02/03/2016 , n. 9429).
Fonte: CED Cassazione Penale 2017
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La sentenza integrale
Cassazione penale sez. VI, 02/03/2016, n.9429
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 4 luglio 2014 la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza emessa in data 18/10/2010 dal Tribunale di Rimini nei confronti di G.G. e Z.G. V., ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del G. in ordine al reato di cui all'art. 319 quater c.p., così qualificato il reato ascrittogli, perchè estinto per prescrizione e, concesse allo Z. le attenuanti generiche, ha ridotto la pena inflittagli a 4 anni di reclusione, sostituendo all'interdizione perpetua dai pubblici uffici quella temporanea per la durata di anni 5.
2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i difensori degli imputati.
Tuttavia, il decesso del G., intervenuto nelle more del procedimento, rende improcedibile il ricorso ed impone l'immediata declaratoria di annullamento della sentenza senza rinvio ai sensi dell'art. 150 c.p..
Il difensore dello Z. chiede l'annullamento della sentenza per due ordini di motivi:
- inosservanza o erronea applicazione della legge penale per omessa qualificazione del reato ex art. 319 quater c.p.: deduce che la Corte ha riconosciuto all'imputato le attenuanti generiche, ma non ha riqualificato i fatti come induzione indebita a dare o promettere.
Sostiene che erroneamente i fatti sono stati ritenuti integrare la concussione, nonostante l'assenza nei comportamenti dello Z. di violenza, di minaccia o di uno stato di soggezione delle vittime, le quali hanno riferito di dazioni spontanee, peraltro, di utilità di assoluta modestia, tali da indurre a ritenere che i titolari degli esercizi commerciali avessero deciso di non far pagare nulla all'imputato;
- contraddittorietà ed illogicità della motivazione, in quanto la Corte per il Gravina ed il G. ha riqualificato i reati ai sensi dell'art. 319 quater c.p. e ne ha dichiarato la prescrizione, pur essendo agli stessi contestati fatti analoghi, per modalità e frasi pronunciate, a quelli contestati allo Z., anzi, risultando i primi ben più gravi sia per l'entità delle dazioni che per il grado dei pubblici ufficiali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio per il G., deceduto nelle more del procedimento in data (OMISSIS), come risulta dal certificato dell'ufficio di Stato Civile di Roma, trasmesso il 2 febbraio 2016 ed in atti: per l'effetto il reato contestato all'imputato si è estinto ai sensi dell'art. 150 c.p. e la sentenza impugnata va annullata senza rinvio.
Infatti, la morte dell'imputato, sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione, impone il detto annullamento con enunciazione della causa nel dispositivo, risultando esaurito il sottostante rapporto processuale ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2 quando non risulti dal testo del provvedimento impugnato, come nel caso di specie, l'evidenza - v. Sez. 1 n. 24507 del 09/06/2010 Rv.
247782 -.
2. Il ricorso dello Z. va rigettato perchè infondato.
Il ricorrente ripropone argomentazioni già respinte dai giudici di appello con ampia, dettagliata ed esaustiva motivazione, ad eccezione della richiesta riqualificazione del fatto nel meno grave reato di cui all'art. 319 quater c.p. con conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
La Corte, che ha esaminato in dettaglio e riportato ampi passaggi delle dichiarazioni delle persone offese e dei testimoni sentiti nel corso del dibattimento, ne ha valutato la piena attendibilità e ha chiarito che tutte le fonti dichiarative convergevano nell'ammettere che la condotta del finanziere Z., il quale non solo non pagava mai le consumazioni, ma neppure mostrava di volerlo fare ("pretendeva, grazie e arrivederci"), era stata tollerata non per liberalità, ma in ragione della qualifica del cliente, che non mancava di sottolineare la propria funzione, rimarcando la propria appartenenza alla Guardia di Finanza, o di pronunciare frasi dal contenuto velatamente minaccioso, alludendo a possibili controlli della finanza o sottolineando che "è meglio essere amici dei finanzieri" o "è meglio tenersi amica la Finanza". Peraltro, la Corte ha evidenziato che per tutte le persone offese il rapporto con l'imputato era iniziato con una verifica fiscale, alla quale era seguita la frequentazione del locale con erogazione di servizi o consumazioni non solo per sè, ma anche per familiari ed amici, mai pagate.
Comportamenti questi, sempre subiti dai titolari degli esercizi commerciali per il timore di ritorsioni ed avvertiti come soprusi, ai quali non potevano ribellarsi per paura di conseguenze negative, come effettivamente avvenuto per lo Zu., che aveva subito tre verifiche fiscali in un mese - evenienza mai verificatasi in trent'anni di lavoro - per aver osato negare consumazioni gratuite e servizi all'imputato perchè stanco di subire e di sottostare ad un ricatto.
La Corte ha ritenuto ravvisabile nelle sistematiche condotte descritte l'abuso della qualità di pubblico ufficiale e la minaccia nelle frasi allusive, che, rimandando alla funzione ed alla convenienza di assecondare le richieste, lasciavano intendere che un atteggiamento non condiscendente avrebbe esposto le persone offese a ripercussioni negative, ingenerando uno stato di soggezione e di timore nelle stesse, costrette a subire le pretese dell'imputato, avvertite come veri e propri soprusi.
Tenuto conto che anche a seguito della modifica normativa ai fini della configurabilità del delitto di concussione non rileva, a differenza di quanto prospettato dal ricorrente, la portata più o meno coartante della minaccia, ma l'ingiustizia del male minacciato - v. Sez. 6, n. 37475 del 21.1.2014-, va evidenziato che, diversamente dal delitto di concussione ex art. 317 c.p., nel delitto di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. manca l'abuso costrittivo da parte del pubblico agente e la condizione del destinatario non è quella di chi, senza alcun vantaggio indebito per sè, viene stretto fra l'alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita, perchè la condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale - disponendo di più ampi margini decisionali - finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di conseguire quel vantaggio, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Rv. 258470; Sez. 6, n. 6846 del 12/01/2016, Sez. 6, n.32594/15 e Sez. 6, n. 47014 del 15/07/2014, Rv.
261008).
Nel caso di specie, non risultando individuabile alcun vantaggio indebito per le persone offese, ma chiaramente rilevabile l'abuso nella condotta dell'imputato, in quanto, facendo leva sulla sua funzione ed evocando controlli e svantaggi, derivanti dal non essere disponibili nei suoi confronti per il solo fatto di essere un finanziere, dunque, prospettando un male ingiusto, costringeva le persone offese ad elargirgli, sistematicamente, servizi e consumazioni gratuite, deve ritenersi integrato il delitto di concussione, come correttamente ritenuto dai giudici di merito.
2. Parimenti infondato è il secondo motivo, in quanto la differente qualificazione giuridica attribuita dalla Corte alle condotte poste in essere dal G. e dal Gravina, asseritamente analoghe a quelle contestate all'imputato, è giustificata dall'assenza di minacce o di violenza. Infatti, a pag. 44 della sentenza impugnata è chiaramente evidenziato che non risulta che i due imputati avessero ottenuto prestazioni ed utilità gratuite con violenza o minaccia.
Ritenuta, pertanto, corretta ed immune da vizi logici la sentenza impugnata, il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G. G. per essere il reato di concussione in danno di B. G. estinto per morte dell'imputato.
Rigetta il ricorso di Z.G.V. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 2 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2016