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Concussione, induzione indebita e corruzione

di Andrea Antonio Salemme


Concussione, induzione indebita e corruzione



Sommario:


 

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1. Aggiornamenti normativi

I delitti contro la pubblica amministrazione costituiscono terreno di sperimentazione di continue riforme, nel tentativo di adeguare il sistema repressivo alla realtà di un malcostume purtroppo radicato e dilagante nel governo della cosa pubblica. L’ultima risale alla legge 27 maggio 2015, n. 69 (in Gazz. Uff., 30 maggio 2015, n. 124), che, in disparte l’inasprimento delle previsioni edittali sia delle pene principali sia anche di quelle accessorie, spicca per l’individuazione di un movente economico comune all’intera serie dei delitti previsti e puniti dagli artt. 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis cod. pen. Essi sono tutti avvinti in una nuova frontiera della politica di contrasto, finalizzata, non tanto al risarcimento del danno economico e sociale, quanto piuttosto alla sottrazione dell’ingiusta locupletazione – quale parte minima, ma normativamente supposta esistente, di un più ampio pregiudizio espressamente fatto salvo – che il soggetto ha ritratto dalla condotta illecita. Nel dettaglio, viene in rilievo anzitutto l’art. 2, che, con l’intento di compulsare condotte “ripianatorie”, introduce un comma terzo all’art. 165 cod. pen., per effetto del quale, “nei casi di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, fermo restando il diritto all’ulteriore eventuale risarcimento del danno”. Viene in rilievo, poi, l’art. 4, che introduce l’art. 322-quater cod. pen., a termini del quale, “con la sentenza di condanna” per i predetti reati, “è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno”.

L’art. 322-quater cod. pen. parrebbe avere la funzione di chiudere, in chiave processuale, l’anticipazione applicativa del comma terzo dell’art. 165 cod. pen., destinato a rilevare già in sede di indagini preliminari agli effetti dell’art 275, comma secondo-bis, cod. proc. pen.

Nondimeno le discrasie sono evidenti: oltre all’atecnicismo di un inedito ordine di pagamento che esula dai binari della confisca, detto ordine, che è rivolto in favore della pubblica amministrazione cui il soggetto appartiene, non necessariamente coincidente con quella lesa, perde per strada il profitto, rimanendo confinato all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto.

Viene in rilievo, infine, l’art. 6, che introduce un comma primo-ter all’art. 444 cod.. proc. pen., volto a stabilire che “nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale [– sicché scompare la corruzione dell’incaricato di pubblico servizio ex art. 320 cod. pen. –] l’ammissibilità [– e non semplicemente la positiva delibabilità –] della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato”: ciò che genera problemi di difficile coordinamento con la previsione della confisca obbligatoria anche per equivalente – legittimante in indagini il sequestro preventivo “a cognizione contratta” ex art. 321, comma secondo, cod. proc. pen. – ai sensi dei commi primo e secondo dell’art. 322 cod. pen. È in tale contesto che interviene l’ennesima interpolazione dell’art. 317 cod. pen., mediante l’inserimento, quale soggetto attivo della concussione, accanto al pubblico ufficiale, nuovamente dell’incaricato di pubblico servizio: dicesi nuovamente perché era stata la versione introdotta dalla legge l. 6 novembre 2012, n. 190, ad espungere la figura dell’incaricato di pubblico servizio, introdotto dalla versione risalente alla legge 26 aprile 1990, n. 86, a modifica della formulazione originaria che, invece, non lo contemplava.



2. La concussione

Fermo quanto precede, è noto che la differenza più importante tra il testo risultante dalla legge n. 190 del 2012, trasfuso in parte qua nell’attuale, e quello risultante dalla legge n. 86 del 1990 risiede nell’eliminazione dell’induzione quale modalità della condotta alternativa rispetto alla costrizione. Conseguentemente si è persa la figura della c.d. “concussione per induzione”, consistente in un’esortazione così penetrante da convincere – nel senso etimologico del termine, che rimanda all’azione di cum vincere – il soggetto passivo viepiù non ad un’attività qualsiasi ma ad un dare o promettere denaro o altra utilità. La perdita è stata compensata dall’introduzione dell’induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater cod. pen., che, nella conformazione iniziale ex lege n. 190 del 2012, differiva dalla concussione sia, come visto, perché estendeva la punibilità all’incaricato di pubblico servizio sia, soprattutto, perché prevedeva una cornice edittale di gran lunga più favorevole a fronte di una condotta ritenuta, in quanto meramente induttiva, meno grave di quella costrittiva.

Oggi, con la legge n. 69 del 2015, la diversità soggettiva si è annullata e quella sanzionatoria grandemente ridotta, dal momento che la concussione è punita con la reclusione da sei a dodici anni e l’induzione è punita con la reclusione da sei anni a dieci anni e sei mesi. Per l’effetto il problema centrale dell’individuazione del discrimen tra costrizione ed induzione, che sino alla legge n. 69 del 2015 spiegava effetti pratici rilevantissimi per la sensibile attenuazione del trattamento sanzionatorio della seconda, è destinato in prospettiva a mantenere rilevanza, sì, ma per diverse ragioni: sul piano attivo, ai limitati fini del pur sempre persistente maggior limite edittale massimo della prima; sul piano passivo – rectius, “passivo-attivo” – ai ben più rilevanti fini della punibilità altresì dell’indotto, chiamato dal comma secondo dell’art. 319-quater cod. pen. a rispondere, sebbene con l’assai più mite pena della reclusione sino a tre anni, per il fatto in sé di dare o promettere il denaro o l’utilità anelata dall’induttore ex comma 1, secondo uno schema che avvicina la fattispecie (e perciò pone problemi di definizione dei confini rispetto) alla corruzione ex artt. 318 e 319 cod. pen. Sugli argomenti così per sommi capi riassunti spiccano nel 2015 due sentenze le quali, valorizzando la differenza tra le nozioni di costrizione ed induzione sul piano della maggiore o minore intensità della pressione psicologica esercitata sul soggetto passivo dal pubblico funzionario, si pongono in contrasto rispetto ad altro radicato orientamento (ribadito da ultimo da Sez. VI, 12 novembre 2014, n. 50482, Castellani, Rv. 261200), secondo cui il crinale è invece segnato dalla tipologia del danno prospettato, che sarebbe contra ius nel delitto di concussione e secundum o al limite praeter ius in quello di induzione indebita. Dette sentenze, nonostante l’introduzione dell’induzione indebita, recuperano uno spazio concettuale alla costrizione non limitato all’ipotesi, che suonerebbe di scuola, della coartazione fisica o materiale: così facendo, però, accedono per forza di cose alla semantica dell’intimidazione. Nondimeno, poiché l’induzione, per essere cogente, deve trascendere in una vera e propria sopraffazione o prepotenza, per di più non finalizzata a se stessa ma sostanzialmente ricattatoria, la sua verificazione costituisce comunque un’evenienza rara. Tant’è che Sez. II, 5 maggio 2015, n. 23019, Adamo, Rv. 264278 – recuperata una definizione di costrizione come comportamento del pubblico ufficiale che agisce con modalità o forme a tal punto pressanti da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, il quale solo per evitare il danno minacciatogli si rassegna alla dazione o alla promessa – nondimeno esclude che costituisca concussione (paventando l’eventualità che possa costituire abuso d’ufficio ex art. 323 cod. pen.) la condotta di un presidente di provincia consistente nell’aver indotto, abusando delle funzioni, il responsabile dei servizi sociali del medesimo ente a sospendere il pagamento delle rette degli studenti ospiti di un centro educativo con l’obiettivo, effettivamente conseguito, di ottenere le dimissioni del direttore del centro stesso e la nomina al suo posto di persona politicamente gradita. L’esplicitazione teorica del ragionamento pare idealmente potersi cogliere nella trama di Sez. VI, 10 marzo 2015, n. 22526, P.G. in proc. B., Rv. 263769, che, qualificata l’intimidazione in termini di esteriorizzazione così pregnante da risolversi in un sopruso impeditivo di vie d’uscita, coerentemente reputa insufficiente lo stato di timore riverenziale o autoindotto del pubblico ufficiale (nella specie, un funzionario di polizia) destinatario di una richiesta illegittima proveniente da un altro pubblico ufficiale rivestito di una posizione, più che sovraordinata, di supremazia (nella specie, un’alta carica dello Stato), in un caso in cui il secondo aveva formulato una pretesa “impropria e scorretta” in direzione del primo, senza però accompagnarla con comportamenti positivi orientati a suggestionarlo, persuaderlo o convincerlo.


3. L’induzione indebita a dare o promettere utilità, con particolare riguardo alla distinzione dalla concussione

La posizione che, nella concussione, incentra l’analisi sulla pregnanza della condotta piuttosto che sull’antigiuridicità del danno, minacciato, o anche solo prospettato, eppur altrimenti evitabile, rende incerta l’alterità della costrizione rispetto all’induzione, non tanto perché determina l’importazione dell’induzione nell’alveo costrittivo, quanto piuttosto perché la costrittività dell’induzione, costruita su basi di intensità in un sinolo quali-quantitativo, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice anzitutto di merito in relazione a tutte le circostanze del caso concreto.

Tra esse vengono in linea di conto anche le qualità soggettivoistituzionali della vittima, dacché, come la S.C. non ha mancato di sottolineare nella sent. n. 22526 del 2015, cit., Rv. 263770, entrambi i delitti di concussione ed induzione indebita ammettono che il destinatario della pressione abusiva possa anche essere un altro pubblico ufficiale; tuttavia, presa a parametro la libertà di autodeterminazione di quest’ultimo, gli effetti coartante od induttivo devono essere particolarmente incombenti, atteso l’“elevato grado di resistenza che ci si aspetta” – e, sia consentito di aggiungere, che è esigibile in dipendenza dal dovere di disciplina ed onore ex art. 54, comma secondo, Cost. – “dal soggetto che riveste la qualifica pubblicistica, il quale, secondo la fisiologica dinamica dello specifico rapporto intersoggettivo, deve rendere recessiva la forza intimidatrice o persuasiva di cui è oggetto”. Su altro piano, detta posizione è suscettiva di ridurre l’ambito operativo dell’art. 317 cod. pen. a favore dell’art. 319-quater cod. pen. sulla base del presupposto che l’induzione costringente rappresenta una specializzazione dell’induzione per così dire “semplice”. Ciò detto, peraltro, sorge necessità di precisare incidentalmente che la rilevanza dell’induzione nell’art. 319-quater cod. pen. poggia, per effetto del comma secondo, su un sostrato di sinallagmaticità presupponente il coinvolgimento dell’indotto, il quale è a tal punto compreso nell’“inter-relazione” soggettiva, che può impedire che l’iniziativa del pubblico funzionario giunga a compimento ricusando di cedere alle sue pressioni. In tal caso – alla stregua di Sez. VI, 22 luglio 2015, n. 46071, S. (occupatasi di un giudice civile assegnatario di un sequestro ante causam che, in cambio dell’esito favorevole del procedimento, con la complicità di un intermediario, aveva costretto il convenuto a promettere il versamento di una tangente, da questi parzialmente corrisposta dopo la denunzia sotto il controllo delle forze dell’ordine) – si profila un’ipotesi di tentativo, dacché la richiesta del pubblico funzionario non va a buon fine per un fatto esterno costituito dalla contraria volontà dell’interlocutore.

Tornando funditus all’art. 319-quater cod. pen., il compimento della ricostruzione dell’intensità dell’induzione in funzione altresì del coinvolgimento dell’indotto, e, quindi, il pieno apprezzamento degli effetti che sul piano qualificatorio ne derivano, si registra in Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 32594, Nigro, Rv. 264424, chiamata a giudicare delle condotte di un carabiniere che si era fatto consegnare somme di danaro, in un caso, da una persona cui poco prima aveva contestato una violazione stradale e sequestrato il veicolo, prospettandole l’opportunità di evitare così ulteriori controlli, e, nell’altro, da un cittadino extracomunitario in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno, in cambio del rilascio di una formale dichiarazione di ospitalità sottoscritta da un terzo, al fine di evitare l’espulsione.

La S.C., nel propendere per la qualificazione dei fatti ai sensi dell’art. 319-quater cod. pen. anziché ai sensi dell’art. 317 cod. pen., si profonde, sì, in una definizione di induzione “semplice” quale “persuasione, suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante – rispetto all’abuso costrittivo tipico del delitto di concussione di cui all’art. 317 cod. pen., come modificato dalla predetta l. n. 190 – della libertà di autodeterminazione del destinatario”, ma lo fa per ritagliare corrispondentemente in capo a quest’ultimo “più ampi margini decisionali” che gli lasciano uno spazio sufficiente a “prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato [a sua volta] dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale”: ed è proprio siffatto tornaconto personale – soggiunge la Corte – “che giustifica la previsione di una sanzione [anche] a suo carico”.

Cercando di sistematizzare il ragionamento fatto proprio dalla pronuncia che ne occupa, al contrario di quanto sostenuto da voci critiche della dottrina intese a sottolineare un classico ritorno al passato della giurisprudenza di legittimità attraverso il recupero ermeneutico della concussione per induzione, differentemente che nel passato, nella modulazione dell’intensità dell’induzione per saggiarne la cogenza agli effetti concussivi piuttosto che la minore pregnanza agli effetti dell’art. 319-quater cod. pen. entra la verifica – non astratta, ma positiva e concreta – della posizione del destinatario dell’azione illecita: il quale, invero, su un piano di realtà, può partecipare alla dinamica induttiva o come vittima tout court, per l’effetto costretta a fare quel che altrimenti non farebbe, o come vittima consapevole del sopruso ma comunque disposta a profittarne. Coglie con lucidità la questione Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 8963, Maiorana, Rv. 262503, che ha l’accortezza di sottolineare come l’eventuale costrittività dell’induzione, rilevante ex art. 317 cod. pen., non sia elisa ex abrupto da un vantaggio prospettato quale conseguenza della promessa o della dazione indebita dell’utilità, se però il rilievo di un utile immediato e contingente per il destinatario dell’azione illecita è travolto da un male ingiusto di portata assolutamente spropositata: donde, nuovamente, pur seguitando ad essere centrale la forza soverchiante dell’intimidazione, tuttavia il fuoco dell’accertamento si allarga per tener conto del peso del male ingiusto rispetto all’utile in ipotesi concorrentemente perseguito dal destinatario.

Nondimeno, se il vantaggio prospettato è consistente, ricorre la fattispecie dell’art. 319-quater cod. pen., non solo alla stregua dell’opzione che valorizza tale dato quale indice di un altrettanto consistente residuo spazio di autodeterminazione del soggetto passivo, che pertanto non può dirsi schiacciato da un’induzione costrittiva, ma anche, e forse soprattutto, alla stregua di quell’altra opzione, dianzi cennata, che, sul presupposto per cui entrambe le fattispecie ex artt. 317 e 319-quater cod. pen. richiedono una prevaricazione del pubblico ufficiale tale da ingenerare una posizione di soggezione dell’interlocutore, fa assurgere a criterio discretivo tra l’una e l’altra rispettivamente la prospettazione da parte del pubblico funzionario di un danno ingiusto ovvero l’esistenza di un vantaggio per l’interlocutore stesso: ciò detto, quel che preme di rilevare è che – secondo la S.C. – “gli attuali artt. 317 e 319-quater cod. pen. sono in rapporto di perfetta continuità col previgente art. 317 cod. pen.”, atteso che la combinazione delle attuali disposizioni in punto di concussione e di induzione indebita copre, dal lato del pubblico funzionario, l’area in allora coperta dalla sola concussione; pertanto, non essendo l’induzione richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319-quater, comma primo, cod. pen. diversa da quella del previgente art. 317 cod pen. e non modificando la struttura bilaterale del nuovo reato la posizione del pubblico funzionario, dal punto di vista della successione di leggi penali nel tempo, non v’è abolitio della vecchia concussione per induzione, ma continuità tra essa e l’induzione indebita di nuovo conio, continuità comportante la prevalenza del trattamento sanzionatorio relativo a quest’ultima quale lex mitior ex art. 2, comma quarto, cod. pen. (Sez. VI, 23 luglio 2015, n. 42607, Puleo). Il discorso che si va esponendo è foriero altresì di ricadute processuali, le quali si manifestano ad esempio in relazione alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello. Premesso che l’attivazione del corrispondente potere, di cui all’art. 603, comma primo, cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice d’appello di non poter decidere allo stato degli atti senza ulteriori acquisizioni proiettate su temi dirimenti, e rilevato che la decisione circa l’esercizio o il mancato esercizio del potere stesso è censurabile in cassazione esclusivamente sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione, a detto giudice soltanto competendo gli apprezzamenti di merito, è nondimeno censurabile la decisione della corte d’appello di non acquisire un documento in astratto fondamentale per valutare se la condotta abusiva posta in essere da un pubblico ufficiale per conseguire una somma di denaro da un privato implicasse comunque la successiva realizzazione di un indebito tornaconto per quest’ultimo: l’efficacia dirimente di detto documento si apprezza a misura dell’incidenza sulla qualità dell’abuso, eventualmente ai fini di una qualificazione residuale di induzione semplice punibile ex art. 319-quater cod. pen. anziché ex art. 317 cod. pen. (Sez. VI 13 gennaio 2015, n. 8936, Leoni, Rv. 262620).

In conclusione, sia consentito di osservare che detta qualificazione residuale è perfettamente coerente con la clausola di salvezza con cui apre il comma primo dell’art. 319-quater cod. pen.


4. Concussione ed abuso d’ufficio

La circostanza che concussione ed induzione indebita, sul lato rispettivamente del concussore e dell’induttore, differiscano soltanto per la condotta costrittiva del primo e meramente induttiva del secondo apre uno spazio di condivisione del concetto di abuso della posizione pubblica, e quindi delle funzioni e dei poteri ad essa connessi, che accomuna l’una e l’altra nell’esigenza di perimetrazione rispetto alla principale figura repressiva dell’abuso nell’esercizio di potestà pubbliche, ossia l’abuso d’ufficio ex art. 323 cod. pen.

Quanto alla concussione, la Corte ha avuto per la prima volta occasione di occuparsene ex professo sotto il profilo del principio di necessaria correlazione tra imputazione e sentenza proclamato dall’art. 521 cod. proc. pen. In termini generali, occorre premettere che la portata del principio in parola dovrebbe aver raggiunto un definitivo assetto grazie a Sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci, Rv. 264438, che – intervenuta peraltro in una fattispecie doppiamente significativa ai fini del presente scritto, poiché l’imputato era stato condannato in primo grado per il delitto di concussione e in appello per quello di corruzione – ha enunciato un principio di diritto improntato a compendiare secondo ragionevolezza le insopprimibili esigenze della difesa con la capacità evolutiva dell’accusa al cospetto dell’istruttoria.

Invero, secondo il Massimo Consesso, la diversa qualificazione giuridica del fatto ad opera del giudice d’appello pur in assenza di una richiesta in tal senso del pubblico ministero “non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono”.

Tornando alle differenze tra concussione ed abuso d’ufficio, Sez. VI, 18 febbraio 2015, n. 10140, Bossi, Rv. 262802, sembra aver fatto applicazione ante litteram dell’insegnamento testé esposto, atteso che, ricostruendo il principio dell’art. 521 cod. proc. pen. in termini non meccanicistici ma sostanzialistici, in vista di quello scopo di salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato che ne rappresenta la ratio, mostra di aver riguardo non già ad un’eterogeneità in astratto tra concussione ed abuso d’ufficio, bensì ad un’eterogeneità pertinente al fatto di reato siccome contestato, propendendo per la violazione del principio stesso (solo) se il capo d’imputazione difetta dell’“indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né [– valga evidenziare –] consente di ricavarli in via [– anche solo –] induttiva”.

La qual cosa si verifica quando, come nella vicenda sottoposta alla cognizione della S.C., ritenuto in sentenza l’abuso d’ufficio a fronte di una contestazione di concussione, il capo d’imputazione non contiene “alcuna indicazione in ordine alla norma di legge violata, né all’ulteriore requisito, richiesto dall’art. 323 cod. pen., dell’ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato”. Lo spiccato valore di tale decisione è duplice, sia perché, sul piano del diritto sostanziale, individua i principali elementi di differenziazione – ancorché non specializzanti ex art. 15 cod. pen. – che qualificano l’abuso d’ufficio rispetto alla concussione; sia però anche, e forse soprattutto, perché, sul piano del diritto processuale, ammette la possibilità che un capo d’imputazione sufficientemente dettagliato nella descrizione del fatto possa contenere oltretutto per implicito elementi atti a condurre ad una condanna per abuso d’ufficio pur ove, in forza di una prospettiva maggiormente concentrata sulla costrizione piuttosto che sulla qualificazione della condotta debordante dal perimetro delle attribuzioni funzionali del pubblico funzionario, l’accusa avesse mirato ab origine a sostenere la ricorrenza della concussione.

Spingendo il discorso verso un approdo ulteriore, potrebbe speculativamente attingersi la questione dell’ammissibilità, nelle evenienze più dubbie, di una contestazione alternativa.


5. Induzione indebita ed abuso d’ufficio

È di per se stesso significativo che il tema di quella che può essere definita come un’“interdipendenza qualificatoria” tra abusività (induttiva) da una parte e abuso stretto dall’altra consti affrontato in termini non dissimili pur dall’angolo di visuale dell’induzione indebita. Invero Sez. VI, 7 maggio 2015, n. 36676, P.M. in proc. Serino e al., Rv. 264579, ha avuto occasione di dire – anche in questo caso, per la prima volta – che, se un fatto non è sussumibile nella fattispecie dell’induzione indebita ma è passibile di inquadramento alla stregua di una violazione dell’art. 323 cod. pen., al G.U.P. è impedito di emettere sentenza di non luogo a procedere, giacché la sussistenza dei presupposti per il rinvio a giudizio gli conferisce il potere di attribuire al fatto stesso una diversa qualificazione giuridica, coerente con le risultanze degli atti.

Al di là del punto concernente i poteri del G.U.P. nell’adozione dei provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare ex art. 424 cod. proc. pen., il profilo saliente della decisione in parola sta in ciò che, pur dinanzi ad un assetto istruttorio non consolidato qual è quello di detta udienza, il giudice non recepisce passivamente la qualificazione di concussione posta dal P.M., ma è abilitato ad individuare nella storicità del fatto i tratti tipici dell’abuso d’ufficio.

A mo’ di chiusura sull’argomento nel suo complesso, osservasi che in tanto le evidenziate tendenze processuali hanno ragion d’essere, in quanto, a priori, come l’art 319-quater, comma primo, cod. pen. fa salva la configurabilità di reati più gravi, in relazione segnatamente alla concussione, così l’art. 323, comma primo, cod. pen. replica la formula di salvezza, tratteggiando la priorità, nell’ordine, della concussione e dell’induzione indebita, in modo da determinare la residualità dell’abuso d’ufficio.


6. Concussione, induzione indebita e fattispecie a partecipazione necessaria della vittima

Sotto diverso profilo, la circostanza che la concussione colpisca condotte non solo spiccatamente coercitive la avvicina all’induzione indebita nell’esigenza di un’actio finium regundorum rispetto a toni dell’intimidazione orientati (anche) al raggiro della vittima. In tale prospettiva possono essere messe a confronto due pronunce della S.C., l’una incentrata sulla concussione, l’altra sull’induzione indebita. Quanto alla prima, ponendosi nella scia di un orientamento consolidato, Sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 8989, Galletta, Rv. 262796 – a proposito del caso di un assistente sociale che, incaricato delle relazioni per la concessione di misure alternative, prospettando al destinatario di un ordine di carcerazione la possibilità di ottenere il beneficio grazie all’interessamento di un amico poliziotto, s’era fatto dare dal predetto una somma in contanti da consegnare a quest’ultimo affinché intervenisse sul magistrato di sorveglianza – rileva che integra la materialità del millantato credito aggravato ex art. 61, numero 9, cod. pen., e non della concussione, una condotta del pubblico ufficiale pur sempre atta ad indurre la vittima a dare o promettere alcunché, epperò connotata dal raggiro concernente la falsa rappresentazione di una situazione di grave pregiudizio e la proposta di comprare i favori di inesistenti pubblici ufficiali per ottenere un risultato alla stessa favorevole.

Sul versante dell’induzione indebita, Sez. VI, 27 aprile 2015, n. 17655, Satta e al., Rv. 263657, ha dovuto cimentarsi nel delinearne l’alterità rispetto alla truffa, enunciando il principio per cui si configura quest’ultima, e non la prima, quando l’induzione del pubblico ufficiale sulla vittima affinché lo remuneri per ottenere la sua protezione passa attraverso la simulazione di un pericolo immaginario sovrastante la medesima, non per alcunché di intrinsecamente afferente l’induzione, ma, e qui sta il proprium di una motivazione rimarchevolmente incentrata sulla diversa “dinamica” delle due fattispecie, per “la mancanza della condizione di assoggettamento della persona offesa all’esercizio di una potestà altrui” (il caso era quello di un appartenente all’Arma dei carabinieri accusato di aver indotto la persona offesa a corrispondere a lui e ad un complice somme di danaro in cambio della promessa di una maggiore vigilanza a fronte di inesistenti pericoli per l’incolumità della medesima: originariamente tratto a giudizio per rispondere di concussione, il giudice di seconde cure aveva derubricato l’imputazione in induzione indebita; la S.C., correggendo d’ufficio la sentenza impugnata, ha ritenuto di riqualificare i fatti come truffa pluriaggravata ex artt. 61, numero 9, e 640, comma secondo, numero 2, cod. pen.).


7. La corruzione

Il carattere di reato a concorso necessario ed a struttura bilaterale della corruzione è stato riguardato dalla Corte di cassazione anzitutto con riferimento al diritto processuale. Due sentenze gemelle, Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 23682, Russo e al., Rv. 263842, e Sez. VI, 14 maggio 2015, n. 23683, Portone, hanno riaffermato che può andar soggetta a revisione in relazione alla lettera a) del comma primo dell’art. 630 cod. proc. pen. (secondo cui “la revisione può essere richiesta … se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale”) la sentenza irrevocabile emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti del corruttore ove sia passata in giudicato la sentenza di assoluzione del pubblico ufficiale perché il fatto non sussiste, attesa l’inconciliabilità delle due pronunce derivante dall’impossibilità di ipotizzare alcuna forma di corruzione in assenza dell’attività coordinata del corruttore e del corrotto.

Trattasi di affermazione coerente, prima ancora che con istanze di equità, con la costruzione della fattispecie corruttiva in termini di ricezione da parte del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (artt. 318, 319 e 320 cod. pen.) e, specularmente, di dazione da parte del privato (art. 321 cod. pen.).


8. Bilateralità della corruzione, responsabilità dell’intermediario, autonoma punibilità di chi commette millantato credito

Di gran lunga più interessanti sono tuttavia le analisi della bilateralità al cospetto del diritto sostanziale, in quanto imperniate sul problema dell’allargamento soggettivo dell’area della punibilità: problema che, al di là della regola dell’equiparazione di tutti i compartecipi nella responsabilità in funzione del concorso ai sensi dell’art. 110 cod. pen., è strutturale, e dunque costitutivo, perché impinge sul vincolo che, a prescindere da un vero e proprio sinallagma, rende la dazione o promessa del corruttore – per l’effetto anch’egli raggiunto da responsabilità ex art. 321 cod. pen. – propulsiva dell’esercizio infedele delle proprie funzioni e dei propri poteri (non importa se sub specie degli artt. 318 o 319 cod. pen.) da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.

Di conseguenza è l’architettura “siffattamente” bilaterale del concorso necessario a dover trovare adeguata sistemazione in confronto della concorsualità eventuale, che, proprio in forza dell’art. 110 cod. pen., non v’è ragione di negare (come in effetti non si nega nelle ipotesi di concorso dell’extraneus nel reato non bilaterale dell’intraneus). I nodi vengono al pettine con riguardo alla figura dell’intermediatore, o faccendiere, o più propriamente facilitatore, che ha il compito di curare i contatti tra corrotto e corruttore per fare in modo che le rispettive volontà raggiungano un piano di equilibrio nell’ottica di un’esecuzione pianificata delle reciproche “obbligazioni” criminose. La Corte ha avuto modo di ritornare sull’argomento in ben due occasioni.

La prima concerne una pronuncia intervenuta in un procedimento de libertate a proposito delle condotte di una persona non appartenente alla pubblica amministrazione che aveva assunto stabilmente la funzione di collegamento tra il pubblico ufficiale, suo diretto referente, ed il privato, il quale ultimo le erogava una remunerazione mensile a mo’ di corrispettivo di detti suoi servigi e nel contempo di remunerazione delle infedeltà contrarie ai doveri d’ufficio perpetrate dal pubblico ufficiale medesimo.

La S.C. ha reputato corretta l’attribuzione del fatto di reato a detta persona ex art. 110 cod. pen., in quanto il concorso eventuale nella corruzione è possibile, non solo se il contributo dell’extraneus si realizza nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all’uno o all’altro dei concorrenti necessari, ma anche se si risolve in un’attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra detti concorrenti (Sez. VI, 10 aprile 2015, n. 24535, Mogliani e al., Rv. 264124).

L’importanza sistematica della pronuncia di cui si tratta risiede in ciò che la corruzione non isola in un involucro impermeabile il rapporto tra corrotto e corruttore, sì che, confinatane l’illegittimità all’interno, possa aversi concorso del terzo solo nell’“attivazione” del rapporto stesso, facendo leva o sull’estremo superiore, quello del pubblico ufficiale, che formula la richiesta di avere o ricevere, o sull’estremo inferiore, quello del privato, che manifesta la disponibilità o accetta la richiesta di dare o promettere.

Poiché è il rapporto tra corrotto e corruttore in sé a stillare di illegittimità e, lungi dall’essere un meccanismo che scatta ad impulso, a dissolversi in una trama di contatti diretti ed indiretti, ben può configurarsi l’apporto di un terzo causalmente orientato a mandare a segno detti contatti nelle sembianze tipiche dell’intermediario, che dunque risponde di corruzione per concorso in quanto con la sua attività l’ha resa possibile o quantomeno agevolata (incidentalmente notasi che non v’è sovrapposizione con la c.d. mediazione onerosa ex art. 346-bis cod. pen., introdotta dalla legge n. 190 del 2012, giacché detta mediazione in realtà è solo eventualmente tale, la consumazione del reato presupponendo uno schema bipolare tra terzo ed intermediario e non una triangolazione con l’intraneus). Il rovescio della medaglia – scandagliato nella seconda delle due pronunce cui dianzi si accennava – risiede nell’impossibilità, nonostante l’intreccio tra diritto civile e diritto penale, di reputar raggiunta la prova dell’illegittimità del rapporto a fronte di una dazione o promessa in incertam personam priva di causa.

Ricorda Sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 1/2015, Pedrotti e al., Rv. 262919, che sicuramente vale il principio per cui non è presupposto indefettibile per l’affermazione di sussistenza di un fatto di corruzione l’individuazione dell’identità del funzionario corrotto, giacché diversamente si rinuncerebbe alla punizione ogniqualvolta questi, per qualsiasi causa, restasse ignoto; ma è comunque necessario fugare ogni dubbio sull’effettivo concorso di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, giacché, diversamente, la corruzione non si configurerebbe (viepiù non essendo ancora prevista nel nostro ordinamento la corruzione tra privati: infatti, a dispetto della rubrica, tale non è quella ex art. 2635 cod. civ.).

In siffatta prospettiva, la semplice consegna sine titulo di pur ingenti somme di denaro ad un intermediario è insufficiente a far affermare con certezza, in mancanza di ulteriori elementi, che si sia consumato un episodio di corruzione, ben potendo tale condotta integrare alternativamente altri reati. Si incrociano così due piani d’analisi concorrenti in una residua area di rilevanza del concorso corruttivo: da un canto, la mancanza di titolo della dazione o della consegna non è auto-dimostrativa della causa illecita, siccome corruttiva, dal momento che non è di per sé contra ius neppure sotto il profilo civilistico; dall’altro, la peculiarità della struttura bilaterale della corruzione esige la dimostrazione, anche indiziaria, quantomeno della cornice del rapporto tra corrotto e corruttore, affinché in connessione con la stessa possa apprezzarsi la consistenza dell’intermediazione (altrimenti non significativa perché aspecifica).

Ma non è tutto. Come visto, soggiunge la Corte che la consegna sine titulo ad un intermediario può integrare altri reati. Sul piano della teoria, ciò consente di istituire un collegamento con la sent. n. 8989 del 2015, cit., Rv. 262798, che, in tema di millantato credito con dazione o promessa assistita dal pretesto di dover comprare il favore di un pubblico funzionario o di doverlo remunerare ai sensi dell’art. 346, comma secondo, cod. pen., rievocato il principio dell’irrilevanza che il pubblico funzionario abbia o meno emesso il provvedimento, in quanto per la consumazione è sufficiente che l’agente si faccia dare o promettere l’utilità con il pretesto di doverlo corrompere, conclude che in tal guisa il millantato credito appresta “una tutela penale anticipata rispetto alle diverse ipotesi corruttive previste dagli artt. 318 e 319 cod. pen., configurabili quando la remunerazione sia effettivamente destinata al pubblico ufficiale, al fine di condizionarne l’attività”. Parrebbe di potersi dire, aprendo un nuovo fronte di riflessione, che l’insegnamento in parola è estensibile anche alla declinazione dell’induzione indebita, in funzione del comma secondo dell’art. 319-quater cod. pen.


9. I risvolti patrimoniali della corruzione

Si accennava in apertura che, in un’ottica forse di eccessiva semplificazione, i delitti contro la pubblica amministrazione sono considerati da una nuova sensibilità legislativa strumenti di ingiusta locupletazione ad opera di coloro che vi prendono parte.

Ciò è sicuramente vero nella corruzione, che al fondo punisce sia sul lato attivo che su quello passivo la remunerazione del pubblico funzionario per il compimento di un’infedeltà destinata a produrre benefici anche in capo al corruttore (ancorché detti benefici non finalizzino la condotta e pertanto non sfocino in una qualifica di specificità del dolo).

L’argomento denota profili di spiccata complessità per la molteplicità delle implicazioni che ne derivano.


9.1. Misure di prevenzione

Per iniziare, occorre por mente alla questione inedita dell’incidenza della dimensione patrimoniale della corruzione sulla valutazione di pericolosità sociale del corruttore quale presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione a suo carico. Se n’è occupata Sez. I, 17 luglio 2015, n. 31209, Scagliarini e al., Rv. 264321, che, accordando priorità al vaglio, oltreché dell’improntitudine del proposto alla delinquenza specifica, del profitto che egli abbia ritratto e seguiti a ritrarre dall’attività illecita, accede ad una rigorosa interpretazione letterale, intesa ad affermare che, nel giudizio di “pericolosità di un soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma primo, lett. b), del decreto di legislativo 6 settembre 2001, n. 159, il giudice della prevenzione, ove il reato oggetto di previa cognizione in sede penale sia rappresentato dal delitto di corruzione, non può prescindere dalla verifica, a carico del corruttore, della effettiva derivazione di profitti illeciti dal reato commesso, in ragione della testuale formulazione del citato art. 1, che richiede la constatazione di ricorrenti attività delittuose produttive di reddito”.


9.2. Responsabilità sanzionatoria degli enti

Altra implicazione degna di nota investe la responsabilità sanzionatoria degli enti, che rispondono della concussione, dell’induzione indebita e della corruzione in forza dell’art. 25 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231. Pacifico che siffatta responsabilità degli enti scatta per gli illeciti commessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, a motivo delle estrinsecazioni temporali del principio di stretta legalità anche a loro applicabile, pronunciando in tema di confisca del profitto, che la giurisprudenza suole qualificare come sanzione, Sez. V, 16 gennaio 2015, n. 15951, Bandettini e al., Rv. 263266, ritiene sì che la stessa sia legittima se il reato presupposto è stato consumato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 231 del 2001, ma nel contempo reputa irrilevante che il profitto sia stato conseguito da parte del destinatario della sanzione in un momento precedente alla commissione del reato e alla entrata in vigore della legge.

I motivi di interesse della decisione sono due. Il primo attiene alla circostanza che nella specie si verteva di corruzione consumatasi successivamente alla entrata in vigore del d.lgs n. 231 del 2001, con profitto, tuttavia, maturato anticipatamente in capo all’ente. È utile spiegare come ciò fosse possibile.

A fronte della corruzione di un giudice fallimentare, era stata costituita una società che, con l’autorizzazione di detto giudice, aveva acquistato da una procedura un bene immobile – di poi colpito da confisca – ad un prezzo inferiore a quello stimato, in cambio del conferimento di un incarico di lavoro alla convivente del predetto, con conseguente corresponsione in favore della medesima della retribuzione.

Alle censure difensive intese a denunziare l’anteriorità della data di acquisto dell’immobile rispetto al conferimento dell’incarico alla convivente e comunque all’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, la S.C. replica, - anzitutto, che è la consumazione del reato ad attribuire le definitive note di illiceità al profitto da esso derivante in capo all’ente, in qualunque momento qust’ultimo l’abbia conseguito (consumazione che, nel caso concreto, doveva reputarsi avvenuta con l’affidamento alla convivente dell’incarico da parte della società dopo che quest’ultima aveva spuntato condizioni favorevoli per l’acquisto dell’immobile, percependo dal suo coinvolgimento nell’attività delittuosa un autentico profitto per l’effetto confiscabile); - secondariamente, che il carattere retroattivo o meno dell’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 va stabilito in base alla data di consumazione del reato, e non a quella, eventualmente precedente, del conseguimento del relativo profitto in capo all’ente, giacché ritenere il contrario significherebbe pretermettere che, proprio in conformità alla dedotta funzione sanzionatoria, la responsabilità da reato dell’ente non può che avere quale riferimento il fatto illecito in sé e per sé (fatto illecito, nuovamente, che solo in seconda battuta qualifica di illiceità, al compiersi della fattispecie attraverso la consumazione, altresì il profitto).

La complessità del caso concreto dischiude un orizzonte sistematico di indiscutibile ampiezza, dal momento che fa risaltare sul versante della tipicità del fatto come l’ininfluenza del profitto nella gestione dei rapporti tra corrotto e corruttore non impedisca il recupero della sua rilevanza nel diritto sanzionatorio degli enti, ove il criterio di attribuzione della responsabilità del reato non è la partecipazione concorsuale dell’ente allo stesso, ma l’essere stato il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio (art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001).

La convergenza delle due prospettive consente di far assurgere al grado di presupposto della confisca del profitto, in quanto illecito, anche quello consolidato prima della maturazione in sé della corruzione nel contesto di un piano cui l’ente risulta asservito (potendo peraltro l’ente stesso venire ad esistenza, come nel caso deciso dalla S.C., persino dopo l’ideazione di detto piano, proprio in funzione del buon fine dell’operazione). Venendo al secondo motivo di interesse, la pronuncia di cui si tratta va ricordata, però, altresì perché il punto dell’irrilevanza dell’anteriorità del profitto agli specifici fini dell’applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001 non può aversi per pacifico.

Essa si pone in perfetta sintonia con Sez. VI, 12 aprile 2011, n. 14564, Aurora s.r.l., Rv. 249378, che, giudicando (ed è sintomatico) pur’essa di una fattispecie di corruzione, già aveva indicato la linea della scissione tra la prospettiva della consumazione del reato e quella del conseguimento del profitto, affermando che “la sanzione della confisca del profitto del reato presupposto è applicabile esclusivamente quando la data di consumazione di quest’ultimo è successiva a quella dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, risultando invece irrilevante il momento in cui il suddetto profitto è stato in tutto o in parte effettivamente conseguito”.

Di diverso sebbene non propriamente contrario avviso è invece Sez. II, 21 dicembre 2006, n. 316/2007, Spera, Rv. 235363, che, avendo peraltro riguardo non alla confisca tout court ma alla sola confisca per equivalente, prevista per le persone fisiche dall’art. 322- ter cod. pen. e, per le persone giuridiche, dall’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001, esclude l’operatività del sequestro preventivo – previsto, rispettivamente, dall’art. 321 cod. proc. pen. e dall’art. 53 d.lgs. n. 231 del 2001 – in relazione a somme percepite anteriormente all’entrata in vigore di dette norme (pur tenendo conto, alla luce della rateizzazione delle erogazioni sostanzianti la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche oggetto di giudizio, della sua natura di reato a consumazione “prolungata”, iniziata con la percezione della prima rata anteriormente all’entrata in vigore delle norme summenzionate e conclusasi successivamente).


9.3. Confisca di prezzo o profitto e confisca diretta o per equivalente

Resta un ultimo tema cui si deve accennare a proposito della patrimonialità della corruzione, nuovamente in rapporto alla confisca.

Viene in linea di conto ancora la monumentale sent. delle Sez. un. n. 31617 del 2015, cit., siccome intervenuta in un’ipotesi in cui i giudici di merito avevano riqualificato i fatti, originariamente contestati sub specie della concussione, in corruzione – per l’accertata maturazione di un vero e proprio accordo tra i comparteci – nondimeno prescritta. Ben noti sono i principi di assoluta importanza applicativa enunciati dal Massimo Consesso: - in caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il giudice può – rectius, deve – disporre non solo la confisca del prezzo ex art. 240, comma secondo, numero 1), cod. pen., ma altresì la confisca diretta sia del prezzo sia però anche del profitto del reato ex art. 322-ter cod. pen., a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Rv. 264434); - consistendo il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo in denaro, “la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato” (Rv. 264437).

Al di là del merito di siffatte affermazioni, che hanno suscitato un vivace dibattito in dottrina, fondamentale è soffermarsi sul ragionamento in esito al quale è tratta l’equiparazione, in specie nei delitti contro la pubblica amministrazione, cui peraltro si applica l’art. 322-ter cod. pen., del profitto al prezzo del reato. Leggesi in parte motiva che “la logica che coinvolge e giustifica la obbligatoria confisca del prezzo del reato in base alla generale previsione dettata dall’art. 240, secondo comma, cod. pen. non risulta diversa da quella che ha indotto il legislatore ad introdurre previsioni speciali di confisca obbligatoria anche del profitto del reato”, atteso che non tutti i reati conoscono un sinallagma a base remunerativa dispiegantesi nella corresponsione di un prezzo quale controprestazione dell’illecito. Sicché nei reati che contemplano un lucro come vantaggio economico ottenuto in via diretta dalla commissione del fatto, è detto lucro, quale profitto, a tener luogo del prezzo: “di qui” – rimarca la Corte – “l’attrazione, accanto al prezzo, anche del profitto del reato, all’interno di un nucleo per così dire unitario di finalità ripristinatoria dello ‘status quo ante’, secondo la medesima prospettiva volta a sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore”.

Donde, nell’ottica del recupero di un minimo di effettività del sistema sanzionatorio penale pur a fronte della scure della prescrizione, la conclusione della confiscabilità obbligatoria diretta, in caso di prescrizione, tanto del prezzo quanto del profitto, alla condizione, però, di un previo accertamento di rimproverabilità del fatto all’autore.

Donde però anche – ed è questo forse l’effetto più significativo – l’appaiamento di prezzo e profitto, purché accrescitivo, nel regime di confiscabilità diretta del tantundem quale surplus della massa di genere, individuabile – e proprio a motivo di ciò sottoponibile a vincolo (provvisorio o definitivo) – per differenza.

Tenuta incidentalmente presente l’innovatività della qualificazione come diretta della confisca del tantundem, dall’opinione dominante invece reputata per equivalente, è d’uopo concludere tracciando un parallelo con il sistema ex d.lgs. n. 231 del 2001 mediante il richiamo di Sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, Gubert, Rv. 258647, che ha affermato la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica (derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante), sul presupposto che l’ente non può considerarsi persona estraneo al reato commesso nel suo interesse, pur quando (come in relazione ai reati tributari) la fattispecie non è inserita nel catalogo degli artt. 24 ss. d.lgs. n. 231 del 2001. Sarà interessante verificare se, e come, i piani delle due sent. delle Sez. un. n. 31617 del 2015, cit., e n. 10561 del 2014, cit., avranno modo di intersecarsi.


Fonte: CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Ufficio del Massimario - Rassegna della giurisprudenza di legittimità - Gli orientamenti delle Sezioni Penali - Anno 2015 - Roma – Gennaio 2016

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