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Il mobbing sul luogo di lavoro integra il delitto di maltrattamenti in famiglia?

Sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia nei rapporti fra dirigente e dipendente di un'azienda di grandi dimensioni, fra sindaco e dipendente comunale, fra capo officina e meccanico e fra caposquadra e operaio?

Il mobbing sul luogo di lavoro è reato?

In punto di diritto, deve rammentarsi che, nel suo testo originario, l'art. 572 cod. pen. puniva "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o un minore degli anni quattordici o una persona sottoposta alla sua autorità o affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte".

Secondo il costante orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità sotto la vigenza di quel testo "l'art. 572 cod. pen. presuppone, quale condizione di fatto essenziale, la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto, nell'ipotesi di un rapporto di convivenza o di stabili relazioni affettive" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 23830 del 07/05/2013; Sez. 6, Sentenza n. 31121 del 18/03/2014).

In particolare, la Corte di Cassazione aveva rilevato che anche la convivenza pregressa, nell'ipotesi di coniugi separati, fosse condizione idonea a giustificare l'accertamento del reato, attesa la persistenza dei vincoli di solidarietà che ne conseguivano.

Così come la presenza dei figli doveva ritenersi di per sé suscettibile di riprodurre le condizioni di affidamento e sostanziale subordinazione psicologica, tipica della fattispecie in esame, poiché il loro accudimento continua a collegare i genitori in un vincolo solidaristico di fatto, ancorché circoscritto alla comune esigenza di educazione e cura dei figli, perché impone la permanenza dei contatti personali. L'articolo 4, comma 1 lettera d) legge 1 ottobre 2012 n. 172 ha però novellato il testo dell'art. 572 cod. pen. e ha recepito questi orientamenti, sicché oggi contempla i maltrattamenti contro familiari e conviventi, disponendo che "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni".

Il reato è dunque di suscettibile di perfezionarsi ove venga in rilievo un rapporto di coniugio o anche di convivenza, ché è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione che, per la consuetudine dei rapporti creati, implica l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.

In particolare, pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto è configurabile nei confronti di una persona non più convivente more uxorio con l'agente, quando questi conserva con la vittima una stabilità di rapporti dipendenti e dei doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell'educazione, nell'istruzione e nell'assistenza morale del figlio minore naturale, derivanti dall'esercizio congiunto della potestà genitoriale.

In questo caso, nel rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall'articolo 612 bis cod. pen., il reato di maltrattamenti assorbe quello di atti persecutori anche in caso di avvenuta cessazione della convivenza, se la tipologia della relazione fra l'agente e la persona indica il permanere di condizioni che richiedono solidarietà fra i due. Invece, si configura l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti nell'ambito di una comunità familiare, o determinati dalla sua esistenza e sviluppo, continuino nonostante la cessazione del vincolo familiare o comunque della sua attualità.

Inoltre, per la configurabilità del reato di maltrattamenti, non solo non occorre che la convivenza sia ancora in corso, ma non è necessario che essa abbia avuto una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l'esito di tale comune decisione.

E' quindi sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di solidarietà e a strette relazioni dovute a diversi motivi, come nel caso di una relazione sentimentale in cui vi sia stata un'assidua frequentazione dell'abitazione della persona offesa, tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale, o come nel caso in cui, con la vittima degli abusi, sia in essere un rapporto familiare di fatto, desumibile dall'avvio di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà e assistenza e caratterizzato da potenziale stabilità. Allo stesso modo, il reato può configurarsi in una situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di ogni forma di convivenza, se la filiazione non è stata solo una conseguenza occasionale di rapporti sessuali ma abbia, almeno nella fase iniziale del rapporto, generato una relazione affettiva con un aspettativa di solidarietà svincolata dagli obblighi giuridici connessi alla filiazione (Cass. Cass. sez. VI, 11 febbraio 2021 numero 17888).

Quanto ai rapporti diversi da quelli familiari o di convivenza fondata su una relazione affettiva, è orientamento unanime che "Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte poste in essere dai superiori in grado nei confronti di un appuntato dei Carabinieri) (Cass. sez. VI, 13 febbraio 2018 numero 14754).

Di conseguenza, il delitto di maltrattamenti deve escludersi quando il rapporto fra l'agente e la vittima è inquadrato all'interno di una dinamica relazionale complessa, la cui articolata disciplina è retta dalle norme del pubblico impiego, che ne delineano le forme di esercizio dei diritti e l'adempimento dei reciproci doveri, senza lasciare spazio all'instaurarsi di quella stretta ed intensa relazione con il suo dipendente, che appare in grado di determinare forme di soggezione di una parte nei confronti dell'altra, ovvero una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare.

 

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