Appropriazione indebita: ne risponde chi faccia propria la cosa di cui sia già possessore
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Cassazione penale sez. V, 15/01/2019, n.7568

Integra il delitto di appropriazione indebita e non la fattispecie - ora depenalizzata - di sottrazione di cose comuni, la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso "pro indiviso", non essendo possibile configurare una "sottrazione" da parte di chi si trovi, anche se solo "pro quota", in possesso del bene. (In attuazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che l'impossessamento, da parte dell'imputato, di un supporto DAT contenente il "back-up" dei dati relativi, in parte, alla propria attività professionale ed, in parte, a quella di terzi, integrasse il delitto di cui all'art. 646 c.p., salvo che non risultasse provato un diverso accordo, espresso o tacito, con gli altri titolari dei dati).

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Brescia, in riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto, perchè il fatto non sussiste, Ra.Ro. dal reato di furto del supporto DAT contenente il back-up dei dati relativi ai clienti ed ai dipendenti conservati sul server dello studio R. & Associati.

2. Avverso la sentenza ricorrono agli effetti civili D.S., R.G.C. e R.M. nella loro qualità di parti civili che, con unico atto a firma del comune difensore e procuratore speciale, articolano due motivi.

2.1 Con il primo deducono erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla mancata riqualificazione del fatto come furto di cosa comune. In proposito i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale, una volta assunto che il supporto trafugato contenesse anche dati di proprietà dell'imputato, non poteva non riconoscere come la condotta di quest'ultimo integrasse quantomeno la fattispecie di cui all'art. 627 c.p., posto che nel citato supporto erano registrati comunque dati di sicura pertinenza - anche esclusiva - dei querelanti e che lo stesso era stato prelevato senza il loro consenso. Ininfluente sarebbe poi, ai fini della configurabilità del reato, l'argomentazione secondo cui il supporto fosse inutilizzabile per essere illeggibili i dati in esso registrati, tanto più che non è stato accertato se il vizio sussisteva ab origine o meno. Irrilevante è per i ricorrenti anche l'ulteriore riferimento operato dai giudici dell'appello alla mancata causazione di un danno, elemento invero estraneo al fatto tipico di furto. Quanto infine alla possibilità, pure evocata dalla Corte di merito, che il Ra. non abbia agito perseguendo il proprio profitto, bensì, come dallo stesso affermato, al mero fine di verificare il salvataggio dei dati registrati sul server, la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nella misura in cui riconosce allo stesso tempo come tale versione susciti perplessità, posto che l'imputato stava sciogliendo l'associazione professionale, mentre l'istruttoria dibattimentale ha accertato come l'imputato abbia avviato una nuova attività concorrente a quella dello studio R., sviando parte della clientela e dei dipendenti di quest'ultimo.

2.2 Anche con il secondo motivo i ricorrenti deducono errata applicazione della legge penale, lamentando che la Corte territoriale, una volta esclusa la configurabilità del delitto di furto, non abbia valutato l'eventuale integrazione, in alternativa al furto, di altre fattispecie criminose, come l'appropriazione indebita o l'indebita rivelazione di segreti. Sotto il primo profilo viene evidenziato come il Ra. abbia utilizzato uti dominus il supporto di cui aveva comunque il possesso nella sua qualità di componente dell'associazione professionale. Quanto alla fattispecie di cui all'art. 621 c.p., i giudici del merito non avrebbero considerato come i dati registrati non concernevano esclusivamente l'attività dello studio R., ma altresì quella dell'avv. D., che condivideva con il primo il server. Non è dubbio che i dati relativi all'attività professionale di quest'ultima fossero riservati e che la legittimazione dell'imputato ad accedere al server non gli consentiva di prelevare ed utilizzare a proprio vantaggio tali dati.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono fondati nei limiti di seguito esposti.

2. La Corte territoriale ha assolto l'imputato dal reato di furto, ritenendo non provato che l'imputato abbia agito per un fine illecito anzichè nel suo pieno diritto. In realtà nel suo sviluppo argomentativo la sentenza risulta ben più ambigua, posto che in alcuni passaggi sembra addirittura escludere che la condotta del Ra. possa effettivamente ricondursi a quella di sottrazione ed impossessamento. Ciò che peraltro risulta fuori di discussione è che il giudice del merito non ha nutrito alcun dubbio sulla astratta qualificazione giuridica del fatto come furto. Assunto che, come eccepito con il secondo motivo di ricorso, non può invece essere condiviso.

3. E' pacificamente accertato - ammettendolo sia la sentenza, che i ricorrenti - come sul supporto DAT fossero stati copiati anche dati di proprietà dell'imputato, talchè la loro sottrazione al più avrebbe integrato la fattispecie di furto di cosa comune, peraltro depenalizzata a seguito dell'abrogazione dell'art. 627 c.p. ad opera del D.Lgs. n. 7 del 2016. Peraltro questa Corte ha già avuto modo di precisare che integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di sottrazione di cose comuni, la condotta di colui che faccia propria la cosa mobile di cui sia già possessore, pur se a titolo di compossesso "pro indiviso", non essendo possibile, infatti, configurare una "sottrazione" da parte di chi si trovi attualmente, anche se solo pro quota, in possesso del bene (Sez. 2, n. 4316/96 del 26/09/1995, Rullo, Rv. 204757; cfr. anche Sez. 5, n. 57749 del 15/11/2017, Martorana, Rv. 271989). Non di meno è altrettanto pacifico che sul medesimo supporto fossero stati registrati anche dati relativi all'attività di altre due studi professionali che condividevano con quello dell'imputato la gestione informatica delle rispettive attività, all'evidente fine di abbatterne i costi. Ciò significa che nel momento in cui il Ra. prelevò il supporto - del cui contenuto composito ed inscindibile non poteva che essere consapevole - egli può certamente aver esercitato un proprio diritto, come ritenuto dalla sentenza, ma il possesso del medesimo, anche qualora ritenuto legittimo, non gli consentiva di appropriarsi anche dei dati estranei alla sua attività, anche solo per farne verificare a terzi la corretta registrazione, a meno che non sussistesse - il che la sentenza non ha accertato - un accordo espresso o tacito con gli altri titolari dei dati in tal senso. Non di meno l'appropriazione riguarda anche il supporto in sè considerato - a prescindere dal suo contenuto - bene che vanta un autonomo valore economico, tutt'altro che trascurabile.

4. Se dunque il fatto nella sua materialità deve essere correttamente riqualificato come appropriazione indebita, l'affermazione della responsabilità dell'imputato è ovviamente condizionata alla sussistenza del dolo specifico di profitto richiesto dall'art. 646 c.p.. Scontato, per costante insegnamento di questa Corte, che l'ingiusto profitto, per conseguire il quale è posta in essere la condotta di appropriazione indebita, non deve connotarsi necessariamente in senso patrimoniale, ben potendo essere di diversa natura (ex multis Sez. 2, n. 40119 del 22/10/2010, Pasquinelli, Rv. 248765), la motivazione resa dalla Corte territoriale sull'analogo requisito previsto per il reato di furto non appare esaustiva, nella misura in cui la stessa si è acquietata sulla spiegazione resa dall'imputato in merito alle ragioni che avevano determinato la sua azione ed ha sopravalutato la possibilità per lo stesso di accedere autonomamente al server in remoto, senza valutare ed eventualmente approfondire le altre circostanze pure registrate in sentenza in merito al contesto in cui i fatti si sono verificati.

5. Non sono invece condivisibili le doglianze dei ricorrenti circa la sussistenza - non importa se in concorso o in alternativa - del reato di cui all'art. 621 c.p.. Difetta infatti la prova della rivelazione del contenuto del supporto, posto che la stessa doveva essere fornita dall'accusa, mentre la sentenza ha logicamente motivato in merito all'attendibilità del tecnico che l'aveva ricevuta dalle mani del Ra. quando ha riferito che i dati erano illeggibili, dovendosi dunque escludere che egli ne abbia preso cognizione.

6. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata ai soli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, il quale si atterrà ai principi ed alle indicazioni fornite da questa Corte.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019

Appropriazione indebita: ne risponde chi faccia propria la cosa di cui sia già possessore

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