Appropriazione indebita: non sussiste se l'intestatario fiduciario di quote societarie non trasferisce le quote al fiduciante
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Cassazione penale sez. II, 09/10/2018, n.53373

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario di quote societarie che non ottemperi all'obbligo di ritrasferirle al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la proprietà effettiva dei beni e non la mera detenzione ed inoltre le quote societarie, in quanto beni immateriali, non rientrano nella nozione penalistica di cosa mobile, così come definita dall'art. 624, comma secondo, cod. pen.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 10/05/2017, la Corte d'appello di Milano confermava la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Milano in data 15/12/2014 che aveva assolto M.F. dal reato di appropriazione indebita aggravata continuata nonchè O.S. e lo stesso M.F. anche dal reato di violenza privata per insussistenza del fatto.

2. Avverso detta sentenza, nell'interesse della parte civile Z.E., viene proposto ricorso per cassazione per lamentare, quale formale motivo unico, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza del reato di appropriazione indebita: tale conclusione viene basata sull'erroneo presupposto che le quote societarie sono beni immateriali non passibili di "appropriazione" e che - altrettanto erroneamente - non vi sarebbe alcuna interversione nel possesso, poichè le quote sarebbero state sempre ed esclusivamente intestate al M..

La sentenza, inoltre, si rivela gravemente contraddittoria laddove ha ritenuto che quest'ultimo detenesse fiduciariamente le quote per conto della parte civile, avendo le risultanze istruttorie dimostrato esattamente il contrario.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.

2. La Corte territoriale ha escluso la ricorrenza del reato di appropriazione indebita di beni (nella specie, di quote societarie) appartenenti a Za.El., nonchè l'interversione del possesso essendo state le quote sociali sempre intestate a M.F. e G.D., di tal che "la mancata ottemperanza ai dedotti accordi (peraltro non volti all'intestazione di quote societarie ad Za.El., secondo le deposizioni di R.L. e Z.G.) integrava al più un inadempimento civilistico".

2.1. Peraltro, si è ritenuto che, quand'anche si fosse ritenuto provato che il M. sia stato l'intestatario fiduciario delle quote delle società a responsabilità limitata in questione, ugualmente secondo il condivisibile orientamento della Corte territoriale - non si sarebbe potuto ritenere integrato il reato di appropriazione indebita, atteso che, in ossequio alla consolidata giurisprudenza di legittimità non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario che non ottemperi all'obbligo di ritrasferire i beni immateriali intestati al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto il fiduciario ha la titolarità reale dei beni (Sez. 2, n. 46102 del 28/10/2015, P.C. in proc. Rizzello, Rv. 265239).

2.2. Invero, il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi: l'uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l'altro di carattere interno - pure esso effettivamente voluto - ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio, ed in virtù del quale il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo. Pertanto, la intestazione fiduciaria di titoli, integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l'interposto acquista - a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata - la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù del rapporto interno con l'interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonchè a ritrasferire i titoli a quest'ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario (Cass. civ., Sez. 2, 06/05/2005, n. 9402).

3. Nessun dubbio, poi, può sussistere sul fatto che le quote societarie, proprio in considerazione della loro natura di bene immateriale, non rientrino nella nozione tipica di "cosa mobile" (Sez. 2, n. 20647 del 11/05/2010, P.G. e P.C. in proc. Corniani, Rv. 247270, in fattispecie relativa all'appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto in relazione ai quali la Corte ha ritenuto sussistere il reato di appropriazione indebita solo con riguardo ai documenti che li rappresentavano).

3.1. Invero, la lettera e lo spirito dell'art. 646 c.p., non consentono altro oggetto materiale che denaro od altra cosa mobile (sulla non estensione del concetto di "cosa mobile" anche a beni immateriali v., ad es. Sez. 2, n. 36592 del 26/09/2007, Trementozzi e altri, Rv. 237807; in generale, sul concetto di cosa mobile a fini penalistici, v. altresì Sez. 2, n. 9802 del 07/05/1984, Dagrada, Rv. 166566; Sez. 1, n. 8514 del 12/02/1974, Rossi, Rv. 128491).

3.2. Per cosa mobile - secondo la nozione desumibile, nella sua massima estensione, dall'art. 624 cpv. c.p. - deve intendersi qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perchè ha l'attitudine a muoversi da sè oppure perchè può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorchè non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione. In altre parole, la nozione penalistica di cosa mobile non coincide con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta e, per altri, più ampia: è più ridotta, laddove non considera cose mobili le entità immateriali come, appunto, le opere dell'ingegno e i diritti soggettivi - che, invece, l'art. 813 c.c., assimila ai beni mobili; è più ampia, laddove comprende beni che, originariamente immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare (queste ultime assoggettate dall'art. 818 c.c., al regime dei beni immobili), siano mobilizzati, divenendo quindi asportabili e sottraibili e, pertanto, potenzialmente oggetto di appropriazione. Ulteriore conferma di ciò si desume - come sopra si è accennato - dall'art. 624 cpv. c.p., che considera cosa mobile anche l'energia, elettrica o di altra natura, munita di valore economico. Ma, come si è visto, il legislatore non si è spinto oltre, mantenendo costante il requisito di base della naturalistica fisicità della cosa mobile nella sua accezione penalistica, nè il principio di stretta legalità consente di estendere ulteriormente la nozione anche alla proprietà industriale.

3.3. Inconferente, infine, deve ritenersi l'evocazione difensiva del precedente giurisprudenziale che ha riconosciuto che anche i beni immateriali, se dotati di un diretto ed intrinseco valore economicamente apprezzabile, potrebbero essere suscettibili di appropriazione (Sez. 6, n. 33031 del 09/05/2018, Froio, Rv. 273775).

In realtà, il principio in parola è stato affermato con riferimento a (diversa) fattispecie di reato (peculato) ed in relazione, con riferimento all'oggetto, ad una banca dati informatica contenente l'anagrafe dei contribuenti di un Comune, predisposta dal concessionario del servizio di riscossione, che, in base alla previsione contrattuale, doveva essere restituita all'ente dopo la risoluzione del rapporto: bene - quello della banca dati informatica - avente certamente un valore economico, trattandosi, in ultima analisi, di documenti intesi nella loro cartacea fisicità non separabile dall'intrinseco valore economico consistente nella sintesi delle informazioni tecniche in essi contenuta, caratteristiche - queste che, invece, anche da un punto di vista strettamente morfologico, non si rinvengono nelle quote societarie.

4. Per il resto, le doglianze in ordine alla struttura della motivazione si presentano manifestamente infondate in quanto le stesse mirano a proporre al giudice di legittimità un'inammissibile lettura alternativa delle emergenze processuali. Il vizio di motivazione, per superare il vaglio di ammissibilità, non deve essere diretto a censurare genericamente la valutazione di colpevolezza, ma deve invece essere idoneo ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, sia esso identificabile come illogicità manifesta della motivazione, sia esso inquadrabile come carenza od omissione argomentativa; quest'ultima declinabile sia nella mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia nella carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato.

4.1. E' noto infatti che il perimetro della giurisdizione di legittimità è limitato alla rilevazione delle illogicità manifeste e delle carenze motivazionali, ovvero di vizi specifici del percorso argomentativo, che non possono dilatare l'area di competenza della Suprema Corte fino a comprendere la rivalutazione dell'interno compendio indiziario. Le discrasie logiche e le carenze motivazionali per essere rilevanti devono, inoltre, avere la capacità di essere decisive, ovvero idonee ad incidere il compendio indiziario, incrinandone la capacità dimostrativa. Il vizio di motivazione per superare il vaglio di ammissibilità non deve dunque essere diretto a censurare genericamente la valutazione di colpevolezza, ma deve invece essere idoneo ad individuare un preciso difetto del percorso logico argomentativo offerto dalla Corte di merito, sia esso identificabile come illogicità manifesta della motivazione, sia esso inquadrabile come carenza od omissione argomentativa; quest'ultima declinabile sia nella mancata presa in carico degli argomenti difensivi, sia nella carente analisi delle prove a sostegno delle componenti oggettive e soggettive del reato contestato.

4.2. Nel caso di specie, il ricorrente piuttosto che rilevare vizi decisivi della motivazione si limitava a offrire una interpretazione degli elementi di prova raccolti diversa da quella fatta propria dalla Corte territoriale, in contrasto palese con le indicate linee interpretative.

5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2018

Appropriazione indebita: non sussiste se l'intestatario fiduciario di quote societarie non trasferisce le quote al fiduciante

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