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Colpa medica: condannato pediatra per omessa diagnosi di occlusione intestinale

Omissione diagnostica

Colpa medica

Il caso di studio riguarda una sentenza della corte di cassazione pronunciata in un procedimento penale a carico di un medico pediatra, accusato di aver causato la morte di una paziente di due anni e mezzo che presentava sintomi di occlusione intestinale (in particolare, vomito caffeano).

In particolare, al medico viene contestato il reato di omicidio colposo per avere, nonostante fosse informata dagli stessi genitori della bambina (di due anni e mezzo), del rifiuto della stessa di alimentarsi, della sussistenza nella piccola del sintomo del vomito incoercibile, divenuto caffeano, della sua grave disidratazione, omesso di prestare le adeguate cure alla bambina non accertando che la reidratazione fosse completata, non avendo richiesto l'ausilio di uno specialista medico o chirurgo, quando la bambina ebbe a perdere l'accesso venoso che garantiva la reintegrazione, e soprattutto non richiedeva o disponeva accertamenti strumentali, quali radiografia all'addome senza mezzo di contrasto, e non disponeva un monitoraggio specifico e costante sullo stato di salute della stessa, che pure presentava una sintomatologia specifica, quale vomito scuro, biliare o fecaloide, indicativo univocamente della possibilità di occlusione intestinale, e quindi di affidare le cure della bambina ad un chirurgo per la rimozione immediata del volvolo, che avrebbe con probabilità quasi prossima alla certezza evitato il decesso della minore.

All'esito del processo di primo grado, il medico veniva condannato per il reato di omicidio colposo e la sentenza di condanna veniva confermata nel successivo grado di appello.



Avverso la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello, l'imputato proponeva ricorso per cassazione.

Analizziamo nel dettaglio la decisione della suprema corte.

Autorità Giudiziaria: Quarta Sezione della Corte di Cassazione

Reato contestato: omicidio colposo ex art. 590 c.p.

Imputati: Medico pediatra

Esito: Ricorso rigettato (condanna definitiva) - sentenza n.39018/22 (ud. 27/09/2022, dep. 17/10/2022),


Indice:


1. L'accusa e le sentenze di condanna

La Corte di Appello di Messina, pronunciando nei confronti dell'odierna ricorrente D.M.G., con sentenza del 21/4/2021 confermava la sentenza con cui in data 11/9/2020 il Tribunale di Patti in composizione monocratica l'aveva condannata, riconosciutele le circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede in favore delle costituite parti civili M.G., G.G. e G.C., nonché al pagamento di una provvisionale di 50.000 Euro in favore di ciascuna delle suddette parti civili in quanto ritenuta responsabile del reato p. e p. dall'art. 589 c.p. per avere, nella sua qualità di medico pediatra di turno presso il P. O. di (Omissis) e Responsabile al momento del reparto di pediatria, agendo con negligenza ed imperizia nonché per non avere osservato i protocolli medici in materia, cagionato la morte di M.S. ed, in particolare, per avere, nonostante fosse informata dagli stessi genitori della bambina (di due anni e mezzo), del rifiuto della stessa di alimentarsi, della sussistenza nella piccola del sintomo del vomito incoercibile, divenuto caffeano, della sua grave disidratazione, omesso di prestare le adeguate cure alla bambina non accertando che la reidrata-zione fosse completata, non avendo richiesto l'ausilio di uno specialista medico o chirurgo, quando la M. ebbe a perdere l'accesso venoso che garantiva la reintegrazione, e soprattutto non richiedeva o disponeva accertamenti strumentali, quali radiografia all'addome senza mezzo di contrasto, e non disponeva un monitoraggio specifico e costante sullo stato di salute della stessa, che pure presentava una sintomatologia specifica, quale vomito scuro, biliare o fecaloide, indicativo univocamente della possibilità di occlusione intestinale, e quindi di affidare le cure della bambina ad un chirurgo per la rimozione immediata del volvolo, che avrebbe con probabilità quasi prossima alla certezza evitato il decesso della M.. In (Omissis).



2. I motivi di ricorso del medico:

Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei propri difensori di fiducia, la D., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.


2.1 I giudici hanno travisato le annotazioni della cartella clinica

Con un primo motivo si deduce violazione di legge con riferimento agli artt. 40,41,42 e 589 c.p. e art. 192 c.p.p..

Per i difensori ricorrenti le due sentenze di merito si basano essenzialmente sulle sole conclusioni del consulente del P.M. ed in minima parte sulle dichiarazioni dei genitori della piccola paziente -in particolare, della madre-, pretermettendo l'esame di altre (e decisive) fonti probatorie dichiarative e documentali, ma soprattutto travisando fondamentali annotazioni riportate nella cartella clinica.

Altri elementi di prova, poi, sebbene esaminati (ma per il ricorrente sarebbe più corretto affermare meramente citati) sarebbero stati riportati in modo parziale e spesso errato.

Si lamenta, tuttavia, che la lettura dei fatti operata dal Consulente del P.M. e di conseguenza dai giudici di merito, che secondo il ricorrente lo hanno pedissequamente seguito- si fonderebbe esclusivamente su considerazioni ex post, basate sul fatto che in sede autoptica è stata rilevata la "necrosi da volvolo dell'ileo": partendo da questo dato (il volvolo), che peraltro prima dell'autopsia non era noto a nessuno, trattandosi di malformazione congenita, il consulente ha percorso, a suo modo, a ritroso gli eventi e sarebbe giunto, attraverso deduzioni ed errate letture della cartella clinica, alle conclusioni, poi, accolte dai giudici di merito.

Per il difensore ricorrente, tuttavia, ciò che più conta è che il consulente del P.M., seguito purtroppo dai giudici di merito, che lo hanno scritto nelle sentenze, avrebbe travisato l'annotazione riportata nella cartella clinica, relativa agli episodi di "conati di vomito caffeano", ritenendo verificatisi ripetuti episodi di vomito incoercibile di carattere fecaloide e/o biliare, che sarebbero avvenuti nel Reparto di Pediatria alla presenza della Dott.ssa D.. Così come non sarebbe stata considerata l'annotazione in cartella clinica della prescrizione (ad opera del pediatra di famiglia) e somministrazione del farmaco Peridon nel pomeriggio, che il Consulente del P.M. ed i giudici di merito hanno, invece, "spostato" al mattino.


2.2 Non sono ravvisabili profili di colpa a carico del medico

La Corte territoriale, poi, oltre a recepire l'erroneo iter logico argomentativo del Consulente del P.M., non si sarebbe poi attenuta ai principi in tema di valutazione della prova, errando in più punti della sentenza. E tali errori interpretativi, rilevano sia in tema di erronea applicazione della legge penale, che di illogica motivazione, fino ad arrivare al travisamento del fatto e della prova nella lettura di fondamentali dati della cartella clinica (v. pag. 7 della sentenza impugnata).

Con riferimento alla individuazione della colpa, si evidenzia che alla D. è stato contestato, come si legge nel capo di imputazione:

1. di "non avere osservato i protocolli medici in materia", che non vengono però mai indicati nelle due sentenze di merito;

2. di vare omesso di "prestare le adeguale cure, non accertando che la reidratazione fosse completa", pur in presenza di dati clinici e prove dichiarative (de dichiarazioni delle due infermiere del reparto), che depongono per la efficacia della terapia infusionale volta alla reidratazione della bambina che la D. aveva prescritto, peraltro con durata fino alla mattina successiva ed interrotta durante la notte, senza il consenso della stessa Dottoressa e senza che nessuno la avvisasse dell'avvenuta sospensione;

3. di non avere richiesto "l'ausilio di uno specialista medico (medico, però, lo è anche la D.) o chirurgo, quando la M. ebbe a perdere l'accesso venoso che garantiva la reintegrazione", pur di fronte all'evidenza oggettiva che la D. non era presente in Ospedale in quel momento, visto che tale episodio di verificò intorno all'una di notte e per espressa dichiarazione dell'infermiera S., che accertò il fatto, quest'ultima decise -di sua iniziativa- di non avvisare telefonicamente la Dottoressa, né il medico di guardia presente in Ospedale;



4. di non avere richiesto o disposto "accertamenti strumentali, quali radiografia all'addome senza mezzo di contrasto... e di affidare le cure della bambina ad un chirurgo per la rimozione immediata del volvolo", pur in assenza, come ampiamente dimostrato dalla difesa dell'imputata e come dimostreremo, di sintomi (prima tra tutti, il dolore) che deponessero per un quadro di occlusione intestinale;

5. di non avere effettuato correttamente la palpazione dell'addome della bambina, senza considerare la Corte territoriale che la stessa manovra era stata effettuata, con i medesimi risultati, poco prima dalla Responsabile del Pronto Soccorso, B. (v. pag. 7 della sentenza impugnata).

Per il difensore ricorrente, al contrario di quanto si legge in sentenza, plurimi sono gli elementi che deporrebbero per l'assenza di colpa in capo alla Dott.ssa D. e che, di conseguenza, farebbero emergere la erronea applicazione della legge penale da parte della Corte di Appello di Messina.


2.3 Dalla cartella clinica si evince l'assenza di sintomi di occlusione intestinale

Si sottolinea in ricorso che, qualora avesse effettuato una obiettiva valutazione ex ante di tutti gli elementi disponibili (si richiamano in data di Sez. 4 n. 28294/2020 e Sez. 4 n. 26568/2019) la Corte territoriale avrebbe avuto a disposizione vari seguenti elementi di prova, per un corretto giudizio esplicativo e per la corretta individuazione di eventuali profili di colpa.

In primis, dalla cartella clinica, nonché dalle dichiarazioni della Dott.ssa B. (Responsabile del Pronto Soccorso dello stesso Ospedale) e dell'infermiera Scolaro, che aveva assistito insieme alla Dott.ssa D. la bambina, emerge la completa assenza dei sintomi dell'occlusione intestinale. La bambina non presentava il tipico quadro sintomatologico del soggetto occluso: non provava dolore durante la palpazione dell'addome, che era trattabile, non aveva febbre.

Si sarebbe omesso, inoltre, di prendere in esame, da parte del giudice di appello, la circostanza riferita dalla Dott.ssa B., che aveva affermato che l'addome della bambina era trattabile e che non vi erano segni di occlusione. Nessun episodio di vomito si verificò in Pronto Soccorso. La Dott.ssa B., peraltro, aveva provveduto ad effettuare la diagnosi: circostanza che contraddice l'assunto della Corte territoriale.


2.4 Nessun episodio di vomito si verificò in Pronto Soccorso

Stessa considerazione per il ricorrente deve essere effettuata con riferimento alla testimonianza diretta della infermiera Scolaro, che ebbe ad assistere la bambina per oltre un'ora e che si è espressa nei medesimi termini della Dott.ssa B., vale a dire nessun segno di occlusione intestinale.

Lamenta il ricorrente che, per superare questo notevole ed importante dato probatorio, i giudici di merito (e per quel che interessa, la Corte territoriale) hanno ritenuto, pur in totale assenza di evidenze probatorie, che la bambina si trovasse in stato "soporoso" per via della spossatezza dovuta agli episodi di vomito verificatisi dalla mattina fino alle ore 18, come riferito dai genitori della stessa (v. pag. 7 della sentenza impugnata.

Ebbene, tale dato sarebbe frutto di una mera ed indimostrata ipotesi (che sfocerebbe nell'arbitrio) formulata in primo luogo dal consulente del P.M. e seguita purtroppo acriticamente dal Tribunale e dalla Corte territoriale, visto che di tale "stato soporoso" non si rinviene alcuna traccia nella cartella cinica e, ciò che più conta, nelle testimonianze dirette della Dott.ssa B., che visitò la bambina e delle infermiere S. e S., che la assistettero per ore e che mai hanno riferito una simile circostanza: tutte, al contrario, hanno evidenziato che la bambina era tranquilla, si fece visitare e che dopo le prime cure giocava.


2.5 Il vomito era stato loro riferito dai genitori, ma non direttamente constatato

Quanto, poi, alla ritenuta erronea effettuazione dell'esame dell'addome della bambina da parte della D. (pag. 7 sentenza di appello), da un lato la Corte territoriale non indica quale avrebbe dovuto essere quello ritenuto "corretto" e dall'altro, si omette di considerare che la Responsabile del Pronto Soccorso aveva effettuato lo stesso esame pochi minuti prima, con il medesimo esito, vale a dire l'assenza di dolore addominale e la constatazione che l'addome era disteso e trattabile. La Dott.ssa B. e l'infermiera S., poi, hanno affermato chiaramente che il vomito era stato loro riferito dai genitori, ma non direttamente constatato, perché non si verificarono nuovi episodi in loro presenza.


2.6 I valori clinici della piccola paziente non indicavano in alcun modo patologie occlusive

A ciò si aggiunga -prosegue il ricorso- che valori clinici della piccola paziente non indicavano in alcun modo patologie occlusive (in particolare, il valore del potassio) e la bambina non aveva febbre, Non fu constatata, né riferita la presenza di vomito biliare, a differenza di quanto si legge in sentenza: tale dato, infatti, è del tutto erroneo e non è mai emerso ne caso che ci occupa (v. pag. 3 della sentenza impugnata).

La disidratazione presentata dalla bambina era, peraltro, compatibile con gli episodi di vomito riferiti dai genitori e fu curata attraverso idonea terapia prescritta dalla odierna imputata (il riferimento è alla cartella clinica che viene allegata).

In altre parole, l'evidenza disponibile al momento del ricovero della bambina nel Reparto di Pediatria deponeva per la totale assenza di sintomi che potessero fare supporre problemi di occlusione intestinale.



2.7 I giudici di merito hanno enfatizzato l'espressione "conati di vomito caffeano ripetuti"

Ci si duole che, a dimostrazione della sussistenza di profili di colpa in capo all'odierna imputata, la Corte territoriale, poi, abbia enfatizzato quanto riportato in cartella clinica dalla stessa Dott.ssa D. con riferimento ai "conati di vomito caffeano ripetuti" avvenuti in Reparto (pag. 11 della cartella clinica di Pediatria) Secondo la Corte di Appello, quindi, la stessa imputata avrebbe constatato il verificarsi di episodi di vomito scuro (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata).

Ebbene, ricorda il ricorrente che, come è ampiamente noto, il termine "conato" indica lo sforzo di vomitare, senza effetto e nel caso di specie, le infermiere S. e S. hanno ampiamente chiarito cosa realmente avvenne ( S., pag. 28: la bambina emise "tipo della schiuma un pochino scura"; S., pag. 6: "un pochino nella garzina").

Ci si duole, invece, che i giudici di merito, ed in particolare, la Corte territoriale, sempre ripetendo le conclusioni del Consulente del P.M., abbiano, invece, ritenuto che: "proprio il vomito caffeano era stato descritto dalla madre sia al pronto soccorso sia poi alla pediatra, odierna imputata, che lo aveva riscontrato personalmente" e pertanto, su tale base doveva procedere alla radiografia dell'addome (v. pag. 7 della sentenza impugnata).

Tale punto della sentenza rappresenta secondo il difensore ricorrente la palese erronea lettura della cartella clinica operata dalla Corte territoriale (ma già prima, dal Consulente del P.M. e dal Tribunale), che sfocerebbe nel travisamento del fatto e della prova circa la natura del vomito e soprattutto la quantità del materiale emesso durante la degenza nel Reparto di Pediatria, che in sentenza, contrariamente al vero, assume i caratteri del vomito conclamato (cfr. pagg. 4 e 7 della sentenza impugnata). Inoltre, sempre su tale punto, che è fondamentale per la corretta soluzione del caso che ci occupa, si lamenta che sia il primo giudice, che la Corte di Appello, sempre sulla scorta delle erronee conclusioni del consulente del P.M., hanno a dir poco confuso le cause e gli effetti del c.d. vomito caffeano, rispetto a quelle del vomito biliare e fecaloide.,

Ricorda il ricorrente che, secondo la letteratura scientifica in materia (sul punto, vengono richiamate le pagg. 13 e 14 della consulenza della Dott.ssa Certo e la bibliografia indicata nella memoria dell'odierna imputata, che vengono allegate) si definisce "caffeano" un particolare tipo di vomito dal colore scuro, che ricorda i fondi del caffe' ed in genere indica che c'e' stato sanguinamento nel tratto gastrointestinale superiore. La colorazione scura è data dal fatto che il sangue è rimasto nello stomaco ed è stato trasformato dai succhi gastrici. Tale tipo di vomito, da solo, non è indicativo dell'occlusione intestinale e la sua comparsa è ampiamente giustificabile in un soggetto che abbia vomitato più volte nel corso della giornata, come nel caso in esame.

A differenza di quello appena descritto, il vomito fecaloide (che nel caso in esame non si è mai verificato) si presenta con un colore scuro, marrone, accompagnato da un cattivo odore, simile a quello delle feci ed è indicativo dell'occlusione intestinale.

A sua volta, il vomito biliare, come descritto dallo stesso consulente di accusa, si manifesta "quando la bile (di colore giallo - verdastro) viene emessa insieme al contenuto gastrico: è il colore e l'amarezza del vomito che ci guidano in questo riconoscimento" (il richiamo è alla consulenza del Dott. C., pag. 12).

Nelle due sentenze di merito, secondo quanto si legge in ricorso, si confonderebbero e si riporterebbero indistintamente tutti i tre tipi di vomito appena elencati e si assumono come realmente verificatisi nella piccola paziente (pagg. 3 e 7 della sentenza impugnata).


2.8 I giudici non hanno tenuto conto del reale quadro clinico e sintomatologico della bambina all'ingresso al Pronto Soccorso

Di fronte a questo quadro, per i difensori ricorrenti appare evidente che i giudici di appello non hanno correttamente proceduto al giudizio esplicativo.

Ci si duole che la Corte territoriale, così come aveva fatto il Tribunale, non abbia tenuto in considerazione, invece, il reale quadro clinico e sintomatologico della bambina all'ingresso al Pronto Soccorso, prima e nel Reparto di Pediatria, poi, secondo la corretta valutazione ex ante, sulla base dell'evidenza disponibile. Nessun rilievo è stato attribuito al grave quadro malformativo congenito di importanti organi vitali interni, di cui purtroppo la bambina era portatrice, emerso solo in sede autoptica: malformazioni di cui nessuno -compresi i familiari- era al corrente, prima dell'autopsia.



2.9 I giudici non hanno tenuto conto della somministrazione alla bambina da mesi di un farmaco vietato

Così come la Corte di Appello non avrebbe preso nella dovuta considerazione l'importante fattore della somministrazione alla bambina di un farmaco vietato dall'ANA già da mesi, a causa degli effetti cardiotossici dello stesso (viene richiamata, sul punto, Sez. 4, n. 8086/2019). Tale circostanza assume, peraltro, importante rilievo sulla corretta individuazione della causa della morte.

La Corte territoriale, sul punto, svilirebbe il problema e non lo affronta con alcun criterio scientifico, limitandosi a validare la tesi riferita dalla madre della piccola, secondo cui il farmaco era stato espulso dopo l'assunzione, senza però che ci sia stato alcun accertamento sui tempi di somministrazione ed espulsione del farmaco stesso e sugli effetti che ne sono derivati (v. pag. 6 della sentenza impugnata). Peraltro, viene evidenziato che la Corte di Appello, riprendendo le considerazioni del Consulente del P.M., ha ritenuto che il farmaco Peridon non avrebbe avuto alcun effetto sulla bambina, in ragione del fatto che la stessa non presentava "fibrillazioni ventricolari o di altro tipo" in Pronto Soccorso ed all'ingresso nel Reparto di Pediatria non era stata "riscontrata alcuna aritmia, venendo annotata anzi "una frequenza cardiaca normale" (pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata). Ed invero, sostiene il ricorrente che nessuno ha mai sostenuto che la bambina presentasse i sintomi di un infarto cardiaco in atto, come evidentemente ha ritenuto di fare la Corte di Appello: la Dott.ssa C., Consulente della difesa, aveva evidenziato, sulla base della documentazione dell'AIFA e della letteratura scientifica che vengono allegate che tra gli eventi avversi della somministrazione del domperidone, principio attivo del Peridon, nei bambini al di sotto dei 35 Kg (la piccola paziente pesava soltanto 14 Kg), vi è l'arresto cardiaco e la morte improvvisa.

Sempre al fine di ridimensionare tale importante aspetto della vicenda che ci occupa, ci si duole che la Corte di Appello abbia ritenuto che "in ogni caso, gli effetti di quel medicinale si sarebbero esauriti nelle 12 ore dalla sua assunzione (...) mentre la bambina era deceduta dopo circa 20 ore dalla somministrazione del farmaco" (v. pag. 6 della sentenza). Ma l'assunto della Corte territoriale, che per l'ennesima volta si limiterebbe a riprendere quanto affermato dal tribunale, si fonderebbe soltanto sulla dichiarazione della madre della bambina, che aveva affermato che l'assunzione del farmaco avvenne durante la mattina (senza l'indicazione di alcun orario). Tale assunto, tuttavia, sarebbe radicalmente smentito dalla cartella clinica del Reparto di Pediatria, laddove alla pagina 3, si legge chiaramente che il Peridon fu somministrato durante il pomeriggio (cfr. pag. 3 cartella clinica).

Tale dato -si sottolinea in ricorso- non può essere stato arbitrariamente annotato dai sanitari, ma è stato sicuramente riferito dai genitori della bambina ai medici del Reparto. Per cui le 12 ore dalla somministrazione, all'evento, sarebbero perfettamente compatibili nel caso di specie. Se a ciò si aggiunge che uno dei motivi per i quali l'AIFA ha vietato la somministrazione del citato farmaco è quello dell'allungamento dell'emivita dello stesso, ossia della permanenza nell'organismo, le conclusioni della Corte territoriale apparirebbero errate o quanto meno non fondate su argomentazioni scientifiche, né elementi presenti nel fascicolo processuale.


2.10 I giudici non indicano quale sarebbe stata la terapia corretta

Quanto, infine, alla presunta inadeguatezza della terapia disposta dalla D. per risolvere il quadro di disidratazione della bambina (pag. 6 della sentenza del Tribunale, richiamata dalla Corte territoriale e 8 di quella impugnata, laddove si fa riferimento alla "assoluta insufficienza della terapia praticata ai fini della reintegrazione dei livelli elettrolitici e di idratazione") per i difensori ricorrenti si deve constatare da un lato, che la Corte di Appello (peraltro, in linea con il Tribunale ed il Consulente del P.M.) non indica in alcun modo quale sarebbe dovuta essere la terapia corretta (ai fini del successivo giudizio controfattuale), dall'altro omette del tutto di considerare l'importante e dirimente fatto che la terapia prescritta dalla Dott.ssa D. doveva essere effettuata fino al mattino seguente e che fu interrotta intorno all'una di notte, allorché la bambina tolse l'ago della flebo e l'infermiera di turno, S., decise autonomamente di non informare l'odierna imputata -che non era presente in Reparto- o il medico di guardia in Ospedale o gli anestesisti, né di rimettere l'ago e di consentire, quindi, la ripresa della terapia.

Ne deve discendere per i ricorrenti che non sono ravvisabili profili di colpa (tanto meno grave, come individuata dalla Corte di Appello sulla base di erronee letture degli atti clinici e processuali) in capo alla Dott.ssa D., stante la complessità e difficoltà del quadro clinico presentato dalla bambina, del tutto subdolo, vista la totale assenza dei segni dell'occlusione, della presenza di malformazioni importanti non riferite all'imputata (anche perché non conosciute neanche dai genitori della stessa) e l'interferenza o quanto meno, la assai probabile e possibile interferenza degli effetti della somministrazione di un farmaco vietato da parte di altro medico.

Tutto ciò farebbe emergere l'erronea applicazione della legge penale da parte della Corte territoriale, anche ai fini della rilevanza, nel caso che ci occupa, della normativa introdotta dalla L. n. 189 del 2012 in tema di colpa lieve, che non è stata presa in alcuna considerazione a causa di quanto sopra osservato.


2.11 La tesi della morte cardiaca improvvisa si fonda su dati clinici reali

Anche con riferimento, poi, alla causa dell'evento ci si duole che la Corte territoriale, in linea con il tribunale, abbia accolto senza riserve la tesi del Consulente del P.M., secondo cui la causa certa della morte sarebbe dovuta a "grave stato di shock secondario a necrosi intestinale da volvolo dell'ileo", escludendo, invece, la rilevanza delle malformazioni congenite presentate dalla bambina e di eventi cardiaci anche legati alla somministrazione del Peridon, così come sopra già considerato (v. pag. 6 della sentenza impugnata).

Oltre a tutto quanto sopra considerato, i ricorrenti aggiungono che la bambina non presentava i segni di un diffuso stato settico, che avrebbe potuto determinarne la morte improvvisa (vengono richiamate le pagg. 3, 8 e 9 della consulenza della Dott.ssa C., i dati della cartella clinica e le dichiarazioni della Dott.ssa B., Responsabile del Pronto Soccorso, tutti allegati).

Si sostiene che la tesi avanzata dalla Dott.ssa C., della morte cardiaca improvvisa, e', sulla base dell'evidenza disponibile, quanto meno parimenti valida rispetto a quella formulata dal Consulente del P.M., perché si fonda sui reali dati clinici della bambina e su quanto riscontrato in sede autoptica (ipertrofia ed ispessimento della parete cardiaca) dalla stessa Dott.ssa C., che era presente.



Del resto, di fronte ad una morte improvvisa, avvenuta senza che la stessa mamma della bambina (che dormiva con lei) se ne accorgesse, segno assai evidente dell'assenza di dolori, che inevitabilmente avrebbero dovuto accompagnare l'exitus così come ritenuto sussistente dalla Corte territoriale, sarebbe assai più plausibile e verosimile ritenere che la causa dell'evento sia dovuta a morte cardiaca improvvisa.

Ciò non significa per i ricorrenti negare l'esistenza del volvolo, sicuramente presente. La Dott.ssa C., tuttavia, ha dimostrato che con alta probabilità il volvolo non è stato la causa della morte. Del resto, si sottolinea, che lo stesso consulente del P.M., aveva scritto, in linea con la letteratura citata, che il volvolo in questione è dovuto ad una malformazione congenita, che può restare silente.


2.12 Non c'è certezza sulla causa di morte della bambina

Si sarebbe dovuto, pertanto, concludere, secondo la tesi prospettata in ricorso, nel senso che, in base all'evidenza disponibile, non vi è alcuna certezza in ordine alla causa della morte e comunque, la Corte territoriale non ha proceduto alla corretta individuazione della stessa e di conseguenza alla corretta applicazione della legge penale, per le ragioni sopra specificate, prima tra tutte, la erronea e travisante lettura di importanti dati della cartella clinica, nonché per non avere preso in considerazione le note ufficiali dell'AIFA e la letteratura scientifica di riferimento.

Con riferimento al nesso causale, per i difensori ricorrenti il ragionevole dubbio sulla possibilità di individuare profili di colpa in capo alla Dott.ssa D. e sulla reale causa della morte, determinerebbe quanto meno l'analogo ragionevole dubbio sulla sussistenza del nesso di causalità tra l'azione che si ritiene omessa e l'evento.

Ricordano i difensori ricorrenti che, per l'effetto, in tema di responsabilità medica è indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o differito, avvalendosi delle leggi scientifiche, universali o statistiche, e/o delle massime di esperienza che si attaglino ai caso concreto, all'esito di un ragionamento probatorio che, esclusa l'interferenza di fattori eziologici alternativi conduca alla conclusione, processualmente certa, che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto grado di credibilità razionale" (il richiamo è a Sez. 4 n. 28294/2020). Più in particolare, con riferimento al caso che ci occupa, rileva l'insegnamento secondo cui "ai fini dell'accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell'e-vento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l'analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario onde effettuare il giudizio contro fattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio" (il richiamo è a Sez. 4 n. 26568/2019, che ha giudicato un caso simile a quello che ci occupa).


2.13 La sentenza di appello è illogica perché tiene conto solo degli esiti della consulenza tecnica del PM

Con un secondo motivo si lamentano contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, lamentando anche sotto tale profilo che la sentenza della Corte territoriale si fondi esclusivamente sulle considerazioni del Consulente del P. M., anche laddove tali considerazioni si scontrano inevitabilmente con i chiari (e contrari) dati della cartella clinica e con le testimonianze rese in dibattimento dal personale sanitario, che a vario titolo ebbe in cura la bambina e che smentiscono molte conclusioni cui è giunto il citato Consulente.

Per i ricorrenti la Corte di Appello sarebbe incorsa nel vizio di motivazione in relazione al quadro clinico accertato all'ingresso del Pronto Soccorso e subito dopo, nel Reparto di Pediatria, che secondo i giudici di appello (in linea con il Tribunale ed il Consulente del P.M.) doveva portare la D. a disporre un immediato esame radiografico.

I difensori ricorrenti ritornano sulla questione del vomito caffeano e della reale annotazione in cartella di "conati", che farebbe emergere l'estrema confusione nei giudici di merito sul significato da attribuire ad uno degli aspetti principali della vicenda che ci occupa, vale a dire la natura (e la quantità) del vomito presentato dalla bambina. E si ribadisce che non si sono mai verificati fenomeni di vomito biliare, visto che nessuno mai ha parlato di vomito giallo-verde, né di vomito fecaloide, dal momento che l'odore pungente simile a quello delle feci, non poteva sicuramente passare inosservato e comunque, non è stato mai riferito da alcuno. Pertanto, le affermazioni dei giudici di merito sulla presenza di vomita fecaloide o biliare non sarebbero fondate su alcun elemento e costituiscono delle mere illazioni, nonché gravi errori di valutazione del caso concreto.

La differenza tra quanto annotato in cartella e quanto scritto in sentenza sarebbe abissale in relazione ai conati di vomito e in ciò si realizzerebbe il travisamento della prova, con una prova travisata che ha spiegato un fondamentale effetto nell'impianto motivazionale della sentenza impugnata (come in quella del tribunale): senza tale dato, erroneamente ritenuto esistente, infatti, tutte le deduzioni operate dal Consulente del P.M. e dai Giudici di merito circa la necessità, in quel momento, di svolgere la radiografia vengono meno, vista la totale assenza di segni clinici che deponevano per l'occlusione intestinale.

Quanto alla circostanza che la D. avrebbe dovuto, inoltre, secondo la Corte territoriale, effettuare la palpazione dell'addome in modo adeguato, al fine di suscitare nella bambina manifestazioni di dolore ed inoltre, rendersi conto della presenza del volvolo con la sola palpazione (v. pag. 7 della sentenza impugnata), per i difensori ricorrenti si tratta di una mera speculazione da parte del Consulente del P.M. (il quale, peraltro, non ha specificato in alcun modo, in sede di autopsia, se il volvolo era aderente o meno alla parete addominale), arcora una volta seguito dai giudici di merito: non si motiva, però, né da parte del consulente e soprattutto da parte dei giudici di merito su quale doveva essere il modo corretto di palpazione. Omettono, poi, di considerare sia i Giudici di merito, che il Consulente del P.M., che poco prima della visita effettuata dall'odierna imputata, la bambina era stata visitata dalla collega B., Responsabile de Pronto Soccorso, la quale aveva effettuato anch'essa l'esame dell'addome, attraverso palpazione ed aveva avuto modo di constatare la totale assenza di dolore, riferendo in sede di esame che la bambina si era lasciata visitare. La stessa B., inoltre, non aveva percepito alla palpazione alcun volvolo e comunque, non aveva riscontrato sintomi ritenuti gravi ed indicativi di urgenti accertamenti diagnostici.

La B., poi, smentirebbe in radice una ulteriore affermazione della Corte di Appello, laddove si afferma che "i sintomi che la bambina manifestava,..., come direttamente apprezzati dalla pediatra erano di tale gravità che avevano fatto riconoscere in sede di triage in pronto soccorso il codice giallo, che identifica le patologie con rischio di ingravescenza" (pag. 8 della sentenza di appello).

Si sottolinea che anche sul punto, la B. aveva già in primo grado fortemente ridimensionato tale ricostruzione dei fatti, riferendo da un lato che "era un vomito, un riferito vomito. Tra l'altro periodo di virosi epidemica...non c'erano segni di gravità, non li ho notati, dico faccio emergenza, urgenza, se c'era un problema grave di vita o di morte me ne accorgevo no?"; dall'altro, che per prassi di quell'Ospedale, tutti i bambini, per evitare la loro permanenza presso il Pronto Soccorso, ritenuto ambiente non idoneo, vengono inviati al Reparto di Pediatria.



Strettamente legato al punto appena descritto, vi è la ulteriore ed importante circostanza che la bambina non presentava nessuno dei sintomi che normalmente sono indicativi di una occlusione intestinale, primi tra tutti il colore e la tensione addominale. Ciò in quanto, diversi testimoni, che ebbero in cura la bambina, hanno dichiarato che l'addome della bambina si presentava disteso alla palpazione, non vi era dolore e che la bambina si era fatta visitare, sia in Pronto Soccorso, che nel Reparto di Pediatria: la infermiera S., che ha assistito la Dott.ssa D. durante la visita, ne ha dato ampia testimonianza (nello stesso senso la Dott.ssa B. e la Sig.ra S.). Per superare tale insormontabile ostacolo, il Consulente del P.M. ebbe ad ipotizzare -senza alcun elemento di riscontro ed anzi, andando di contrario avviso rispetto alle testimonianze, che la bambina si trovasse in uno stato "soporoso" in ragione della spossatezza derivata dal continuo vomitare fin dalla mattina. La mera ed indimostrata ipotesi appena citata è stata ripresa e fatta propria dalla Corte di Appello, che l'ha ritenuta un fatto acclarato, pur in assenza di prove dichiarative e documentali, prima tra tutte la cartella clinica (così a pag. 7 della sentenza impugnata).

A ciò si aggiunge in ricorso la circostanza anch'essa del tutto ignorata nelle sentenze di merito, che oltre ai sanitari appena citati, uno o più anestesisti (il numero esatto non è citato) videro e stettero con la bambina per diverso tempo al momento di preparare l'accesso venoso per la somministrazione della terapia.

Da parte di costoro non vi è alcuna annotazione di sintomi o problemi in cartella clinica.


2.14 Anche un altro medico concordò con l'imputata

Ci si duole, ancora, che la Corte territoriale non abbia preso in alcuna considerazione, ai fini della corretta individuazione di eventuali profili di colpa in capo all'odierna imputata, il fatto che anche il Dott. R., medico del Policlinico di (Omissis), concordò la terapia della Dott.ssa D. (cfr. cartella clinica, pag. 11) e che l'infermiera S., per sua esclusiva scelta, decise di non avvisare la Dott.ssa D. (che aveva da molto tempo finito il turno in presenza e non era presente), né il medico di guardia in Ospedale o gli anestesisti, i quali avrebbero potuto rivalutare la situazione alla luce del fatto che la bambina si fosse tolta la flebo. Quanto, infine, alla esecuzione dell'esame radiografico, l'affermazione della sua assoluta necessità nasce dalla (ovvia) considerazione ex post del consulente del P.M.: sia quest'ultimo, però, che i Giudici di merito non hanno in alcun modo motivato sulla base di quali elementi clinici (realmente esistenti e non supposti o letteralmente inventati, come purtroppo sopra constatato in diversi punti della sentenza impugnata) la radiografia doveva essere disposta e quali linee guida in materia, sulla base dell'evidenza disponibile nel caso concreto, le raccomandassero.


2.15 Altri motivi residuali

Con un terzo motivo di ricorso si lamenta mancanza della motivazione quanto alla chiesta rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e all'esecuzione di una perizia collegiale, che valutasse il caso della piccola paziente, con particolare riferimento all'accertamento della causa della morte della bambina e alla sussistenza del nesso di causa tra la condotta dell'imputata e l'evento, visto il contrasto evidente e marcato tra le tesi del Consulente del P.M. e quello della difesa (pag. 20 dell'atto di appello).

La Corte territoriale -ci si duole- non ha speso una parola sul punto in esame, neanche per rigettare la richiesta difensiva, limitandosi a tacere.

Con un quarto motivo si lamenta violazione degli artt. 132,133 e 589 c.p. nonché contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione quanto alla richiesta operata con i motivi di appello di ridurre la pena, eccessiva, anche alla luce delle considerazioni esposte nei motivo di appello relativo al merito, che deponevano per un quadro quanto mai complesso e non univoco dei sintomi presentati dalla bambina, che doveva necessariamente portare ad un ridimensionamento del grado della colpa e di conseguenza della pena inflitta, con concessione dei benefici di legge.

La Corte territoriale -ci si duole- ha ritenuto di confermare in toto le statuizioni del Tribunale, pur fondandosi le stesse su presupposti di fatto errati (v. pag. 8 della sentenza impugnata).

Nel caso di specie, tuttavia, sono stati evidenziati, ai motivi che precedono, molti aspetti critici della vicenda, tra cui l'erronea lettura dei dati della cartella clinica, travisata nei punti fondamentali ed il quadro sintomatico presentato della bambina, quanto meno dubbio e non univoco, ai fini della diagnosi pretesa dalla Corte territoriale, che devono essere in questa sede richiamati.

Gli elementi probatori analizzati ai motivi che precedono depongono, invero, per i ricorrenti -che richiamano il dictum di Sez. 4n. 24528/2014- per un drastico ridimensionamento dei fatti contestati alla Dott.ssa D., anche alla luce della giurisprudenza di Codesta Suprema Corte di Cassazione, laddove ha osservato che -scientifica".

Nel caso che ci occupa, per i difensori ricorrenti, l'assenza dei classici sintomi dell'occlusione, la totale assenza di informazioni circa le gravi malformazioni congenite di cui purtroppo la bambina era affetta, la somministrazione di un farmaco vietato dall'AIFA da parte di altro medico, avrebbero dovuto indurre la Corte territoriale a rivedere il giudizio sulla pena inflitta. Nella sentenza impugnata; invece, non si rinverrebbe alcuna motivazione, effettuata alla luce della reale situazione del caso concreto, sopra indicata ed agevolmente riscontrabile dalla lettura del fascicolo processuale. Ne discenderebbe, quindi, sia l'erronea applicazione della legge penale, che il vizio di motivazione, visto che il giudizio sulla pena si fonda su elementi errati o comunque, non coincidenti con quelli presenti in cartella clinica.

Con un quinto motivo si opera una richiesta di correzione dell'errore materiale della sentenza dei Tribunale, non modificata dalla Corte di Appello.

I difensori ricorrenti evidenziano che, con memoria depositata alla Corte di Appello di Messina il 21 aprile 2021, la difesa dell'imputata chiedeva la correzione dell'errore materiale contenuto nella sentenza di primo grado, laddove aveva da un lato, escluso la sussistenza del diritto al risarcimento in favore di M.G., padre della bambina deceduta e costituitosi in giudizio solo quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore C., perché quest'ultima è nata dopo la morte della sorella; nel dispositivo, invece, il Tribunale condannava l'imputata al pagamento di una provvisionale di Euro 50.000 in favore di M.G. in proprio, che non si era invece costituito parte civile.

La richiesta di correzione di errore materiale era ovviamente formulata ai sensi dell'art. 130 c.p.p., comma 1, nella parte in cui prevede che se il provvedimento "e' impugnato, e l'impugnazione non è dichiarata inammissibile, la correzione è disposta dal giudice competente a conoscere dell'impugnazione".

La Corte territoriale ha ritenuto erroneamente che in mancanza di impugnazione del punto della sentenza non si potesse emendare l'errore commesso dal Tribunale (v. pag. 9 della sentenza).

La decisione della Corte di Appello peri difensori ricorrenti appare erronea, alla luce del dettato normativo e di conseguenza, si chiede a questa Corte di legittimità di correggere l'errore materiale evidenziato. La rilevanza della richiesta è dimostrata dalla necessità di eliminare dalla sentenza una statuizione erronea e pregiudizievole per l'imputata.

Si chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.



3. La decisione della corte di cassazione: il ricorso va rigettato

1. I motivi illustrati in premessa sono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.

Le censure proposte dal ricorrente si sostanziano, per lo più, nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello (senza un adeguato confronto, nel ricorso, con le argomentazioni svolte dalla Corte di Appello in merito alle dette doglianze). Inoltre, i motivi appaiono formulati in modo non specifico e diretti ad ottenere una rivalutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione evidentemente preclusa dinanzi al giudice di legittimità.

Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.


3.2 Il reato non è prescritto

In premessa, va evidenziato che, in ragione delle sospensioni della prescrizione a causa dei rinvio dell'udienza dei 2/5/2018 per astensione degli avvocati e dei rinvii a seguito dei provvedimenti che hanno fatto seguito all'emergenza sanitaria per COVID (il 1/4/2020 e il 2/7/2020 e da quest'ultima data al 14/7/2020), ancorché i fatti risalgono al (Omissis), non risulta ad oggi maturato il termine massimo di prescrizione dei reato.


3.3 La ricostruzione dei fatti

I fatti, per quanto rileva in questa sede e per come ricostruiti dai giudici di merito possono essere così riassunti.

Come ricordava già la sentenza di primo grado, dai verbali di sommarie informazioni testimoniai; rese in data (Omissis) da G.G. e M.G., genitori della piccola M.S., di due anni e mezzo, nonché dalla querela dagli stessi sporta in data 22/1/2015, acquisiti agli atti con il consenso delle parti e quindi pienamente valutabili ed utilizzabili nonostante il rito ordinario, il (Omissis), intorno alle 9.00, la bambina aveva iniziato a lamentare un forte mal di pancia, accompagnato- a partire dalle 11 circa- da ripetuti episodi di vomito. Verso le 2.00- poiché la situazione non sembrava migliorare, nonostante la bimba fosse rimasta del tutto digiuna- i genitori avevano telefonato al pediatra di base, il quale aveva prescritto una supposta di Peridon ed infusi tiepidi, ipotizzando potesse trattarsi di un virus di stagione. immediatamente dopo la somministrazione del Peridon, la piccola aveva espulso la supposta, mentre il mal di pancia ed il vomito non si erano attenuati. I genitori avevano quindi contattato telefonicamente un'altra pediatra di base, sostituta del primo, la quale aveva prescritto gocce di Nauped (un integratore vitaminico) e bevande tiepide, per reintegrare i liquidi. Anche in questo caso, le prescrizioni non avevano sortito effetto, anzi- intorno alle 18.00- la situazione era notevolmente peggiorata, atteso che la bambina aveva iniziato a vomitare "nero".

A quel punto, i genitori, allarmatissimi, si erano precipitati al Pronto Soccorso dell'ospedale di (Omissis). Dopo il triage, la bimba era stata ricoverata presso il reparto di pediatria. Qui, i genitori avevano riferito alla pediatra di turno, l'odierna ricorrente D.M.G., quanto accaduto in precedenza ed i rimedi tentati. La pediatra, visitata la piccola paziente, aveva disposto che la stessa venisse reidratata tramite flebo e che venisse effettuato un prelievo ematico. In attesa dei risultati, poiché i conati di vomito "nero" non cessavano, la dottoressa aveva palpato l'addome della bambina, che appariva gonfio, tanto che la piccola si era contorta senza lasciarsi toccare. Dopo la somministrazione della flebo, la bambina si era un po' ripresa, sebbene fosse rimasta pallida ed avesse ancora conati di vomito. Preoccupata, la madre aveva quindi chiesto alla specialista se non fosse il caso di fare un esame ecografia). La pediatra aveva risposto che l'ecografia era inutile poiché "non si sarebbe visto niente", ma messa ella stessa in allarme dai ripetuti conati di vomito caffeano, aveva contattato un ospedale di Palermo ed uno di Messina, ottenendo risposte negative circa la disponibilità di posti letto.

Nel narrato dei genitori, come ricordano i giudici del merito, queste fasi erano state molto concitate perché la bambina non aveva smesso di vomitare scuro, mentre la pediatra era stata ripetutamente disturbata sul cellulare dal figlio che lamentava problemi, forse a un dispositivo elettronico. Gli squilli erano stati continui, anche durante la visita alla piccola S., tanto che, in uno di questi frangenti, la pediatra l'aveva chiamata con il nome del figlio, G..

Verso le 23, la pediatra aveva somministrato alla bambina un antiemetico, a seguito del quale il colorito era rimasto molto pallido, ma il vomito si era interrotto. A quel punto, la pediatra aveva tranquillizzato i genitori, dicendo loro che con quel farmaco la situazione si sarebbe risolta, ed era andata via. Durante la notte, la madre era rimasta con la bambina in reparto. Quest'ultima aveva continuato a mostrarsi insofferente, aveva lo stimolo ad urinare, senza tuttavia riuscirvi, ed intorno all'una si era tolta la flebo.

L'infermiera, allertata dalla madre, aveva ritenuto non fosse necessario applicarla nuovamente, atteso che a quel punto la bambina sembrava essersi addormentata tranquillamente. La madre, estenuata, si era addormentata anche lei, abbracciata alla piccola, ma verso le 5, aveva percepito che la bimba era fredda ed aveva le gambette rigide. L'infermiera, entrata in stanza per un controllo, a quel punto aveva detto alla madre di portare la bambina in medicheria ed aveva chiamato il rianimatore.



Da quel momento, i genitori non avevano ricevuto alcuna notizia, finché, intorno alle 6.10, un'anestesista, fortemente affranta, aveva comunicato loro che la bambina era morta. Disperati, i genitori avevano cercato di comprendere quanto accaduto, non riuscendo a capacitarsi del perché la bambina fosse morta, senza tuttavia ricevere alcuna spiegazione, né alcun conforto da parte del personale ospedaliero.

Questa -come ricordano le sentenze di merito- è la ricostruzione dei fatti ad opera dei genitori, ma in larga parte la stessa ha trovato conferma in cartella clinica ed è stata riconosciuta dalla stessa imputata, la quale non ha negato di avere ricevuto almeno una chiamata al cellulare da parte del figlio, così come di avere un figlio che si chiama G..

Incontestata e annotata in cartella clinica è anche la circostanza dei contatti con altri due nosocomi siciliani più attrezzati, nel tentativo di trasferirvi la bambina, circostanza che logicamente è stata ritenuta dai giudici del merito indicativa della maturata consapevolezza da parte della pediatra oggi imputata che la situazione fosse di una certa gravità.


3.3 L'addebito riguarda proprio la sottovalutazione di quanto riferito dai genitori

L'unico dato che viene contestato dalla Difesa della D. quanto alla ricostruzione dei genitori è quello del persistente vomito caffeano della bambina nel corso della visita e della sua permanenza in ospedale. La Difesa sottolinea che si trattava di conati di vomito, ovvero, secondo quello che è il significato letterale del termine, di continui stimoli a vomitare che non è seguito da vero e proprio vomito.

La doglianza, tuttavia, è infondata. A ben guardare, infatti, sia il giudice di primo grado che quello di appello danno atto e fondano la propria affermazione di responsabilità sul fatto che il vomito persistente fin dalle 9 del mattino fosse stato "riferito" dai genitori. E che in ospedale c'erano stati soltanto dei conati.

Alla D. è stato addebitato il reato di cui all'art. 589 c.p., perché agendo con negligenza ed imperizia, non osservando le regole delle leges artis avrebbe cagionato la morte di M.S. (di due anni e mezzo).

La D., secondo l'editto accusatorio convalidato allo stato dalle sentenze di merito, sarebbe stata informata dai genitori della bambina, del rifiuto della stessa di alimentarsi, della sussistenza nella piccola del sintomo del vomito incoercibile, divenuto caffeano, della sua grave disidratazione.

Ciononostante, avrebbe omesso di prestare le adeguate cure alla bambina, in quanto non avrebbe accertato che la reidratazione fosse completata, non avendo richiesto l'ausilio di uno specialista, quando la bimba si era tolta la flebo che garantiva la reintegrazione.

E, cosa ancora più grave, non avrebbe richiesto l'esecuzione di una radiografia all'addome senza mezzo di contrasto, atteso che la sintomatologia specifica che presentava, caratterizzata, come detto, da vomito scuro, biliare o fecaloide, era indicativa univocamente della possibilità di una occlusione intestinale.

Tale patologia sarebbe stata evidenziata da tale esame e, in seguito al suo accertamento, la bambina avrebbe potuto essere sottoposta a intervento chirurgico per la rimozione immediata del volvolo, che avrebbe rappresentato un intervento salvavita.


3.4 Premesse giuridica sul vizio di motivazione che può essere denunciato con ricorso per cassazione

Prima di andare a vagliare nello specifico i motivi proposti, occorrono alcune premesse in punto di diritto.

In primis, va rilevato, quanto alla dedotta violazione dell'art. 192 c.p.p. di cui al primo motivo di ricorso che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, cui il Collegio aderisce, la mancata osservanza di una norma processuale intanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 c.p.p., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata" (così questa Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; in conformità v., già in precedenza, Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, Germanotta, Rv. 195306; più recentemente, v. Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni s.p.a., Rv. 278196).

Occorre poi evidenziare che siamo di fronte ad una doppia conforme affermazione di responsabilità e che in tale evenienza le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile a quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. il 2012, Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n, 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250). E in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, laddove le censure formulate contro la decisione impugnata -come nel caso che ci occupa- non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi. Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.

In tali casi, inoltre, nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, ie ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, Rv.254107; conf. Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis Rv. 281935).



La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l-ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. il 2003, Delvai, Rv. 223061).

E' stato anche sottolineato da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che i ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n. 9242 dell'8/2/2013, Reggio, Rv. 254988).

Ancora, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. 3, n. 35397 del 20/6/2007; Sez. Unite n. 24 de 24/11/1999, Spina, Rv. 214794). Ed è stato anche più volte ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), i controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542).

Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

Non c'e', in altri termini, come di fatto richiesto a larghi tratti nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46.

Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Com'e' stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica "rispetto a sé stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati, In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.


3.5 Non vi è stato alcun travisamento della prova

La premessa di cui sopra serve a meglio comprendere come il travisamento della prova sia altro rispetto a quello che si indica nel presente ricorso.

Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo" costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, ‘ungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all'interno della decisione.

In altri termini, vi sarà stato "travisamento della prova" qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell'imputato). Oppure dovrà essere valutato se c'erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma occorrerà ancora ribadirlo- non spetta comunque a questa Corte Suprema "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova.

Per esserci stato "travisamento della prova" occorre che sia stata inserita nel processo un'informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.

In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l'atto che contiene la prova travisata o omessa.

Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.

Non va trascurato, inoltre, che questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636 secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217).

Nel caso di specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio del tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati.



3.6 Il medico non introduce alcun elemento scientifico per confutare le conclusioni dei consulenti

La ricorrente non si confronta criticamente in maniera adeguata con quelli che sono gli snodi fondamentali che hanno portato i giudici del merito, concordemente, a ritenere provata la penale responsabilità dell'odierna imputata.

Quanto alle cause della morte della piccola S. ricordano le sentenze che, a seguito dell'autopsia sul corpicino della bambina, il medico legale accertava quale causa certa del decesso il "grave stato di shock secondario a necrosi intestinale da volvolo dell'ileo", evincibile dall'"aspetto delle anse intestinali che appaiono nella maggior parte di colorito rosso nerastro per una necrosi secondaria a volvolo. come riscontrato all'esame autoptico, nonché come evidenziato dall'esame istologico (...)".

Il volvolo -dava atto il giudice di primo grado- è dato dalla rotazione di un tratto di intestino su se stesso- più tecnicamente, sul suo peduncolo (mesentere) - che provoca una compromissione vascolare ed ove l'ostruzione è completa determina alterazioni del flusso sanguigno (ischemia) il cui persistere conduce alla necrosi, con necessità di resezione del tratto interessato. Nei bambini, causa del volvolo è generalmente un'anomalia congenita detta malrotazione, che sostanzialmente determina un difetto di fissazione mesenteriale dell'intestino.

Viene ricordato sin dal primo grado che il c.t. del P.M., nel proprio elaborato, chiariva che il trattamento chirurgico precoce rimane l'unica ed esclusiva soluzione terapeutica da attuare per impedire l'evoluzione infausta. E che sotto il profilo della causalità, il consulente, in esito all'esame autoptico dallo stesso effettuato, escludeva che- nel caso di specie- cause diverse dal volvolo avessero potuto svolgere un ruolo causale o concausale nel determinismo dell'evento (pag. 15 dell'elaborato).

Ebbene, la ricorrente contesta le cause del decesso, ma non introduce alcun elemento scientifico per confutare le conclusioni dei consulenti secondo cui le malformazioni congenite da cui la piccola era affetta -che non sono negate- non avrebbero avuto alcun rilievo nel determinarne il decesso.

Si introduce il tema che potrebbe essere stata una reazione scatenante alla somministrazione del Peridon, non adatto a quell'età, ed attesa la riscontrata presenza di un'ipertrofia del ventricolo sinistro, emersa in sede di esame autoptico, ma in entrambe le sentenze di merito viene dato atto che la supposta in questione è stata quasi immediatamente espulsa dalla bambina.


3.7 Non si individua la causa alternativa del decesso

Nella memoria difensiva depositata il 6.11.2019, nonché nella relazione della c.t. dell'imputata, si fa riferimento a "cause cardiologiche", a "cardiomiopatie" ed a "rischi cardiaci" legati all'assunzione in età pediatrica del farmaco Peridon, senza tuttavia individuare quale sarebbe stata, nel caso di specie, la causa alternativa dell'evento.

Anzi, come ricorda a pag. 8 il giudice di primo grado, durante il suo esame dibattimentale, l'imputata faceva riferimento generico ad una non meglio specificata "cardiopatia" o "patologia cardiaca" della piccola S. ("intanto praticamente un bambino del genere deve essere valutato per capire che patologia cardiaca aveva"), arrivando ad ipotizzare una morte per aritmia cardiaca determinata dall'assunzione di Peridon da parte di un soggetto con malformazione cardiaca, rispetto alla quale lei stessa ammetteva comunque l'assenza di riscontri in esito all'autopsia ("Allora, non c'e' un quadro anatornopatologico quando uno muore per aritmia").

Sul punto, i giudici di merito danno atto che il ct. dei P,M. ha categoricamente escluso la sussistenza di fattori causali diversi dal volvolo, la cui esistenza è stata del resto riscontrata e riconosciuta anche dalla ct dell'imputata. E ricordano come il medesimo ct. del P.M., durante il suo esame dibattimentale, abbia evidenziato che la conformazione ipertrofica del ventricolo sinistro non costituiva una patologia e "nulla aveva a che vedere con lo stato delle condizioni" della minore, in specie con i sintomi dalla stessa manifestati e con le cause del decesso. A conferma di ciò viene anche ricordato che, durante il suo esame, la stessa imputata ammetteva che, tanto al Pronto Soccorso, quanto in reparto, era stata registrata la frequenza cardiaca della minore tramite l'applicazione del saturimetro e non era stata riscontrata alcuna aritmia, anzi era stata registrata "una frequenza cardiaca normale".


3.8 La riscontrata ipertrofia era "del tutto estranea" alle cause del decesso

A fronte di un consulente che afferma con certezza che la riscontrata ipertrofia era "del tutto estranea" alle cause del decesso, escludendo peraltro che detta ipertrofia implicasse una patologia cardiaca, di cui escludeva del tutto l'esistenza, la sussistenza di cause alternative o concorrenti adombrata dalla Difesa è rimasta per tutto il processo allo stato di mera enunciazione. E, come si è già avuto modo di constatare e ancora si dirà, diversamente da quanto si sostiene in ricorso, le sentenze si confrontano non solo con il sapere scientifico introdotto nel processo dal consulente del PM, ma anche con quelli delle altre parti.


3.9 Sussistono evidenti profili di colpa professionale

Sgombrato il campo da ogni dubbio circa la sussistenza del nesso di causalità materiale tra la condotta contestata alla D. e l'evento morte della piccola S., i giudici di merito offrono una logica motivazione anche dei profili di colpa per negligenza ed imperizia imputati all'odierna ricorrente e pervengono alla conclusione della sua penale responsabilità facendo buon governo del principio richiamato da questa Corte di legittimità secondo cui sussiste il nesso di causalità tra l'omessa o l'intempestiva diagnosi di una malattia ed il decesso del paziente, laddove dal giudizio controfattuale risulti- come nel caso di specie- l'alta probabilità logica che la diagnosi tempestiva avrebbe consentito il ricorso a terapie (nel caso che ci occupa di tipo chirurgico) atte a incidere positivamente sulla sopravvivenza del paziente (cfr., tra tante, Sez. 4 n. 50975 del 19/7/2017, Memeo, Rv. 271533).

E' stato anche condivisibilmente affermato il principio, di cui il provvedimento impugnato opera un buon governo, per cui occorre far ricorso ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico, al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest'ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell'evento o comunque ridotto l'intensità lesiva dello stesso (così Sez. F, n. 41158 del 25/08/2015, E., Rv. 264883, in relazione ad una fattispecie in cui è stata esclusa la responsabilità degli imputati, non essendo stata raggiunta la prova che, ove questi avessero ripetuto determinati esami strumentali, sarebbero pervenuti con certezza od elevata probabilità od una diagnosi differenziale di quella formulata, che avrebbe consentito di compiere l'intervento chirurgico necessario per impedire il decesso del paziente).



Il tema, come si vedrà, non attinge nemmeno alla tematica, ampiamente scandagliata da questa Corte di legittimità, della c.d. diagnosi differenziale, per cui pure si è in più occasioni affermato che risponde di omicidio colposo per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente (Sez. 4, n. 26906 del 15/05/2019, Hijazi, Rv. 276341). Laddove per consolidata giurisprudenza di legittimità, l'errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca a inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo ma anche qualora si ometta, di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi, ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. D'altronde, allorché il sanitario si trovi di fronte a una sintomatologia idonea a condurre alla formulazione di una diagnosi differenziale, la condotta è colposa allorquando non si proceda alla stessa e ci si mantenga invece nell'erronea posizione diagnostica iniziale (Sez. 4, n. 46412 dei 28/10/2008, Rv. 242250; conf, Sez. 4, n. 47748/2018 non mass.).


3.10 Non siamo nel campo dell'omessa diagnosi differenziale

Non siamo nel campo dell'omessa diagnosi differenziale in quanto - e in tal senso il profilo di colpa risulta particolarmente accentuato, aspetto con cui la ricorrente non si confronta criticamente- una diagnosi nel caso che ci occupa addirittura -come ricorda già la sentenza di primo grado a pag. 12- la pediatra odierna imputata ha del tutto omesso di formularla.

La D. lascia l'ospedale intorno alle 23, dopo avere ricoverato la piccola, avendone solo disposto la reidratazione e la sorveglianza. Tra l'altro, con un atteggiamento che pare contraddittorio rispetto all'operata (vana) ricerca di una struttura sanitaria maggiormente attrezzata ove ricoverare la piccola, segno evidente che aveva reputato la sintomatologia non trascurabile.

Come ricordano i giudici di merito, dalla lettura della cartella clinica emerge, infatti, che al momento del ricovero in reparto, l'odierna ricorrente ebbe ad annotare, sotto la voce "malattia attuale". "da stamattina vomito inc:oercibiie ed impossibilità totaie ad alimentarsi ed a bere liquidi. Intorno alle 18.00 conati di vomito scuro ed intenso pallore ed astenia", ossia i sintomi manifestati dalla piccola paziente, mentre sotto la voce "giudizio diagnostico clinico" nulla annotava, non avendo evidentemente ricondotto detti sintomi ad alcuna specifica patologia.

Tanto ciò è vero -ricordava già il giudice di primo grado- che G.G. e G.B., madre e nonno della piccola S., durante il loro esame dibattimentale, riferivano che la pediatra non aveva mai spiegato loro cosa avesse la bambina, né perché stesse tanto male. Anche nelle s.it, acquisite con il consenso delle parti all'udienza del 3/4/2019, G.G. riferiva di non avere avuto alcuna spiegazione su cosa fosse accaduto alla sua bambina, né sul perché fosse morta

E' rimasto dunque provato - va ribadito che alle ore 2300, la pediatra lasciava quindi il reparto per rientrare a casa senza avere effettuato accertamenti diagnostici, senza avere formulato alcuna diagnosi (visto che, come ricordava la sentenza di primo grado solo in dibattimento la stessa ha riferito di aver pensato ad una gastroenterite), senza avere praticato alcuna terapia, se non una blanda reintegrazione dei liquidi, e senza aver lasciato disposizioni terapeutiche per le ore successive, se non la prosecuzione della soluzione fisiologica e la richiesta di esami ematochimici per l'indomani.


3.11 Il medico non ha prestato la dovuta attenzione a quanto annotato in cartella dai colleghi del Pronto Soccorso

Altro snodo fondamentale della motivazione con cui si è pervenuti alla doppia conforme pronuncia di condanna, con cui l'odierno ricorso non si confronta criticamente -e nemmeno l'aveva fatto nell'atto di appello- è l'affermazione che era stata operata già dal primo grado secondo cui la D. non avrebbe prestato la dovuta attenzione a quanto annotato in cartella dai colleghi del Pronto Soccorso, che avevano richiesto il ricovero in pediatria, Soprattutto, laddove, sotto la voce "problema accesso" era stato annotato "dolore addominale" e sotto la voce "problema attuale" era stato annotato "riferito vomito scuro persistente ed astenia".

Come ricordano i giudici di merito, in ogni caso, la presenza di vomito caffeano ripetuto, sebbene riferita, avrebbe dovuto indurre la specialista, secondo le leges artis e le buone pratiche, a disporre approfondimenti diagnostici, in particolare la radiografia all'addome, come emerge oltre che dalla relazione del c.t. del P.M., anche dalla pubblicazione scientifica allegata alla memoria difensiva della stessa imputata (pag. 10), la cui condotta- per quanto già esposto e per quanto segue-risulta connotata altresì da negligenza grave.

Peraltro, in punto di negligenza il ricorso nemmeno introduce elementi atti a minare la logicità del conforme decidere dei giudici di merito quanto alla superficialità con cui la D. ha visitato la piccola S., con particolare riferimento alla palpazione dell'addome. Una superficialità che -adombrano i giudici di merito-può ben essere stata influenzata dalle continue telefonate di natura personale che la stessa riceveva sul cellulare dal figlio G..


3.12 La decisione sugli altri motivi residuali

Le considerazioni fin qui esposte evidenziano l'infondatezza dei primi due motivi di ricorso non apparendo il provvedimento impugnato affetto né dalla denunciata violazione di legge né dal vizio motivazionale dedotto.

Infondato appare anche il terzo motivo di ricorso in quanto, come si evince dalla accurata motivazione di pag. 6, con la quale la Corte messinese si è correttamente relazionata con il sapere scientifico introdotto nel processo, i giudici del gravame del merito non hanno nutrito alcun dubbio in ordine alle cause della morte della piccola S., per cui hanno implicitamente risposto negativamente alla richiesta di perizia collegiale.

Ciò nel solco nel solco della giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ha in più occasioni evidenziato la natura eccezionale dell'istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all'art. 603 c.p.p. ritenendo, conseguentemente, che ad esso possa farsi ricorso, su richiesta di parte o d'ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensabile ai fini del decidere, non potendolo fare allo stato degli atti (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez.2, n. 41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv. 25696801; Sez.2, n. 3458 del 1/12/2005, dep. 2006, Di Gloria, Rv. 23339101) precisando, altresì, che, considerata tale natura, una motivazione specifica è richiesta solo nel caso in cui il giudice disponga la rinnovazione, poiché in tal caso deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, mentre in caso di rigetto è ammessa anche una motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argiomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito, nella quale sia evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep.2014, Coppola, Rv. 25989301; Sez. 6, n. 30774 del 16/07/2013, Trecca, Rv. 25774101; Sez. 3, n. 24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 24787201; Sez. 4, n. 47095 del 2/12/2009, Rv. 245996; Sez. 2, n. 41808 del 27/9/2013, Mongiardo, Rv. 256968).

Come più volte chiarito da questa Corte di legittimità, la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale può essere censurata soltanto -il che nel caso che ci occupa non è avvenuto- qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556; Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 258236).

Peraltro, La perizia non rientra nella categoria della "prova decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione (sez. 6 n. 43526 del 3.10.2012, Ritorto e altri, rv. 253707).

Ed invero, la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva: ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto giudizio di fatto che se sorretto da adeguata motivazione è insindacabile in cassazione (Sez. 4, n. 14130 del 22/1/2007, Pastorelli ed altro, Rv. 236191; conf. Sez. 5 n. 12027 del 6.4.1999, Mandala G., rv. 214873).



Infondato è anche il quarto motivo di ricorso in punto di dosimetria della pena, in quanto la Corte territoriale ha adeguatamente motivato, rispondendo al motivo di gravame sul punto, dando atto di condividere le ragioni già ampiamente descritte dal primo giudice - che il giudice di appello comunque ripercorre analiticamente a pag. 6 del provvedimento impugnato- per le quali quello aveva considerato che la negligenza e l'imperizia riscontrata nella condotta dell'imputata giustificassero il discostamento dal minimo edittale praticato per definire la pena finale.

I giudici del gravame del merito evidenziano poi, sul punto, che "nessun argomento difensivo induce, poi, a rivalutare il giudizio espresso nella sentenza impugnata con il quale condivisibilmente è stata considerata come connotata da colpa grave la condotta dell'imputata perché si era notevolmente discostata "dalle leges artis, dalle buone pratiche e dalla dovuta diligenza, avendo la stessa omesso di svolgere qualsiasi accertamento che avrebbe potuto rivelarsi utile per giungere ad una diagnosi" (così sempre pag. 6).

Fondato, invece, è il quinto motivo di ricorso.

A pag. 2 della sentenza di primo grado si legge che sono costituite parti civili: G.G., in proprio e n. q. di genitore esercente la potestà parentale sulla minore G.C., nonché M.G., in proprio e n. q. di genitore esercente la potestà parentale sulla minore M.C., che è la sorella della vittima nata un anno dopo i fatti. A pag. 2 della sentenza di appello M.G. viene indicato, tuttavia, solo nella qualità.

Ebbene, come si riscontra ex actis, in data 17/5/2017, con atto depositato in udienza, M.G. ebbe a costituirsi parte civile, a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale Avv. Salvatore Caputo del Foro di Patti, esclusivamente quale padre esercente la potestà sulla minore M.C., nata nel gennaio 2016. E, in motivazione, la sentenza di primo grado esclude che vi sia un diritto al risarcimento per la sorella nata un anno dopo, sul corretto rilievo (pag. 14) che "quest'ultima è nata più di un anno dopo la morte della piccola S. che, quindi, di fatto non ha mai conosciuto" e che "la stessa, pertanto, non può lamentare alcun danno morale derivante dai fatto per cui è processo, né più in generale un danno non patrimoniale, non essendosi in concreto verificata la lesione di una relazione parentale già in essere" (pag. 14)..

Il Tribunale di Patti, dunque, ha sbagliato nel ritenere, in motivazione e in dispositivo risarcibile M. (padre) in proprio, nel senso che ha operato una statuizione in favore di un soggetto che non si era costituito parte civile.

Pertanto, va disposto correggersi l'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza del Tribunale di Patti dell'11.09.2020 -e conseguentemente la conferma della sentenza impugnata rispetto a tale punto- nel senso che va eliminato il nominativo " M.G." da quelli di coloro a cui favore sono stati disposti il risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, la provvisionale di cinquantamila Euro e la rifusione delle spese processuali


4. Dispositivo

Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché alla rifusione alla costituita parte civile G.G., in proprio e nella qualità di genitore, esercente la potestà sulla minore G.C., delle spese di assistenza e di rappresentanza in questo giudizio che liquida come in dispositivo.

P.Q.M.

Letto l'art. 130 c.p.p. dispone correggersi l'errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza del Tribunale di Patti dell'11.09.2020 -e conseguentemente la conferma della sentenza impugnata rispetto a tale punto- nel senso che va eliminato il nominativo " M.G." da quelli di coloro a cui favore sono stati disposti il risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, la provvisionale di cinquantamila Euro e la rifusione delle spese processuali.


Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione alla costituita parte civile G.G., in proprio e nella qualità di genitore, esercente la potestà sulla minore G.C., delle spese di assistenza e di rappresentanza in questo giudizio che liquida in complessivi Euro 3600,00 oltre accessori come per legge.


Così deciso in Roma, il 27 settembre 2022.

Depositato in Cancelleria, il 17 ottobre 2022



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