RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. A seguito di rituale opposizione a decreto penale di condanna e conseguente emissione di decreto di giudizio immediato, Fu.Ni. veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di cui all'art. 646 cod. pen., come formulato nel capo di imputazione.
Alla prima udienza del 5 novembre 2018 il giudice, verificata la regolarità delle notifiche, dichiarava l'assenza dell'imputato e rinviava alla data del 24 settembre 2019.
In tale udienza la società Me.En. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, si costituiva parte civile per il tramite del proprio difensore e procuratore speciale. Il giudice, previa revoca del decreto penale opposto, dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva le prove richieste dalle parti.
La successiva udienza del 23 marzo 2020 non veniva celebrata a causa della sospensione di ogni attività processuale disposta dall'art. 83 d.l. 18/2020 con conseguente sospensione del termine di prescrizione per la durata di 64 giorni.
L'attività veniva riprogrammata per la data del 14 luglio 2020 nella quale veniva sentito il teste Me.En.
L'istruttoria proseguiva il 23 febbraio 2021 con l'audizione dei testi Ce.Di. e Pi.Lu. e con l'esame dell'imputato.
In data 14 luglio 2020 veniva disposto un mero rinvio come da provvedimento trasmesso dal giudice alle parti.
La discussione aveva luogo il 15 dicembre 2021, cui seguiva un differimento per repliche: all'ultima udienza del 1 gennaio 2022 il giudice pronunciava la sentenza mediante lettura del dispositivo, riservandosi il termine di quarantacinque giorni per il deposito della motivazione.
2. All'esito del giudizio risulta pienamente provata la penale responsabilità dell'imputato.
Costituiscono fonti di prova della decisione le deposizioni dei testi Me.En., Ce.Di. e Pi.Lu., oltre alla dichiarazioni rese dall'imputato in sede di esame dibattimentale.
Assume rilievo, inoltre, la documentazione acquisita agli atti con particolare riguardo alla visura camerale della società Fa. S.r.l., ai documenti di trasporto relativi alla "rastrematrice tubo" e alla "centralina idraulica" e allo scambio di e-mail intercorso fra le due società .
Di tali risultanze è necessario dare riassuntivamente conto ai fini di una compiuta ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento.
2.1. Il teste Me.En. premetteva di essere il legale rappresentante della "Me.En. s.a.s.", società operante nel settore della costruzione di attrezzature meccaniche e di stampi per lamiere, avente sede a Romano d'Ezzelino (VI).
Spiegava di avere intrattenuto rapporti commerciali dal 2012 con la Fa. s.r.l., cliente solo occasionale con sede a Marostica (VI), precisando di avere sempre interloquito con i fratelli Fa. e Mo.Bo., che identificava come i proprietari dell'azienda.
La prima fornitura aveva avuto a oggetto una macchina foratrice, rispetto alla quale aveva ricevuto con fatica il pagamento dovuto.
Due anni dopo la Fa. s.r.l. gli aveva chiesto di realizzare un nuovo macchinario, segnatamente, una "foratrice semiautomatica" per tubi uguale a quella realizzata in precedenza: visti i problemi con i pagamenti verificatisi in passato, aveva preso informazioni sulle condizioni economiche della società e, avendo ricevuto rassicurazione in ordine allo stato di solvibilità della società , aveva accettato la commessa.
Poco tempo dopo la consegna di tale macchina la Fa. S.r.l. aveva commissionato un altro pezzo, in specie una "rastrellatrice": i Bo. avevano insistito per tale fornitura, nonostante non avessero pagato ancora il primo macchinario, rappresentando di dovere realizzare un progetto importante con un cliente straniero e gli avevano garantito che lo avrebbero pagato a breve. Per tale ragione aveva accettato di realizzare anche questa seconda macchina ma con l'accordo che la stessa sarebbe stata consegnata "in conto visione": nello specifico, avevano pattuito che la Fa. s.r.l. avrebbe trattenuto la macchina circa 15/20 giorni (precisava, anzi, a seguito di contestazione che il termine era stato fissato in un mese) al fine di effettuare la campionatura per presentare il pezzo al cliente russo. Il macchinario poi sarebbe dovuto tornare in sede e da quel momento avrebbero dovuto accordarsi sul prezzo sia della prima che della seconda macchina.
Un giorno erano stati contattati dalla Fa. s.r.l., chiedendo il suo intervento per la risoluzione di un problema tecnico, ma quando era giunto nello stabilimento con suo figlio non erano stati fatti entrare con una banale scusa.
Da allora aveva provato più volte a contattare i Bo. ma senza successo: all'inizio era solita rispondere una segretaria, la quale sosteneva sempre che i proprietari non fossero presenti e di non sapere nulla della vicenda del macchinario.
Specificava che si era recato più volte presso la sede dell'azienda ma che nella stessa non vi aveva più trovato nessuno: aveva del resto saputo, anche sulla base di quanto riferito dai Bo., che gli stessi si erano di fatto trasferiti in Serbia (cfr. anche e-mail del 30 giugno 2015 spedita da Fa. Bo. a Me.En., di cui all'all. 7 produzione della p.c.).
Inoltre, si erano succeduti alla guida della società vari soggetti tra cui un certo dott. Ma..
Riferiva che in tale contesto aveva sollecitato in più occasioni il pagamento del primo macchinario e di avere anche portato all'incasso l'assegno consegnato a garanzia, che però era risultato insoluto.
Parimenti aveva chiesto svariate volte la restituzione del secondo macchinario (consegnato in conto visione) avente valore di 18.000 circa, per il quale al momento della consegna - come da accordi - non avevano chiesto alcun pagamento (cfr. scambio di e-mail prodotto dalla parte civile all'ud. del 134 luglio 2020): il macchinario era stato poi riconsegnato ma solo nel novembre 2015 da un autista proveniente dalla Serbia, che un giorno si era presentato in azienda (cfr, DDT del 12 novembre 2015). Il pezzo, tuttavia, era risultato gravemente danneggiato e non più funzionante, poiché la centralina e il motore erano stati rotti mentre la pompa era stata "ingrippata".
Il teste precisava di non avere mai conosciuto Fu.Ni. e di avere sempre interloquito con i Bo..
2.2. Il teste Ce.Di., in servizio presso la stazione Carabinieri di Romano d'Ezzelino dichiarava di essersi limitato a raccogliere la querela e la successiva integrazione effettuata da Me.En. e di non avere svolto ulteriore attività di indagine.
2.3. Il teste Pi.Lu. premetteva di avere lavorato come impiegato presso la Fa. s.r.l.: spiegava che all'interno dell'azienda gli ordini erano impartiti da Fa. e Mo.Bo., i quali seguivano rispettivamente la parte commerciale e quella produttiva. Costoro, inoltre, avevano sempre intrattenuto anche i rapporti con i fornitori e i clienti.
In relazione ai pezzi forniti dalla società Me.En. s.a.s. affermava con certezza che la contrattazione era stata seguita direttamente dai fratelli Bo..
Il teste riferiva, infine, di avere conosciuto Fu.Ni. e di averlo visto non più di cinque o sei volte in azienda, spiegando che costui - per quanto ne sapeva - seguiva solamente la parte contabile.
2.4. L'imputato in sede di esame dibattimentale dichiarava di avere ricoperto per un certo periodo la carica di amministratore della Fa. s.r.l.: all'inizio ne era il commercialista e poi, a seguito della instaurazione di un concordato preventivo in continuità , ne era diventato l'amministratore. Egli stesso ne era anche socio assieme a Mo.Ma.
Spiegava che prima di quel momento la società , denominata Fa. Group s.r.l., era di proprietà dei fratelli Bo.: costoro, a causa della procedura in corso, non avevano potuto mantenere la carica di amministratori ed erano stati quindi assunti come dipendenti, ma i rapporti con fornitori e clienti, di fatto, erano intrattenuti da loro. All'epoca la Fa. s.r.l. aveva circa otto o nove dipendenti.
Egli, quindi, occupandosi in via esclusiva della parte amministrativa e contabile, non era a conoscenza della gestione operativa e commerciale dell'attività che, per l'appunto, faceva capo ai Bo..
Fu.Ni. affermava, inoltre, di essere venuto a conoscenza della mancata restituzione del macchinario in un secondo momento, cioè dopo la presentazione della querela da parte di Me. e di averne chiesto conto ai Bo., i quali avevano confermato che si erano fatti consegnare un macchinario con l'intenzione di acquistarlo, che la vendita non aveva più avuto luogo e che esso era stato restituito dopo i termini concordati.
3. Le risultanze processuali, complessivamente valutate, provano al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità dell'odierno imputato.
È dimostrato, anzitutto, che la Fa. s.r.l. abbia ricevuto "in prestito" dalla Me.En. s.a.s. una rastrematrice automatica con relativa centralina idraulica e che l'abbia restituita successivamente alla scadenza concordata e in condizioni di inutilizzabilità a causa del suo deterioramento.
Tale ricostruzione emerge dalla deposizione del teste Me., il quale non solo è risultato pienamente credibile ma ha anche fornito una ricostruzione dei fatti intrinsecamente attendibile, spiegando nel dettaglio e senza contraddizioni l'intera vicenda.
Del resto, la sua deposizione trova piena conferma nella documentazione acquisita agli atti e, segnatamente, nei DDT del 23 aprile 2015 e nella corrispondenza intercorsa fra la Fa. s.r.l. e la Me. s.r.l.: tali documenti, infatti, provano in modo inequivocabile la consegna "in c/visione" del macchinario e la mancata restituzione nei termini concordati avvenuta soltanto - come anticipato da una e-mail spedita in data 12 novembre 2015 dalla segretaria della Fa. - nella seconda metà di novembre (cfr. in particolare doc. 6 acquisito all'ud. del 14 luglio 2020 dal titolo "oggetto: richiesta saldo fatture e comunicazione di incasso assegno").
Lo stesso Fu.Ni. in dibattimento ha dichiarato di essere venuto a conoscenza dai Bo. - seppure ex post - di questa consegna e della mancata restituzione nei termini.
È dunque provata la condotta materiale del reato: invero, a prescindere dalla difficoltà di definire giuridicamente la natura del contratto stipulato dalle parti, sono certi la mancata deliberata restituzione del bene una volta scaduto il termine concordato e l'uso dello stesso in modo incompatibile con le ragioni che ne hanno giustificato la consegna.
Tale condotta integra pacificamente il reato di appropriazione indebita.
Invero, è opinione consolidata in giurisprudenza che configuri il reato in esame la mancata riconsegna alla scadenza del termine contrattuale della cosa stessa, essendo questo un indice inequivocabile della volontà di affermazione del dominio sulla cosa posseduta (cfr. Cass. Sez. 2, n. 8041 del 11/03/1975 secondo cui incorre in tale reato, e non già in un semplice inadempimento di un'obbligazione di natura civilistica, colui il quale, avendo preso a nolo un'autovettura, non la restituisca al noleggiatore).
In ogni caso si osserva che anche l'uso indebito configura il reato: infatti la sottoposizione della res a un elevato logorio o a un forte rischio di distruzione è incompatibile con l'aspettativa del proprietario di rientrare in possesso della cosa medesima; in altri termini, in tali ipotesi l'utilizzo eccede le facoltà inerenti al possesso e si accompagna all'esplicita o implicita ma inequivocabile manifestazione di volontà dell'agente di tenere la cosa come propria in contrasto con i diritti del legittimo titolare (cfr. ex multisCass. Sez. 2, n. 47665 del 27/11/2009).
La fattispecie concreta rientra, quindi, nel paradigma del reato di cui all'art. 646 c.p. la cui ratio deve essere individuata, per l'appunto, nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa.
3.2. Ciò posto, occorre procedere con l'individuazione del soggetto responsabile della condotta contestata.
È emerso inequivocabilmente dagli atti come Fu.Ni. a partire dal 23 settembre 2010 fino al 28 settembre 2015 abbia ricoperto la carica di amministratore di diritto della società (cfr. visura storica prodotta dal P.M. all'ud. del 14 luglio 2020).
L'istruttoria svolta ha evidenziato, però, come accanto all'amministratore di diritto fossero presenti altri soggetti - in specie i fratelli Bo. - che si occupavano di fatto della gestione della società , quantomeno in relazione all'aspetto operativo e, dunque, ricoprivano in sostanza la veste di amministratori di fatto della stessa: l'inequivocabile ruolo ricoperto dai Bo. avrebbe quindi legittimato l'esercizio dell'azione penale anche nei loro confronti, scelta inopinatamente non compiuta dalla Pubblica Accusa, nonostante sin dalla fase delle indagini Me. avesse evidenziato il loro ruolo all'interno della Fa. s.r.l..
Tale dato non esonera tuttavia da responsabilità l'odierno imputato, essendo evidente il suo coinvolgimento quantomeno a titolo di concorso (si rammenta al riguardo che non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza, allorché si ritenga incidentalmente in sentenza come commesso in concorso con altri un reato che l'originaria contestazione ascriveva all'unico imputato, cfr. Cass. pen. sez. I 4 marzo 1998, n. 2794).
In primo luogo, egli, in qualità di amministratore, aveva un dovere di conservazione del patrimonio sociale: onere che avrebbe dovuto - e potuto - esercitare in prima persona se si considerano le modeste dimensioni dell'azienda, che all'epoca aveva alle dipendenze non più di otto o nove dipendenti.
Del resto, sussiste la responsabilità di Fu.Ni. in relazione ai fatti contestati non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della Fa. s.r.l. ma anche per il mancato esercizio dei poteri (connaturati alla carica da lui rivestita) di gestione sulla società e di controllo sull'operato degli amministratori di fatto: poteri che egli aveva l'onere di attivare in maniera ancora più rigorosa considerata la sua consapevolezza in ordine alla esistenza dei due amministratori di fatto.
3.4. Il dolo del reato in esame si evince dalla condotta complessivamente tenuta dall'imputato, che in modo del tutto consapevole ha omesso di esercitare la necessaria vigilanza sull'attività svolta dai Bo..
5. Quanto al trattamento sanzionatorio, gli indici di cui all'art. 133 cod. pen., complessivamente considerati, inducono a applicare la pena-base - essendo applicabile ratione temporis ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p. la disciplina previgente - di mesi cinque di reclusione ed Euro 200 di multa.
La pena deve essere poi aumentata per la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11, cod. pen., contestata in fatto, essendo pacifico che l'imputato ha commesso il fatto con abuso di prestazione d'opera.
Non sussistono, invece, elementi di segno positivo diversi dal mero stato di formale incensuratezza dell'imputato, che giustifichino il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
In conclusione, appare congrua la pena di mesi sei reclusione e Euro 300,00 di multa.
5. L'imputato deve essere poi condannato al risarcimento alla parte civile del danno alla medesima cagionato, che si liquida definitivamente in 7.000 Euro in valori attuali oltre interessi come per legge: tale somma viene liquidata in via equitativa a titolo di danno patrimoniale, tenuto conto del fatto che il macchinario è stato restituito seppure in parte danneggiato.
Non sussistono, invece, i presupposti per la concessione della provvisoria esecuzione, non avendo la parte civile adeguatamente dimostrato la sussistenza dei giustificati motivi a fondamento di tale pretesa.
L'imputato deve essere altresì condannato alla refusione in favore della medesima parte civile delle spese di costituzione e difesa, che vengono liquidate in Euro 3.240,00 (come da parametri medi) oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Tenuto conto dello stato di incensuratezza dell'imputato può formularsi una prognosi positiva in ordine al fatto che lo stesso si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati: appare, quindi, riconoscibile il beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinato però al risarcimento del danno cagionato alla parte civile come quantificato dal Tribunale, da effettuarsi entro tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza (infatti il risarcimento del danno appare necessario e sufficiente a esercitare l'effetto deterrente rispetto alla commissione di nuovi reati).
Segue per legge la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali.
L'attuale carico di lavoro impone l'individuazione di un termine non inferiore ai quarantacinque giorni per il deposito della motivazione.
P.Q.M.
Visti gliartt. 533 e 535 c.p.p.,
dichiara l'imputato responsabile del reato ascrittogli e lo condanna alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
Visti gli artt. 538 ss. c.p.p.,
condanna l'imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, che liquida in Euro 7.000, oltre interessi come per legge. Lo condanna inoltre alla refusione in favore della medesima parte civile delle spese di costituzione e difesa, che liquida in Euro 3.420,00, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Visto l'art. 165 c.p.p.,
dispone la sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno alla parte civile costituita da eseguirsi entro tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza.
Visto l'art. 544 comma 3 c.p.p.,
indica in giorni quarantacinque il termine per il deposito della motivazione.
Così deciso in Vicenza il 21 gennaio 2022.
Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2022.