Bancarotta fraudolenta: sui pagamenti tra società infragruppo
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Cassazione penale sez. V, 23/06/2023, n.39139

Non integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale i pagamenti tra società infragruppo riconducibili all'operatività del contratto di "cash pooling", purché i consigli di amministrazione delle società interessate abbiano deliberato il contenuto dell'accordo, definendone l'oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28/09/2016, il Tribunale di Cagliari riconosceva, tra gli altri, S.M., colpevole dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e semplice per aggravamento del dissesto, limitatamente alle condotte a lui ascritte, escluse le distrazioni connesse alla cessione del ramo Cantieri alla società (Omissis) s.r.l. e all'I.V.A. di gruppo, nonché di bancarotta semplice documentale, così riqualificato il fatto ascritto sub A), condannandolo alla pena di anni nove di reclusione, oltre alle statuizioni accessorie anche fallimentari che determinava in anni dieci.

1.1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Cagliari, in parziale riforma di quella del Tribunale di Cagliari, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di S.M. per i reati di bancarotta semplice impropria per aggravamento del dissesto (artt. 224 e 217 L.F.), e di bancarotta semplice documentale (art. 217 L.F.) di cui al capo A); ha parzialmente assolto l'imputato dal reato di bancarotta per distrazione, con riguardo ad alcune fattispecie distrattive contestate nel capo A), e ha, conseguentemente, rideterminato, per i residui fatti contestati sub A), la pena in anni sette e mesi sei di reclusione, confermando, nel resto, le statuizioni di primo grado.

2. Nell'interesse dell'imputato ha proposto ricorso l'avvocato G., il quale svolge diciotto motivi, che hanno riguardo ai fatti (tutti compendiati nell'articolato capo A) per i quali S.M. ha subito condanna. Gli episodi distrattivi sono stati compendiati dai giudici di merito nei capi 1.3, 1.4, 5, 6, 12, 16 della sentenza impugnata. Agli stessi ha fatto riferimento anche il ricorrente e a tale schema ci si atterrà nella presente disamina.

3. I primi sei motivi hanno riguardo al capo 1.3. della sentenza impugnata, avente a oggetto la contestazione di bancarotta distrattiva fraudolenta integrata dalla restituzione parziale (pari a Euro 1.067.806,46), avvenuta negli esercizi dal 2002 al 2004, in favore della controllante (Omissis) s.r.l., degli importi pari a 2.156.640,00, versati da questa a (Omissis), nel 2002, in conto futuro aumento di capitale sociale (capo A - anni 2002 - 2003 - 2004). Con tali motivi viene denunciata violazione di legge sotto plurimi profili.

3.1. Con il primo motivo ci si duole che la Corte di appello abbia ritenuto i versamenti effettuati dal socio (Omissis) s.r.l. in favore della fallita (Omissis), annotati in contabilità "in conto futuro aumento di capitale", quale capitale a rischio, ritenendo integrata la distrazione tipica per la restituzione parziale al socio autore del versamento. Secondo la Difesa, in virtù del vincolo a futuro aumento di capitale ab origine impresso alle somme versate dal socio di maggioranza in favore della (Omissis), una volta che detto aumento non era stato mai deliberato né realizzato, gli importi dovevano necessariamente essere restituiti al socio versante, neppure residuando spazio per valutazioni di opportunità o giustificatezza della retrocessione correlate allo stato di salute aziendale, come ha ritenuto la Corte di merito. Si sostiene - sia in base al principio contabile n. 28 O.I.C. (Organismo Italiano di Contabilità), sia per la interpretazione data dalla giurisprudenza civile e penale di questa Corte - che i versamenti effettuati dai soci in favore della società, vincolati alla sottoscrizione di aumenti di capitale (c.d. targati), non vengono acquisiti al patrimonio sociale, rimanendo in deposito o in detenzione precaria presso la società, perché indisponibili per essa, salvo che per compiere il programmato aumento di capitale, residuando, nell'ipotesi in cui detto aumento non avvenga, l'unica alternativa della restituzione al socio versante, come avvenuto

lecitamente nel caso di specie. Viene citata la giurisprudenza civile, che qualifica tali versamenti come soggetti a condizione risolutiva (Cass. civ. sez. 1 n. 2314 del 19.3.1996). Si invoca, a conferma del vincolo di destinazione, il verbale del Consiglio d'Amministrazione del 09/08/2002, richiamato nel capo di imputazione e dalle sentenze di merito, e si stigmatizza la generalizzazione con la quale la giurisprudenza penale opera un indistinto riferimento a versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capitale, tenuti ben distinti, invece, nella giurisprudenza civile, assimilando anche quest'ultima fattispecie al capitale di rischio e negando che detti versamenti possano essere restituiti durante la vita della società, potendo venire richiesta la retrocessione solo allo scioglimento della società e nei limiti del residuo. Si citano approdi della giurisprudenza civile che distingue le diverse figure di dazione del socio. In conclusione, poiché le somme versate dalla (Omissis) s.r.l. non sono entrate nel patrimonio sociale della fallita, non sussiste l'elemento costitutivo del delitto di bancarotta distrattiva.

3.2. Con il secondo motivo che pure denuncia violazione di legge penale, in specie dell'art. 51 c.p., si deduce che, anche a volere accedere alla tesi della assimilazione della somma in questione quale versamento in conto capitale, i ricordati presupposti in diritto individuano una precisa disciplina extra-penale che autorizza alla restituzione, cosicché la Corte di appello avrebbe, in ogni caso, dovuto ritenere la condotta scriminata ai sensi dell'art. 51 c.p..

3.3. Con una terza doglianza si denuncia l'erronea applicazione degli artt. 43 - 47 c.p. in relazione all'art. 216 L.F., e la in-configurabilità del dolo tipico della bancarotta distrattiva, per avere l'amministratore restituito le somme versate nella convinzione, alla luce dei richiamati presupposti giuridici, della loro estraneità al patrimonio sociale, venendo in rilievo un errore su norma extra-penale (e' citata Cass. civ. sez. 1 n. 31186/2018).

3.4. Con il quarto motivo ci si sofferma sulla regola di contabilità O.I.C. n. 28 per segnalare le illogiche e arbitrarie conclusioni della Corte di appello, laddove afferma che "le somme targate avrebbero potuto essere restituite solo qualora il loro vincolo venisse meno definitivamente (ad esempio in caso di delibera in tal senso dell'assemblea ovvero di cessazione dell'attività sociale) divenendo in tal modo crediti chirografari verso la società". La predetta regola, infatti, si sostiene, non conduce a tale interpretazione.

3.5. Il quinto motivo affronta il punto della sentenza con la quale si è negato che - come sostenuto dalla Difesa - tra controllante (Omissis) s.r.l. e (Omissis) s.p.a fosse praticato il cash pooling, ovvero che esistesse una cassa comune, o tesoreria centralizzata di gruppo in capo a (Omissis), capace di spiegare il senso complessivo della dinamica di versamenti e restituzioni. Nega la Difesa che detta pratica debba essere necessariamente supportata dall'esistenza di un conto corrente comune tra le società del gruppo, gestito dalla società tesoriera, come affermato nella sentenza impugnata, che, appunto, non ne ha trovato traccia, non rinvenendosi in alcuna disposizione ordinamentale un tale requisito ostativo in tema di cash pooling, che si rivela, dunque, arbitrario. In ogni caso, la Corte di appello avrebbe potuto basarsi sul sicuro indice costituito dalla gestione unitaria dell'I.V.A. di gruppo per gli anni 2004 e 2005, validamente gestita dal S. a vantaggio della (Omissis) s.p.a., tanto che egli era stato assolto già in primo grado dalla imputazione di sottrazione dell'IVA. Tanto più che la stessa Corte territoriale dà atto che, nei fatti, a seguito delle reintegrazioni sempre effettuate da (Omissis) pur dopo le restituzioni da parte della (Omissis), la fallita, lungi dal subire perdite, aveva invece guadagnato, a discapito della controllante, oltre 2.800,000 Euro. In ogni caso, manca nella sentenza lo scrutinio dell'offesa e del dolo, non avendo spiegato perché, a fronte di un saldo sistematicamente attivo della gestione comune, potesse trarsi la certezza della messa in pericolo della garanzia patrimoniale e il dolo dell'imputato di comprometterla.

3.6. Con il sesto motivo è denunciata la erronea qualificazione della condotta in esame quale bancarotta distrattiva anziché preferenziale. Posto che il versamento in conto futuro aumento di capitale non incrementa il patrimonio sociale, tanto che non viene computato nel patrimonio netto - secondo la regola O.I.C. n. 28, nemmeno medio tempore, - sussiste il diritto del socio versante a ottenere la restituzione a determinate condizioni, potendo quindi ritenersi semmai la bancarotta preferenziale, analogamente a quanto avviene con i mutui di scopo, il cui rimborso non rispetti l'obbligo di postergazione ex art. 2467 c.c.

3.7. Con il settimo motivo è attinto il capo 1.4. della sentenza impugnata, il quale si riferisce alle distrazioni in favore di (Omissis) s.r.l., a cui sono stati pagati dai debitori -su indicazione del ricorrente- i crediti della fallita verso (Omissis) (negli anni 2006 (Euro 122.516,58) - 2007 (Euro 30.000) e verso O.G. (anno 2008 - Euro 5.548,43)). La Difesa contesta la ragione unica sulla quale si fonda la affermazione di responsabilità, ravvisata nella non riconoscibilità del cash pooling, richiamando le osservazioni già svolte.

3.8. L'ottavo motivo denuncia vizi della motivazione con riguardo al capo 13 della condanna, che attiene alla distrazione (Omissis) (Euro 116.392,10), interponendo fittiziamente la società (Omissis) s.r.l. nei rapporti tra (Omissis) e (Omissis) s.r.l. Secondo la Difesa, la sentenza impugnata sarebbe incorsa ancora una volta nell'errore di ritenere insussistente il cash pooling tra (Omissis) e (Omissis); inoltre, a confutazione dell'argomento della posteriorità del dirottamento su (Omissis) S.r.l. in questione, avvenuto nel 2008, rispetto alla cessazione del regime fiscale di I.V.A. di gruppo (2004 e 2005), la Difesa osserva che tanto non esclude che, invece, ancora nel 2008, la tesoreria accentrata abbia continuato ad operare nei rapporti inter partes anche dopo l'abbandono del peculiare regime fiscale dell'I.V.A. di gruppo. Ancora, la Corte territoriale avrebbe omesso del tutto di replicare alla deduzione difensiva secondo cui la affermata estraneità della prestazione, e perciò del credito, alla società fallita, comporta che la società non sarebbe stata depauperata di nulla, essendo effettivamente riferibile a (Omissis) s.r.l. l'attività pagata dalla (Omissis) s.r.l.

3.9. I motivi 9, 10 e 11 del ricorso si riferiscono al capo 5 di condanna riguardante la distrazione della somma di Euro 2.000.000, data dall'acquisizione mediante sottoscrizioni di aumento di capitale con sovraprezzo, effettuati alle date del 5 ottobre 2004, 8 ottobre 2004, del 27 ottobre 2004, di una quota pari al 47% della (Omissis) S.p.a., nonostante la società (Omissis) versasse in una situazione di crisi finanziaria, come fatto rilevare dal collegio sindacale nel verbale del 27.09.2004, e non essendo la (Omissis) in grado di operare concretamente per mancanza delle necessarie autorizzazioni, rivelandosi del tutto antieconomico l'investimento della fallita. In particolare:

3.9.1. Con il nono motivo si denunciano vizi della motivazione dipendenti dall'avere la Corte territoriale ignorato la produzione documentale attestante fatti decisivi.

Il riferimento e', in primo luogo, alla relazione del curatore fallimentare della (Omissis), da cui emergerebbe che la (Omissis) avesse consegnato a (Omissis) l'impianto per il trattamento dei fanghi rossi di (Omissis) operante e produttivo, che la (Omissis) avesse le autorizzazioni allo scarico dei fanghi e avesse operato concretamente per anni, pienamente nel 2004, con andamento intermittente nel 2005 e fino al maggio 2006, quando venne fermato definitivamente per problemi legati alle autorizzazioni amministrative; il secondo atto di cui non si sarebbe tenuto conto è rappresentato dal contratto del 31/01/2006 tra (Omissis) e (Omissis), da cui si trae conferma che la prima ha sviluppato tecnologie per depurazione e scarico a mare dell'acqua surnatante del bacino e fanghi rossi di proprietà dell'(Omissis), e che la Provincia aveva rilasciato alla (Omissis) autorizzazione allo scarico a mare delle acque trattate per mezzo del suo impianto. Si tratta di atti che smentiscono la tesi propugnata dalla sentenza impugnata, secondo cui la SPT aveva fatto un investimento di due milioni di Euro in una società inoperante e tale costretta a rimanere per mancanza delle necessarie autorizzazioni. Invece, (Omissis) trasferì a (Omissis) un impianto operante, autorizzato, con un cliente importante come (Omissis) s.p.a., cosicché (Omissis) al momento dell'aumento di capitale di (Omissis) aveva una seria prospettiva di produttività; (Omissis) conferì, quindi, due milioni di Euro nell'ottobre 2004, per acquisire il 47% di un'azienda operante, autorizzata, sinergica che avrebbe garantito, in prospettiva, stabilità e crescita del valore dell'investimento.

3.9.2. Con una seconda doglianza (articolata con il motivo 10), che denuncia ancora vizi della motivazione, la Difesa ricorrente lamenta la mancata dimostrazione del dolo in capo al ricorrente, non avendo la Corte di appello spiegato perché fosse chiaro che al momento dell'investimento il concreto pericolo di danno per i creditori, atteso che esso avvenne nei confronti di un'azienda in start. up con le carte in regola. Tanto più, alla luce della deposizione del teste P.F., dominus di (Omissis), l'istituto bancario che aveva finanziato (Omissis) per effettuare investimenti in (Omissis) con un prestito garantito dalle proprietà immobiliari della mutuataria - che aveva ritenuto l'affare economicamente valido.

3.9.3. Un ultimo motivo (motivo 11), riguardante il capo 5 della condanna, attiene alla qualificazione giuridica del fatto, che avrebbe dovuto essere considerato come bancarotta preferenziale, essendo ravvisabile il presupposto dell'obbligo giuridico di eseguire il pagamento a (Omissis) s.p.a., semmai da postergarsi; avrebbe dovuto conseguire a tale riqualificazione la declaratoria di prescrizione. Si sostiene, in sintesi, che la società (Omissis), facente capo a P. e alla (Omissis), avesse effettuato l'investimento sulla base di un accordo, da ricondursi ai c.d. patti parasociali di cui all'art. 2341 c.c., vincolante per la stessa (Omissis) e la (Omissis), con cui quest'ultima assumeva l'impegno a investire il conferimento di (Omissis) in (Omissis); in tal modo, la (Omissis) poneva le basi di un nuovo rapporto di forza nel gruppo, sia nella controllante che nella controllata, così stabilendo un nuovo assetto proprietario in entrambe le società in quanto riusciva a proiettare, attraverso l'impegno della (Omissis) ad acquisire le quote di (Omissis), per il tramite della (Omissis), l'influenza di (Omissis) anche su (Omissis).

3.10. I motivi 12 e 13 denunciano erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione con riguardo alla distrazione di apparecchi elettronici, non rinvenuti dalla curatela, per un valore complessivo di 13.098,90, risultante dal libro cespiti, oggetto del punto 12 della condanna. Si denuncia la trasformazione, da parte della Corte di appello, del fatto tipico commissivo in omissivo colposo, con una riscrittura mascherata della norma, laddove la sentenza trae la prova della responsabilità dell'amministratore per il mancato rinvenimento dei beni sociali dall'inosservanza colposa del dovere di custodia su questi insistente; peraltro, si denuncia, la Corte cagliaritana ha male applicato il precedente giurisprudenziale citato in sentenza, che, in realtà, tratta il tema del non saper o non voler dar conto dei beni da parte dell'amministratore come mero indice probatorio, da confrontare con gli altri accertamenti di contorno.

D'altro canto, la motivazione risulta illogica laddove afferma la distrazione di beni di incerta valutabilità economica, omettendo di considerare:

- che si tratta di una società a struttura complessa, in relazione alla quale non può desumersi il dolo distrattivo dell'amministratore per il mancato rinvenimento di beni, come telefoni cellulari, binocoli, computers, e una stufa a pellet, di incerta valutabilità economica e comunque e di esiguo valore rispetto a una società siffatta, certamente non rientrando nelle possibilità di controllo dell'amministratore;

- che risulta provata la intrusione di terzi che hanno depredato la società, non potendosi ascrivere all'amministratore il fatto doloso del terzo;

- che c'e' stata una parziale e lacunosa ricostruzione da parte della curatela, per stessa ammissione del curatore, che ha affermato di non avere potuto esaminare tutta l'immensa mole documentale, e quindi non è stato in grado di chiarire se esistessero, nella mole di documentazione a disposizione, atti dimostrativi della lecita dismissione dei cellulari e degli altri beni suddetti;

- che lo stesso curatore ha disposto per la distruzione dei computer presenti nelle sedi (Omissis) s.p.a e altri oggetti elettronici, senza una dettagliata descrizione dei beni distrutti.

3.11. Con il motivo quattordici ci si duole della mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dalla richiesta di acquisizione di tutta la documentazione cartacea e informatica della (Omissis) s.p.a., formulata già in primo grado, alla udienza del 28 giugno 2013, riproposta con l'atto di appello e ancora in udienza dinanzi alla Corte territoriale. Espone che la società fallita si era dotata fin dal 2002 di un software specifico e molto sofisticato per il suo magazzino, come riferito da numerosi testimoni, sul quale erano salvati tutti i dati aziendali fino al giorno del fallimento. Prova non potuta acquisire, giacché il curatore, subito dopo la condanna di primo grado, dispose la distruzione di una tal decisiva prova.

3.12. I motivi quindici e sedici sono dedicati al capo di condanna n. 6, afferente alle distrazioni della società (Omissis) s.r.l., realizzate mediante la cessione alla stessa del ramo di azienda Officina, dietro versamento alla (Omissis) di una parte del prezzo pattuito, e mediante il pagamento di fatture nn. 5 e 6 per operazioni inesistenti emesse dalla (Omissis) in data (Omissis).

3.12.1. Quanto alla prima distrazione contestata, nel denunciare vizi della motivazione, la Difesa osserva che la sentenza impugnata riconosce come "la quasi totalità dei versamenti effettuati da (Omissis) a titolo di prezzo di cessione" siano stati incassati da (Omissis) s.r.l., tesoriera del gruppo, cosicché detti pagamenti avrebbero dovuto essere considerati estintivi del corrispettivo di cessione del ramo di azienda. Ci si duole, dunque, ancora una volta della scelta pregiudiziale della Corte di appello di negare il cash pooling. Illogicamente, la Corte di appello ha, inoltre, omesso di computare gli importi rilevanti di cui alle fatture emesse tra il 2006 e il 2007 (in relazione alle quali la stessa Corte sarda ha ritenuto indimostrata la tesi che fossero correlate a operazioni inesistenti, pronunciando sentenza assolutoria), per complessivi Euro 351.600.00, emesse da (Omissis) s.r.l. in favore di (Omissis) s.p.a., da questa portate in compensazione ai crediti della emittente da cessione. Se avesse, dunque, considerato gli importi versati direttamente da (Omissis) a (Omissis), quelli versati a (Omissis) e quelli portati in compensazione, la Corte sarebbe giunta ad accertare un pagamento di 1.334.500,00, pari a circa 2/3 del prezzo pattuito di 2.016.558,00, probabilmente corrispondente al reale valore del compendio, se è vero che il consulente del P.M. ha affermato che il prezzo pattuito era assai sovrastimato, ma in favore di (Omissis), con evidenti ricadute anche sull'elemento soggettivo.

3.12.2. Con riguardo alla distrazione correlata alla emissione di due fatture per operazioni inesistenti, è dedotta la contraddittorietà interna della motivazione che poco prima aveva assolto l'imputato da analoga contestazione per altre fatture in ragione delle testimonianze dei dipendenti che avevano confermato l'esecuzione delle attività fatturate, giacché anche per le fatture in esame vi è il testimone così come un contratto tra (Omissis) e (Omissis) per le lavorazioni fatturate. Ci si duole, poi, che la condanna sia stata confermata anche con riguardo ai profili dell'utilizzo dei locali della (Omissis) e dei dipendenti (Omissis) senza esborsi, senza alcuna motivazione, e senza considerare che la cessione del ramo di azienda a un prezzo sproporzionato in favore di (Omissis) comprendeva anche una serie di benefit, tra cui l'occupazione di spazi e l'impiego di personale della (Omissis).

3.12.3. Ancora, il ricorrente si duole che la Corte di appello abbia omesso di confrontarsi con il tema, prospettato dalla Difesa, della ricostruzione dell'operazione in termini di management buy out (escluso dalla Corte territoriale sulla base di una erronea valutazione di non redditività in termini di rientro dell'operazione, per (Omissis)), che, secondo gli insegnamenti giurisprudenziali, non rileva a titolo di bancarotta fraudolenta, salva l'incapacità conclamata dell'operazione di generare ricchezza, evenienza questa irragionevolmente affermata, invece, dalla Corte territoriale, obliterando chiari dati probatori. Parimenti censurata la valutazione della Corte di appello che ha ritenuto intaccata dalla cessione la garanzia dei creditori, ignorando che, al contrario, la cessione di azienda determina una duplicazione automatica della tutela del creditore, libero di agire verso il cedente e verso il cessionario sulla base della mera iscrizione nei libri contabili, qui indiscussa.

3.13. Il diciassettesimo motivo attinge il trattamento sanzionatorio, di cui la Corte di appello si occupa nel capo 16 della sentenza, in relazione al quale la Difesa ricorrente si duole del vizio argomentativo con il quale il Giudice a quo, pur essendo pervenuto alla pronuncia liberatoria (tra assoluzioni e proscioglimenti), per molti fatti ab origine contestati e ritenuti dal Tribunale, abbia poi omesso di operare specularmente e in modo proporzionato in sede di rideterminazione della pena.

3.14. L'ultimo motivo attinge le statuizioni civili. Si duole la Difesa della totale mancanza di motivazione sul punto del nesso di causa tra le descritte condotte di bancarotta ascritte all'imputato ricorrente e il danno patito dalla ex Provincia di (Omissis).

CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non è fondato.

Motivo 1.

1. Il primo motivo, come premesso, afferisce alla natura giuridica dei versamenti effettuati, in data 09/08/2002, in ‘conto futuro aumento capitale sociale' e mira ad accreditare la tesi che l'imprenditore che abbia effettuato una siffatta erogazione maturi il diritto alla restituzione, a prescindere dal procedimento di liquidazione della società, laddove non sia intervenuta la deliberazione assembleare di aumento del capitale nominale della società. Nel caso di specie in tesi difensiva - la parziale restituzione alla controllante (Omissis) s.r.l., negli anni dal 2002 al 2004, delle somme versate a (Omissis) nell'agosto 2002 e contabilizzate in conto futuro aumento di capitale sociale non integrerebbe una bancarotta distrattiva fraudolenta in quanto, per loro natura, tali somme non sarebbero mai entrate a far parte del patrimonio della fallita.

1.1. La tesi è sostenuta evocando arresti sia della giurisprudenza civile che di quella penale. D'altro canto, la Corte d'appello ha impostato la decisione sulla base degli orientamenti, giurisprudenziali, ma anche dottrinali, venutisi manifestando a proposito del fenomeno c.d. della formazione del patrimonio fuori del capitale (Cass. 4 agosto 1995 n. 8587, Rv. 493575). Conviene, dunque, prendere le mosse da tali approdi.

1.1.1.Preliminarmente, però, va evidenziato - in linea generale - che costituisce pratica diffusa durante la vita di una società di capitali il versamento, a vario titolo da parte dei soci, "fuori capitale": i versamenti fuori capitale sono utili al finanziamento dei mezzi necessari allo svolgimento dell'attività sociale e sono effettuati dai soci in forma di erogazione di denaro diversa dai conferimenti; essi non vengono imputati al capitale sociale e dunque non costituiscono conferimenti. Sono previste due modalità di perfezionamento di tali versamenti:

- a titolo di mutuo, con obbligo di restituzione da parte della società al socio conferente entro una determinata scadenza (finanziamento dei soci). In tal caso rappresentano un capitale di debito;

- senza obbligo di restituzione da parte della società, per cui assumono la forma di capitale di rischio.

Nella prassi, si parla di versamenti in conto aumento di capitale quando l'apporto è messo a disposizione della società dopo la delibera di aumento del capitale, ma prima della sua esecuzione (e dunque nel lasso di tempo intercorrente tra la data della delibera e la data di iscrizione della stessa o la data di apertura delle sottoscrizioni), con la finalità di anticipare la provvista per la sottoscrizione delle nuove emittende partecipazioni. Ci si riferisce, invece, ai versamenti in conto futuro aumento di capitale qualora l'apporto sia messo a disposizione della società prima della delibera di aumento del capitale, con l'intento di anticipare alla società la provvista destinata alla sottoscrizione del relativo ammontare, a liberazione delle future emittende partecipazioni. I versamenti in conto futuro aumento di capitale sono considerati, quindi, dei conferimenti potenziali, che diventano effettivi solo nel momento in cui vanno ad incardinarsi nel capitale sociale, assumendo l'esclusiva destinazione di scopo sottesa al perseguimento dell'oggetto sociale; vengono iscritti nel passivo dello stato patrimoniale come "altre riserve distintamente indicate"e (a differenza dei precedenti) sono vincolati (c.d. targati), potendo essere utilizzati esclusivamente per la liberazione della parte di aumento di capitale a pagamento, riservata ai soci che li hanno eseguiti, a cui sono subordinati.

1.2. Nella giurisprudenza di legittimità, da tempo, si afferma che "Nell'ordinamento societario, come è ormai ampiamente riconosciuto, deve ritenersi pienamente ammissibile l'effettuazione, da parte dei soci, di versamenti societatis causa - ossia di veri e propri conferimenti "a rischio", che confluiscono nel patrimonio sociale come componenti del netto - non imputati, o non imputati nell'immediato, a capitale: non essendo desumibile, per vero, dalla disciplina positiva alcun generale principio che imponga l'imputazione a capitale di tutti i conferimenti (cfr. Cass., 14 dicembre 1998, n. 12539; Cass., 19 marzo 1996, n. 2314; Cass., 3 dicembre 1980, n. 6315; con riferimento alle società di persone, Cass., 21 maggio 2002, n. 7427; Cass., 19 luglio 2000, n. 9471). Mentre, peraltro, in taluni casi la mancata imputazione a capitale dell'apporto finanziario del socio è ‘sine die nel senso che - nella prospettiva del conferente (si tratta in effetti, per questo verso, essenzialmente di una quaestio voluntatis) - l'apporto stesso è stabilmente destinato ad accrescere i "mezzi propri" della società senza alcuna contemporanea variazione del capitale nominale (fattispecie alla quale si attaglia, in senso più ristretto e tecnico, la qualificazione di "versamenti in conto capitale"); in altri casi, invece, la mancata imputazione a capitale è solo temporanea, giacché il versamento resta, negli intenti, causalmente collegato ad un successivo e formale aumento del capitale, nel quale esso è destinato a confluire. I soci creano, cioè, in sostanza, un'area provvisoria di "stazionamento", eseguendo in via anticipata conferimenti corrispondenti ad un aumento di capitale già deliberato, ma non ancora sottoscritto ("versamenti in conto aumento di capitale"), ovvero semplicemente programmato e da deliberare in futuro, entro un periodo di tempo determinato o meno ("versamento in conto futuro aumento di capitale"); e ciò nella precipua ottica di dotare immediatamente la società di nuovi mezzi finanziari, ponendola in condizione di far fronte alle proprie esigenze di cassa, senza dover attendere i tempi di perfezionamento dell'operazione. In simili frangenti, si deve ritenere che il mancato aumento del capitale nel termine prestabilito (o, in difetto, fissato dal Giudice in applicazione analogica dell'art. 1183 c.c., comma 2), operando, a seconda dei casi, come condizione risolutiva o sospensiva, determini l'insorgenza del diritto del socio alla restituzione del versamento; salva la possibilità di interpretare la mancata attivazione tanto dei soci che della società per la restituzione - non infrequente nella pratica - come espressiva del sopravvenuto comune intento di "convertire" i versamenti in parola in "versamenti in conto capitale" (cfr., in argomento, Cass., 19 marzo 1996, n. 2314)." (Così Sez. 1 civile, n. 8876 del 14/04/2006, Rv. 590985).

1.2.1. Una prima compiuta ricostruzione giurisprudenziale la si rinviene in Cass. civ. Sez. 3, n. 9209 del 06/07/2001 (Rv. 547984 - 01), così massimata: "L'accoglimento della domanda con la quale il socio di una società di capitali chieda la condanna della società a restituirgli somme da lui in precedenza versate alla società medesima richiede la prova che detto versamento sia stato eseguito per un titolo che giustifichi la pretesa di restituzione: prova che deve essere tratta non tanto dalla denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società, quanto soprattutto dal modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi. E' questione di interpretazione della volontà negoziale delle parti stabilire se l'indicato versamento tragga origine da un rapporto di mutuo o se invece esso sia stato effettuato a titolo di apporto del socio al patrimonio di rischio dell'impresa collettiva; nel qual ultimo caso il diritto alla restituzione, prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società, sussiste solo qualora il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla mancata successiva deliberazione assembleare di aumento del capitale nominale della società e tale deliberazione non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice".

Conviene riportare alcuni passi della motivazione, che risulta di interesse ai fini della disamina della questione posta dal ricorso: "La Corte di cassazione si è venuta confrontando con tale fenomeno a partire dalla sentenza 3 dicembre 1980 n. 6315. A proposito del versamento effettuato dai soci in conto di futuro aumento di capitale, la Corte osservava, in quella occasione, che "pur non determinando un incremento del capitale sociale e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, ha una causa che di norma è diversa da quella del mutuo... ed è simile invece a quella del conferimento in capitale, che è un conferimento di rischio. E' estranea, infatti, ad un tale versamento la finalità di ricollegarvi un'obbligazione attuale di restituzione, e vi è presente, invece, quella di ricollegarvi i diritti insiti nella partecipazione societaria; diritti che comprendono bensì quello di avere in restituzione i conferimenti, ma col duplice limite che esso diventa attuale solo dopo lo scioglimento della società e che non gode della garanzia che l'art. 2740 c.c. attribuisce ad ogni creditore, potendo esercitarsi solo sull'eventuale residuo attivo risultante dal bilancio di liquidazione". La giurisprudenza successiva e la riflessione dottrinale che l'ha accompagnata hanno consentito una più approfondita e analitica sistemazione del fenomeno. La sentenza 19 marzo 1996 n. 2314 della Corte ha prima osservato che "tra l'ipotesi dell'erogazione di fondi dal socio alla società a titolo di mutuo e quella del formale conferimento a titolo di aumento di capitale (già deliberato), la prassi è andata da tempo elaborando una terza via, costituita da versamenti, variamente denominati, la cui comune caratteristica consiste nell'essere destinati ad incrementare il patrimonio della società - talvolta anche sotto forma di copertura di perdite - senza però riflettersi (o, almeno, non immediatamente) sul capitale nominale della società stessa e senza perciò essere sottoposti ai vincoli legali propri del capitale sociale in senso stretto".

Ha poi aggiunto che questi apporti, "in quanto appunto volti ad accrescere il patrimonio dell'ente dotandolo di ulteriori mezzi propri di cui esso possa disporre (il che evidentemente non accadrebbe se l'acquisizione delle somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei soci), perciò stesso non danno luogo a crediti esigibili a richiesta del conferente durante la vita della società".

Nell'ambito del fenomeno complessivamente considerato la Corte ha enucleato situazioni caratterizzate in diverso modo e ne ha prospettato una classificazione sulla base dello scopo perseguito da soci e società nell'accordo di cui il conferimento costituisce esecuzione. A versamenti da considerare effettuati appunto in conto capitale, perché caratterizzati dall'unica funzione di aumentare le disponibilità patrimoniale della società, sono stati affiancati quelli fatti in conto di un futuro e determinato aumento di capitale ovvero in collegamento con una previsione di aumento di capitale genericamente collocata nel tempo avvenire. mancata la deliberazione di aumento di capitale, nel secondo caso, resterebbe irrealizzata la condizione, cui il versamento si deve ritenere sia stato risolutivamente condizionato, e sorgerebbe per la società l'obbligazione di restituzione; nel terzo caso si profila la scelta tra il vagliare se le parti non abbiano inteso per questa eventualità comunque lasciare le somme versate nella disponibilità della società ed il dare altrimenti al socio la possibilità di chiedere che dal giudice venga fissato un termine, entro il quale la società sia tenuta a riunire l'assemblea per decidere l'aumento di capitale, si da determinare l'avveramento od il mancato avveramento della condizione. Il vario atteggiarsi del fenomeno e l'assenza di una tipizzazione legale delle varie ipotesi ha poi indotto la giurisprudenza e la dottrina ad avvertire come sia necessario cogliere nella concretezza del caso l'effettiva portata di ogni situazione attraverso il vaglio non delle sole scritture contabili della società, ma del modo in cui il rapporto è stato attuato dalle parti, delle finalità pratiche volute conseguire e degli interessi che vi sono sottesi." (da Cass. civ. Sez. 3 sentenza n. 9209 del 06/07/2001 cit.).

Tale ultimo principio era stato affermato già da Cass. civ. Sez. 1 n. 2314 del 19/03/1996 (Rv. 496441), che aveva appunto precisato essere "questione di interpretazione della volontà negoziale delle parti lo stabilire se l'indicato versamento tragga origine da un rapporto di mutuo o se invece esso sia stato effettuato a titolo di apporto del socio al patrimonio di rischio dell'impresa collettiva; nel qual ultimo caso il diritto alla restituzione, prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società, sussiste solo qualora il conferimento sia stato risolutivamente condizionato alla mancata successiva deliberazione assembleare di aumento del capitale nominale della società e tale deliberazione non sia intervenuta entro il termine stabilito dalle parti o fissato dal giudice." (conforme la successiva giurisprudenza, cfr. Cass. civ. Sez. 3, n. 9209 del 06/07/2001, Rv. 547984 - 01; Sez. 1, n. 2758 del 23/02/2012,Rv. 621559 - 01; Sez. 1 n. 25585 del 03/12/2014, Rv 633810).

1.2.2. Alla luce di tali approdi, può, in sintesi, affermarsi che la consegna di una somma di denaro non e', di per sé, circostanza idonea a porsi come fatto costitutivo di un diritto alla restituzione, laddove non risulti che essa sia avvenuta in esecuzione od a conclusione di un contratto che obblighi a restituire, gravando in questa ipotesi sull'attore l'onere di provare integralmente il fatto costitutivo della pretesa restitutoria, onere esteso all'indicazione di uno specifico titolo implicante il relativo obbligo (Cass. civ. 3 febbraio 1995 n. 1321; 23 aprile 1998 n. 4197; 28 gennaio 1999 n. 738).

Infatti, "si è veduto che i versamenti fatti in contemplazione di un aumento di capitale non sempre sono fatti in base ad un accordo che, mentre si riferisce ad un futuro, ma predeterminato aumento di capitale, assume la relativa deliberazione a condizione risolutiva con conseguente obbligazione di restituzione, se la condizione non si realizza. Possono essere invece compiuti in base ad un accordo in cui, se vengono considerati quale anticipata esecuzione di una deliberazione di aumento che dovrà aversi, non collocano questa in un tempo determinato ed in sostanza lasciano al socio che li ha fatti la scelta tra il continuare a lasciarli indefinitamente nella disponibilità della società e il porre a questa un termine entro il quale deliberare l'aumento. Orbene, di fronte all'eccezione dei convenuti che il versamento fosse stato fatto e ricevuto dalle società non a titolo di mutuo, ma ad aumento del capitale sociale, l'attrice avrebbe dovuto dare la prova dei fatti idonei a determinare il sorgere della obbligazione di restituzione in relazione al tipo od ai tipi di apporto che avesse ritenuto di individuare nel caso concreto." (Cass. civ. n. 9209/2001 cit.).

1.2.3.La necessità che, per configurarsi un obbligo di restituzione da parte della società che abbia ricevuto un conferimento in conto di futuro aumento di capitale, le erogazioni siano condizionate all'adozione della relativa delibera di aumento capitale entro un determinato termine, è ribadita anche da Cass. civ. Sez. 1 n. 31186 del 03/12/2018 - Rv. 652065- (pure richiamata nel ricorso), secondo cui, la mancata adozione della delibera determina a carico della società l'obbligo di restituzione di quanto erogato dal socio a tale titolo, poiché in tal caso, l'erogazione determina un aumento di capitale solo potenziale, destinato a divenire effettivo solo a seguito della delibera di aumento", altresì ribadendo che è possibile associare un obbligo di rimborso solo ai versamenti effettuati a titolo di finanziamento o di mutuo, "mentre non è applicabile ai versamenti o ai trasferimenti in conto capitale, in considerazione della diversità della causa che li contraddistingue, assimilabile a quella di capitale di rischio piuttosto che a quella delle obbligazioni creditorie" (cfr anche Sez. 1, civ. n. 8876 del 14/04/2006, Rv. 590985 - 01, che ha affermato che "Nelle società per azioni, il socio può validamente obbligarsi nei confronti della società a sottoscrivere un determinato aumento di capitale prima che lo stesso sia formalmente deliberato dall'assemblea, dovendosi ritenere siffatto obbligo, in assenza di diverse pattuizioni, subordinato alla condizione sospensiva che la deliberazione di aumento del capitale intervenga nel termine stabilito o in quello desumibile dalle circostanze, e - per la parte in cui l'impegno investa anche le azioni di nuova emissione sulle quali il socio non vanta il diritto di opzione - alla ulteriore condizione che tali azioni non vengano sottoscritte dai soci titolari del predetto diritto nel termine assegnato ai fini dell'esercizio del medesimo."

1.3. La giurisprudenza penale ha recepito tali approdi, affermando che "Secondo il consolidato insegnamento delle Sezioni civili di questa Corte, invero, i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno, tuttavia, una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, sicché non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società, e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione, pertanto, l'erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva "in conto capitale" (o altre simili denominazioni), versamento, quest'ultimo, che non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residua/ claimant (Sez. civ. 1, n. 24861 del 09/12/2015, Rv. 637899). Da ciò consegue che, nella materia pena/-fallimentare, il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con altra analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società (Sez. 5 n. 8431 del 01/02/2019, Vesprini, Rv. 276031, conf. Sez. 5 - n. 32930 del 21/06/2021, Rv. 281872).

1.4. In tale approdo, solo apparentemente, manca, come deduce il ricorrente, una differenziazione tra versamenti operati dai soci in conto capitale e quelli effettuati in conto di futuro aumento di capitale. In realtà, la decisione distingue - in ragione della causa - i finanziamenti che danno luogo a un credito esigibile, da quelli (definiti in conto capitale o con altra analoga dizione) che hanno una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio. E' una classificazione nella quale è possibile collocare anche la fattispecie in esame, del conferimento in vista di un futuro aumento di capitale, non ancora deliberato, in cui è mancata anche la preventiva individuazione di un termine entro cui avrebbe dovuto intervenire la delibera assembleare. Se, ai fini penalistici, si distingue, in ragione della causa contrattuale che assiste le diverse operazioni, tra capitale di rischio e capitale di credito/debito, tale distinguo coinvolge anche il finanziamento di futuro aumento di capitale, quale investimento a rischio, la cui restituzione -non assistita dal perfezionamento della condizione sospensiva o risolutiva della mancata adozione della delibera di aumento del capitale nel termine fissato - dà luogo a una distrazione.

1.5. Dalla precedente disamina si trae la convincente considerazione che, in ragione della causa giustificativa che sorregge le attribuzioni patrimoniali dei soci eseguite in conto di aumento (anche futuro) di capitale in favore della società, a tale elargizione non è correlato il diritto alla restituzione del denaro che, invece, in tanto può configurarsi, prima e al di fuori del procedimento di liquidazione della società, solo in quanto il programmato aumento del capitale non venga deliberato, così facendo venire meno la causa giustificativa: la condizione è che sia stato fissato un termine per l'approvazione dell'aumento. Può, allora, affermarsi che il conferimento va restituito se non viene deliberato l'aumento di capitale, nel termine stabilito dalle parti o dal giudice; in tale ultimo caso, il termine finale per il completamento dell'operazione di aumento, eventualmente non apposto, potrà essere individuato facendo riferimento - al fine di ritenere maturato il diritto alla ripetizione di quanto versato - alla natura dell'affare o agli usi, in applicazione in via analogica dell'art. 1331 comma 2 c.c. in tema di opzione, oppure dell'art. 1326 comma 2 c.c.

1.6. Poiché è a tale ultima fattispecie che va ricondotto il versamento effettuato dalla controllante in favore di (Omissis) s.r.l., essendo stati contabilizzati i versamenti come futura ricapitalizzazione della società controllata dalla (Omissis) (in tal senso il verbale del Consiglio di amministrazione del 09/08/2022), senza la individuazione formale di un termine finale, detto conferimento, in quanto inquadrabile quale investimento di rischio ‘ sine die', non avrebbe potuto essere restituito al socio conferente (Omissis), né poteva questi esigerne la restituzione, durante l'intera vita della società. Ne consegue che non può considerarsi legittima la restituzione che sia avvenuta durante la vita attiva della società, per non essere ancora maturato il relativo credito del conferente.

Correttamente, la Corte di appello l'ha considerato non rimborsabile durante la vita della società, in assenza di un diverso termine concordato o individuato dal Giudice, ed essendo mancate iniziative in tal senso sia da parte del socio che della società, e tanto anche in ragione della dirimente circostanza - già evidenziata dai giudici di merito - della tempistica che ha connotato il conferimento iniziale e le restituzioni, la prima delle quali avvenuta poco dopo il conferimento, nello stesso anno 2002, a cui è seguita, subito dopo l'ultima restituzione, la delibera di un aumento di capitale di notevole consistenza. Invero, la approvazione dell'aumento di capitale poco dopo la restituzione dell'iniziale conferimento- destinato proprio a coprire quel futuro aumento - costituisce, da un lato, un chiaro indice della persistenza della programmazione aziendale legata all'aumento di capitale, e, quindi, dell'attualità del vincolo di destinazione ab origine impresso in sede di conferimento, pur senza individuazione di un termine finale; dall'altro, rende ragione - in virtù del vincolo di destinazione impressa al conferimento, come emergente dal verbale assembleare - della natura distrattiva dell'intera operazione. Si deve, cioè, ritenere che quelle somme inizialmente conferite, e poi parzialmente restituite, siano servite a creare una disponibilità in realtà inesistente, diretta a creare un'apparente maggiore consistenza del patrimonio sociale. I conferimenti in parola, infatti, entrano a far parte del patrimonio della società, pur non integrando il capitale sociale. Come è noto, il patrimonio sociale rappresenta l'insieme dei rapporti giuridici, attivi e passivi, di proprietà della società, che vengono accertati annualmente attraverso la redazione del bilancio d'esercizio, mentre la differenza tra attività e passività è definita come "patrimonio netto". Ed è il patrimonio sociale che garantisce i creditori in caso di insolvenza della società, permettendo loro di ottenere un risarcimento tramite un'azione giudiziaria. Il capitale sociale, invece, rappresenta il valore in denaro dei contributi effettuati dai soci, come stabilito nel contratto di società. In tal senso, la già citata sentenza "Vesprini" afferma che "i versamenti in conto capitale (o in conto futuro aumento di capitale) consistono in versamenti non imputati (o non ancora imputati) a capitale, tanto da confluire in un'apposita riserva - appunto - "in conto capitale" che non può essere identificata con il capitale, il che esclude la riferibilità anche ai versamenti in esame dello statuto penalistico a tutela del capitale sociale. La giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte sopra richiamata (Sez. civ. 1, n. 7692 del 2006, cit., etc.) conferma questo assunto: i versamenti dei soci in conto capitale hanno di regola una causa diversa da quella del mutuo e assimilabile a quella del capitale di rischio, il che, come si è visto, esclude che diano luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società (con conseguente non configurabilità della bancarotta preferenziale in riferimento ai prelievi volti alla loro restituzione); essi, però, non incrementano immediatamente il capitale sociale e non attribuiscono alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, tanto è vero che vengono iscritti in un'apposita riserva "in conto capitale". Pertanto, la - mera - "assimilabilità" al capitale di rischio dei versamenti in conto capitale conduce, sul terreno penalistico, ad escludere che essi possano essere ricondotti nella nozione di "conferimento" a norma dell'art. 2626 c.c. e che, dunque, la loro restituzione possa integrare la fattispecie di indebita restituzione dei conferimenti e quella di bancarotta "da reato societario"(pg. 6).

1.7. Tirando le fila del ragionamento e alla luce dei richiamati approdi giurisprudenziali, quel che emerge con chiarezza è che, in caso di crisi aziendale, il salvataggio attuato dai soci attraverso integrazioni del patrimonio, che possono avere diverse gradazioni, non può prescindere dalla garanzia di una informazione simmetrica tra soci e terzi sulle condizioni finanziarie della società. La ragione per la quale il conferimento destinato a coprire futuri aumenti di capitali deve essere assoggettato a un termine finale conoscibile anche dal ceto creditorio sta nella considerazione che i creditori confidano nel patrimonio dell'impresa per l'adempimento delle obbligazioni sociali. Diversamente ragionando, si trasferirebbe il rischio di impresa dalla società sui creditori, oltre a consentirsi la restituzione sine causa di somme conferite per altra ragione. 1.8. Il principio che deve essere affermato è quello che, in caso di un conferimento in conto di aumento futuro di capitale, esigenza di garanzie del ceto creditorio impongono l'individuazione di un termine finale a cui è correlato, in caso di mancata deliberazione dell'aumento, l'insorgenza del diritto di restituzione del conferimento; laddove la restituzione avvenga prima del termine (pattuito o fissato dal giudice), si realizza una distrazione da bancarotta societaria; nel caso in cui non sia stato concordato un termine a garanzia dei creditori, né esso venga sollecitato al giudice, le somme non potranno essere restituite, in quanto destinate a coprire l'aumento di capitale (c.d. riserva targata). Diversamente, si avrebbe un rimborso sine causa, essendo correlata la relativa obbligazione alla mancata adozione della delibera entro un determinato termine.

E' corretto, dunque, affermare che il socio conferente ha diritto alla restituzione, ove non segua la delibera dell'aumento di capitale, anche durante la vita della società, in quanto si tratta in questi casi di apporti destinati alla copertura anticipata di un determinato aumento di capitale non ancora deliberato, così da sostanziarsi in un'anticipazione della sottoscrizione del capitale destinata a perfezionarsi solo con la deliberazione societaria successiva (Cass. civ. Sez. 1 n. 31186 del 03/12/2018, Rv. 652065 - 01), ma il principio deve essere inteso nel senso che la somma anticipata resta vincolata fin quando non si verifica la condizione, sospensiva o risolutiva, della mancata delibera entro un termine che deve essere necessariamente determinato.

1.9. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di tali principi: i giudici di merito hanno plausibilmente argomentato che nessun termine era stato stabilito; che neppure risulta sollecitata la fissazione giudiziaria di un termine per la restituzione; che non erano venuti meni i programmi legati all'aumento di capitale. Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto integrata la bancarotta fraudolenta patrimoniale, contestualmente escludendo la configurabilità della bancarotta preferenziale, in coerenza con il principio affermato già dalla sentenza ‘Vesprinì, secondo cui "in tema di reati fallimentari, il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale."(Sez. 5 n. 8431/2019).

2. Alla luce di quanto precede, risulta infondato anche il secondo motivo, che evoca la applicazione della scriminante di cui all'art. 51 c.p., che, invece, non ricorre, mancando il diritto alla restituzione, che, per quanto si è già detto, deve essere correlato a un credito, nel caso di specie non ancora maturato.

3. Il terzo motivo è manifestamente infondato perché l'"errore" che viene invocato nel motivo (il fatto, cioè, che il ricorrente, non si fosse rappresentato che il versamento confluisse nel patrimonio sociale, errando sul lemma "suoi beni" contenuto nel precetto di cui all'art. 216 n. 1 L.F.) non è un errore di fatto, ma, invece, un errore di diritto, irrilevante, dal momento che l'erronea valutazione o interpretazione di una norma extrapenale si risolve in un errore sulla legge penale, che non discrimina (Sez. 6, n. 1211 del 09/10/1972 -dep. 1973- Rv. 123164), non potendo avere efficacia scusante, al pari dell'errore sulla legge penale vera e propria.

4. Non coglie nel segno il quarto motivo incentrato sulla erronea interpretazione della regola n. 28 O.I.C., la quale prevede, testualmente, che "in caso di aumento di capitale inscindibile gli importi sottoscritti durante il termine previsto per l'aumento di capitale sociale (comprensivi dell'eventuale sovrapprezzo) sono rilevati nella voce "Altri debiti", in quanto, se l'importo complessivamente sottoscritto risultasse inferiore a quello deliberato dall'assemblea, i conferimenti dovranno essere restituiti ai sottoscrittori. Successivamente all'integrale sottoscrizione dell'aumento di capitale sociale deliberato dall'assemblea, e all'iscrizione nel registro delle imprese dell'attestazione di cui all'art. 2444 del codice civile, si provvederà a girare tale voce alla voce AI "Capitale" ed eventualmente alla voce "Riserva soprapprezzo azioni". Il motivo, che era funzionale al primo, denuncia vizi argomentativi che, però, non rilevano alla luce della conclusione valutativa a cui è pervenuto il Giudice di merito, che risulta giuridicamente corretta quanto ai presupposti che giustificano l'insorgenza dell'obbligo di restituzione dei versamenti.

5. In più punti, a cominciare dal quinto motivo, la difesa pone il tema dell'operatività di un contratto di cash pooling tra la capogruppo (Omissis) s.r.l. e la fallita, a cui ricollegare il senso complessivo della dinamica di versamenti e restituzioni, e che consentirebbe di escludere alcune delle configurate distrazioni. Si sostiene, in particolare, che detta pratica non debba essere necessariamente supportata dall'esistenza di un conto corrente comune tra le società del gruppo, gestito dalla società tesoriera, come ritenuto dalla Corte di appello, mancando una espressa previsione normativa in tal senso: la mancanza di un tale requisito non sarebbe, cioè, ostativa alla possibilità di ravvisare un cash pooling. Il ricorrente lamenta, quindi, l'omessa disamina di elementi dimostrativi - in tesi difensiva - dell'unitaria gestione dei rapporti finanziari e del saldo attivo finale che ne è conseguito.

5.1. La tesi difensiva non è condivisibile e la critica non è conducente, poiché trascura la ratio decidendi esplicata nella sentenza impugnata che, pur all'esito della valutazione della documentazione difensiva, ha argomentato l'esclusione dell'esistenza di un rapporto organizzativo unitario tra le società in questione, in coerenza con i requisiti declinati da questa Corte di legittimità.

5.2. Giova premettere che il contratto di cash pooling rientra nella categoria dei contratti atipici (ex art. 1322 c.c.) e può essere definito quale accordo stipulato autonomamente da tutte le consociate di un gruppo (c.d. partecipants, con una stessa società, denominato società pooler e generalmente individuato nella holding o nella finanziaria del gruppo), che funge da centro di tesoreria e ha per oggetto la gestione di un conto corrente "accentrato" sul quale vengono riversati i saldi dei conti correnti periferici di ciascuna consociata. La dottrina, pressoché unanime, riconduce il contratto in esame a una particolare forma di conto corrente non bancario; altri hanno evidenziato la natura diversa del cash pooling rispetto al conto corrente bancario inquadrandolo tra i contratti misti, quale combinazione di elementi propri del contratto di conto corrente ed elementi propri dei contratti di finanziamento, ove la causa mista e unitaria viene individuata specificatamente nella gestione della tesoreria di gruppo.

L'obiettivo primario di siffatta modalità operativa e', generalmente, quello di assicurare, attraverso una forma di gestione accentrata della tesoreria aziendale, un efficiente andamento dei rapporti tra le società aderenti al gruppo e gli istituti di credito, razionalizzando l'utilizzo complessivo delle liquidità e scongiurando in tal modo il rischio che si verifichino diseconomie all'interno dei singoli rapporti.

Per evitare il rischio che il gruppo nel suo complesso subisca le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla circostanza che il saldo economico tra tutte le società collegate e il ceto bancario sia negativo, il meccanismo del cash pooling consente il trasferimento dell'eccesso di liquidità della società che disponga di risorse finanziarie (sia cioè in cash) alla società pooler, che potrà poi disporre in favore dell'impresa che si trova in una condizione di tensione finanziaria, evitando che quest'ultima si avvalga dell'utilizzo del credito bancario, con i conseguenti maggiori oneri. In altri termini, una siffatta gestione delle finanze delle singole imprese genera l'effetto vantaggioso di compensare i saldi passivi di alcune società con i saldi attivi delle altre, venendosi così a realizzare un risparmio di tassi passivi (Sez. 5 n. 37062 del 24/05/2022,Lavina, rv. 283661, in motivazione).

In tale ottica, il fondamento causale del negozio non è più solo la gestione dei rapporti che potranno sorgere tra le parti in virtù di altri atti giuridici, ma anche la gestione della tesoreria, secondo modalità tali da compensare, sebbene temporaneamente, le carenze di liquidità di taluni partecipanti con le disponibilità degli altri, al fine di evitare o ridurre il ricorso all'indebitamento bancario, il che costituisce, senza dubbio, la caratteristica di un negozio di finanziamento (Sez. 5, n. 34457 del 05/04/2018, Rv. 273625, Castiglioni e altro, in motivazione).

5.3. La giurisprudenza di questa Corte ha, tradizionalmente, reputato illecite le operazioni di trasferimento di risorse finanziarie dai conti periferici delle società del gruppo a quello accentrato e amministrato dal pooler, che ne dispone a vantaggio della società che versi in stato di difficoltà, integrando siffatte condotte gli estremi della bancarotta fraudolenta per distrazione, ovvero della bancarotta preferenziale, qualora, invece, la società originariamente beneficiata dal suddetto meccanismo, saldi, per mezzo della gestione della tesoreria unica, il suo debito nei confronti delle consociate, restituendo quanto in precedenza ottenuto. Secondo un più risalente indirizzo, in caso di fallimento di alcune delle società del gruppo interessate e coinvolte nella gestione unitaria della tesoreria, il conferimento della liquidità alla pooler integra una condotta distrattiva ingiustificata di parte del patrimonio aziendale (ex plurimis, v. Sez. 5, 30 luglio 2015, n. 33774); quando, invece, il trasferimento della liquidità non possa assumere immediatamente una tale valenza di illecito distacco del denaro dal patrimonio sociale, la partecipazione al sistema di gestione accentrata della tesoreria sarebbe da qualificare come operazione dolosa idonea a determinare il dissesto dell'impresa ex art. 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267 del 1942 (cfr. Sez. 5, 25 marzo 2014, n. 14046; Sez. 5, 2 luglio 2013, n. 28508)

5.3.1. In seguito, si è affermato e consolidato l'orientamento - che si condivide - a tenore del quale, in materia di bancarotta tra società infragruppo, i pagamenti in favore della controllante non configurano il reato di bancarotta e possono eventualmente essere ricondotti all'operatività del contratto cosiddetto di "cash pooling" solo qualora ricorra la formalizzazione di tale contratto di conto corrente intersocietario, con puntuale regolamentazione dei rapporti giuridici ed economici interni al gruppo (Sez. 5, n. 34457 del 05/04/2018, Castiglioni, Rv. 273625 in fattispecie in cui è stato respinto il ricorso volto a ricondurre i pagamenti preferenziali nell'ambito del contratto di "cash pooling", rilevando che dai documenti della società fallita non risultava alcun formale contratto di tal genere, ma solo una prassi del gruppo societario tesa alla gestione delle risorse finanziare del gruppo nella maniera più utile per affrontare situazioni di criticità economica comuni); e si e', ulteriormente, specificato come integri distrazione rilevante il trasferimento di fondi alla capogruppo invocando l'attuazione di un sistema di tesoreria accentrata, atteso che nessun "sistema", comunque denominato o qualificato, giustifica il passaggio di risorse da una società ad un'altra, anche facenti parte dello stesso gruppo, in una situazione di conclamata sofferenza della società deprivata, senza garanzia di restituzione dei valori trasferiti e al di fuori di un credibile programma di riassestamento del gruppo, che sia rivolto a superare prioritariamente le problematiche dell'ente in sofferenza (Sez. 5, n. 22860 del 01/03/2019, Chiaro, Rv. 276634, in cui si è sottolineato come non vale ad escludere la natura distrattiva dell'operazione la responsabilità della controllante per i debiti della controllata, delineata dall'art. 2497 c.c., determinandosi comunque una maggiore difficoltà per i creditori della fallita, tenuti a rivalersi nei confronti di un ente diverso da quello con il quale hanno instaurato rapporti commerciali; V. anche Sez. 5, n. 51473 del 24/09/2019, Falco, Rv. 277745, in motivazione).

5.3.2. Come è stato già osservato, "Da tanto si inferisce come, nella valutazione dei trasferimenti di ricchezza infragruppo, intanto può accedersi ad una visione unitaria dei rapporti e dei saldi in quanto, sul piano formale, esista una precostituita e trasparente gestione finanziaria accentrata, e, sul versante sostanziale, sia esplicitata la vocazione funzionale di siffatta modalità di gestione alla massimizzazione, quantomeno in chiave proiettiva, della competitività delle società del gruppo. E tanto alla luce del principio generale per cui, al fine di escludere la natura distrattiva di un'operazione di trasferimento di somme da una società ad un'altra, non è sufficiente allegare la partecipazione della società depauperata e di quella beneficiaria ad un medesimo "gruppo", dovendo, invece, l'interessato dimostrare, in maniera specifica, il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell'interesse di un gruppo, ovvero la concreta e fondata prevedibilità di vantaggi compensativi, ex art. 2634 c.c., per la società apparentemente danneggiata" (ex multis Sez. 5, n. 47216 del 10/06/2019, Zanoni, Rv. 277545).

In altri termini, ai fini della valutazione di rilevanza penale delle rimesse sine titulo intercorse tra società collegate, occorre la dimostrazione della previa esistenza di rapporti di gestione unitaria, deliberati nella prospettiva fisiologica dell'attività del gruppo, sicché, quand'anche le operazioni compensative possono sembrare rivestire, se isolatamente considerate ed in relazione alle singole imprese, gli estremi di un fatto penalmente tipizzato, l'intera operazione di cash pooling può ritenersi inoffensiva in ragione dell'esistenza di compensazioni comunque realizzate in conseguenza della partecipazione della singola società apparentemente "depredata" al raggruppamento, secondo la logica dei vantaggi compensativi, essendovi evidenti benefici derivanti dal far parte di un gruppo di imprese legate da un rapporto di natura sinallagmatica. 5.4. E' in tale ottica che si afferma che è necessario il ricorso di una duplice condizione: a) in primo luogo, i trasferimenti di risorse fra partecipants e pooler devono essere eseguiti in presenza di "una antecedente puntuale regolamentazione contrattuale dei rapporti interni al gruppo, dovendosi stipulare un contratto con indicazioni relative alle modalità e ai termini con cui i saldi dei conti correnti periferici delle consociate devono essere trasferiti al conto corrente accentrato, nonché alle modalità e ai termini entro i quali il pooler deve restituire la liquidità ricevuta sul conto accentrato di cui è titolare, ed anche all'ammontare dei tassi in base ai quali maturano gli interessi attivi e passivi, sui crediti annotati nel conto comune, alle modalità con cui gli interessi verranno corrisposti ed all'eventuale commissione spettante al pooler per lo svolgimento dell'attività di tesoriere". In sostanza, se i trasferimenti infragruppo di denaro costituiscono modalità esecutive di un contratto, di tale negozio giuridico deve esservi adeguata traccia documentale e, inoltre, la struttura e il contenuto negoziale devono essere completi e idonei a regolamentare in maniera ragionevole comportamenti che presentano un significativo grado di rischio per le condizioni economiche e patrimoniali delle società che vi partecipano, avendo cura di approntare un sistema di accordi e prestazioni che non risulti immotivatamente pregiudizievole per alcuna delle società del gruppo.

b) In secondo luogo, siffatto accordo deve inscriversi all'interno della logica dei c.d. vantaggi compensativi, propria dell'operatività di un gruppo di imprese, e in base alla quale operazioni che, isolatamente considerate, evidenziano margini di rischio per una persona giuridica, possono trovare giustificazione nei vantaggi che la medesima società riceve da scelte gestionali poste in essere a suo beneficio da altri enti del medesimo gruppo o dalla holding che dirige il raggruppamento di imprese (da Sez. 5, n. 34457 del 05/04/2018, Lavina, Rv. 273625).

5.5. A tali condivisi principi si è attenuta la Corte di appello, mentre il ricorrente non si confronta con lo standard predetto, limitandosi a ribadire - nella complessiva articolazione del quinto motivo (poi ripresa negli analoghi motivi 7,8,15), l'omessa considerazione dei vantaggi derivati a (Omissis) s.r.l. dalla gestione di gruppo di fatto attuata, sulla base di una nozione meramente contabile, trascurando in toto di confrontarsi con la sentenza impugnata, che ha evidenziato come la prospettiva difensiva altro non è che il tentativo postumo di rielaborare, in chiave unitaria, rapporti privi ex ante di una trasparente organizzazione accentrata, proiettata al risanamento del gruppo, in tal modo precludendo in radice la riconducibilità della fattispecie nel novero dei vantaggi compensativi.

5.5.1. Poiché è evidente come nella fattispecie del cash pooling si verifichi, sia pure con effetto collaterale, un'operazione di finanziamento in favore delle società del gruppo, che vedrebbero coprire le loro passività di conto per effetto della gestione accentrata delle liquidità del gruppo medesimo, va ribadita la necessità che le società interessate deliberino il contenuto dell'accordo di cash pooling nei rispettivi Consigli di amministrazione, definendone, in particolare, l'oggetto, la durata, i limiti di indebitamento, le aliquote relative agli interessi attivi e passivi e le commissioni applicabili. Non e', invece, prospettabile che una così articolata modalità di gestione dei flussi finanziari tra società pool leader e società partecipans di un medesimo gruppo possa prescindere da precisi accordi tra le varie società e una o più banche; d'altro canto, esigenze di certezza dei rapporti giuridici tra le parti impongono di darne comunicazione ai soci, ai creditori e ai terzi e, richiedono, pertanto, la trasparente trasfusione nelle scritture contabili della esistenza di una tesoreria accentrata.

5.6. Infine, è opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 2497-bis c.c., in ipotesi di direzione e coordinamento, "la società deve esporre, in apposita sezione della nota integrativa, un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell'ultimo bilancio della società o dell'ente che esercita su di essa l'attività di direzione e coordinamento". Di conseguenza, qualora la società pooler eserciti attività di direzione e coordinamento, come individuata dall'art. 2497-sexies c.c., nella formazione delle note integrative delle singole società del gruppo aderenti all'accordo di finanza accentrata, dovranno essere tenute in apposita considerazione e opportunamente indicate le informazioni richieste dal sopracitato art. 2497-bis c.c.

5.7. Come è stato puntualmente osservato, "la vera ragione che sottende a tale contratto e', evidentemente, quella che, attraverso l'accentramento di risorse finanziarie, consente alla società di poter gestire in modo ottimale i flussi di liquidità provenienti dalle varie società del gruppo, concedendo finanziamenti a tassi convenienti alle altre società. Ne consegue che la corretta gestione del cash pooling non possa prescindere da una puntuale regolamentazione contrattuale dei rapporti interni al gruppo, per l'esatta qualificazione giuridica degli accordi e del conseguente trattamento tributario, ai fini della determinazione del reddito d'impresa. Infatti il contratto deve contenere, necessariamente, le indicazioni relative alle modalità e ai termini con cui i saldi dei conti correnti periferici delle consociate devono essere trasferiti al conto corrente accentrato, nonché alle modalità e ai termini entro i quali il pooler deve restituire la liquidità ricevuta sul conto accentrato di cui è titolare, ed anche all'ammontare dei tassi in base ai quali maturano gli interessi attivi e passivi, sui crediti annotati nel conto comune, alle modalità con cui gli interessi verranno corrisposti ed all'eventuale commissione spettante al pooler per lo svolgimento dell'attività di tesoriere" (Sez. 5, Lavina, cit.).

La strada è stata, dunque, compiutamente delineata, non potendosi prescindere, per esigenze di trasparenza dei rapporti tra le società del gruppo e di tutela dei creditori sociali, dalla necessità di formalizzare tali clausole in un contratto di conto corrente intersocietario tra le società del gruppo e la società incaricata di gestire la tesoreria, in cui le ‘partecipants' conferiscono alla società ‘pool leader' mandato per la gestione della tesoreria, la quale, a sua volta, stipula un contratto con un istituto di credito ovvero un ‘pool account', su cui andranno a confluire tutti i movimenti che interessano le posizioni di conto corrente delle singole società.

5.8. Costituisce, allora, tutt'altro che un'illazione - come sostiene la difesa ricorrente - la necessità di formalizzazione dell'esistenza di un rapporto di cash pooling: non si tratta di una inammissibile giurisprudenza creativa, quanto, invece, di una fisiologica ricostruzione giuridica di un fenomeno che, connotando la vita delle società e riguardando i movimenti finanziari che la percorrono, non può che rispondere ai criteri di trasparenza e correttezza che debbono ispirare l'attività sociale.

5.9. Correttamente, dunque, la sentenza impugnata ha osservato che "la cassa comune di gruppo deve essere supportata da una apposita organizzazione contabile in cui vi è un conto corrente tra le società del gruppo gestito dalla società tesoriera dove si registrano i crediti e i debiti verso ciascun soggetto partecipante (....), che, a sua volta, registra in contabilità i corrispettivi debiti/crediti verso la tesoreria" (sentenza impugnata pag. 27).

6. Dalle precedenti considerazioni discende la infondatezza anche dei motivi 7, 8, 15, parimenti incentrati sul tema del cash pooling.

7. Motivi inammissibili: 9,10,11,12,13,15,16.

Alcuni motivi sono rivalutativi e, per questo, non proponibili dinanzi al Giudice di legittimità, poiché con essi si ripropongono doglianze eminentemente di fatto, che sollecitano, in realtà, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una "rilettura" degli elementi probatori posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e', in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. E invero, pur essendo formalmente riferite a vizi riconducibili alla motivazione ed alla violazione di legge, le censure in esame si risolvono nella richiesta, diretta a questa Corte, di un inammissibile sindacato sulle valutazioni effettuate dal giudice del merito (Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, Fachini, Rv. 203767; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).

In particolare, con tali motivi, il ricorrente contesta la correttezza della stessa decisione, in quanto asseritamente fondata su una erronea valutazione in merito alla attendibilità delle fonti di prova documentali, mentre il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, e non già il rapporto tra prova e decisione, rimesso, invece, al giudice di merito ed estraneo al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di cassazione.

In estrema sintesi, si osserva:

7.1. - motivi 9,10,11, afferenti al capo 5 della condanna, che ha a oggetto la distrazione correlata all'acquisto di azioni (Omissis) mediante sottoscrizione di un aumento di capitale di due milioni di Euro, con sovrapprezzo, di una società priva di autonomia e capacità di svolgere le attività di trattamento dei fanghi rossi di (Omissis).

La Corte di appello, richiamata la motivazione del Tribunale, che aveva ripercorso le vicende societarie della (Omissis), ha ben illustrato i passaggi che l'hanno condotta a considerare che la (Omissis) avesse utilizzato una parte del patrimonio, destinato ai creditori, in un periodo di crisi già manifestatasi, per acquisire, a un prezzo spropositato, una partecipazione che, in previsione, non le avrebbe arrecato alcun vantaggio, come di fatto verificatasi (pag. 65 e ss.).

Da qui, la ravvisata natura distrattiva dell'operazione che aveva depauperato le casse della fallita, dal momento che S.M. aveva consapevolmente distratto in favore di (Omissis) somme versate a (Omissis) per l'aumento di capitale, senza alcun vantaggio compensativo per la fallita, cosicché neppure è configurabile la bancarotta preferenziale. Con tali argomenti il ricorso non si confronta, abbandonando la Difesa il prisma dei vantaggi compensativi, per prospettare un travisamento circa l'operatività di (Omissis): tale censura, da un lato, propone una lettura alternativa dei fatti, rispetto a una sentenza molto chiara sull'esclusione da parte della sentenza della bancarotta preferenziale; dall'altro attinge il merito della ricostruzione dei fatti e delle prove.

7.2. Motivi 12 e 13, relativi al capo 12 della condanna, che ha a oggetto la distrazione di alcune apparecchiature elettroniche della fallita, pacificamente acquistate dalla società e non rinvenute dal curatore.

La sentenza ha posto in luce come, a distanza di qualche anno dall'acquisto, non poteva essere maturata la dedotta svalutazione dei beni aziendali, che non vi era alcun riscontro dei furti asseritamente subiti e, comunque, che tanto non esimeva l'amministrazione dal dovere di protezione del patrimonio aziendale.

La Corte di appello ha fatto corretta applicazione del consolidato canone ermeneutico, ripetutamente affermato a questa Corte, secondo cui ben può operare il meccanismo della presunzione della dolosa distrazione, rilevante, ai sensi dell'art. 192 c.p.p., al fine di affermare la responsabilità dell'imputato, nel caso di un ingiustificato mancato rinvenimento, all'atto della dichiarazione di fallimento, di beni e valori societari, ove sia accertata la previa disponibilità, da parte dell'imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione (Sez. 2, n. 5838 del 09/02/1995 Rv. 201517; Sez. 5 n. 11095 del 13/02/2014, Rv. 262741; Sez. 5 n. 22894 del 17/04/2013, Rv. 255385; Sez. 5 n. 3400/05 del 15/12/2004, Rv. 231411; Sez. 5 n. 7048 del 27/11/2008, Rv. 243295).

L'indirizzo si fonda sulla considerazione che, nel nostro ordinamento, l'imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell'impresa per l'adempimento delle obbligazioni sociali. Da qui, la diretta responsabilità dell'imprenditore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell'integrità della garanzia.

La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza costituisce un vulnus alle aspettative dei creditori e integra, pertanto, l'evento giuridico presidiato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta. Tali considerazioni giustificano la, solo apparente, inversione dell'onere della prova incombente sul fallito, in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo (nel senso di dare conto di spese, perdite o oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale), poiché, anche in ragione dell'obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell'art. 8 comma 3 della legge fallimentare con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, obbligo presidiato da sanzione penale, si tratta di legittima sollecitazione, affinché il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell'impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato (Sez. 5 n. 7588 del 26/01/2011, rv.249715). D'altro canto, in seguito alla sentenza di fallimento, restano immutati gli obblighi di custodia e conservazione dei beni da parte dell'imprenditore, fino alla consegna di essi al curatore, mediante la redazione dell'inventario (Sez. 5, n. 13528 del 08/02/2017, Rv. 269721). Nel caso di specie, peraltro, la sentenza impugnata ha anche posto in luce l'assenza di giustificazioni plausibili da parte del ricorrente, cosicché la decisione non si fonda, esclusivamente, sul mancato rinvenimento dei beni.

7.3. Motivo 16 afferente al capo 6, riguardante la cessione di un ramo di azienda alla società (Omissis), e alla distrazione correlate ad alcune fatture per operazioni inesistenti.

7.3.1. Sotto il primo profilo, la Corte di appello, una volta esclusa la ricorrenza del cash pooling, ha enucleato gli elementi di fatto che fanno emergere la natura distrattiva dell'intera distrazione, anche confutando le deduzioni dell'appellante in merito alla effettività della garanzia rilasciata dai soci della cessionaria mediante pegno delle proprie quote in favore di (Omissis) (pag. 89), mentre la critica difensiva, di natura sostanzialmente contestativa, mirando a una alternativa ricostruzione dei fatti e delle prove, non scalfisce la tenuta logica della motivazione, che regge su solide argomentazioni, che hanno dato conto delle ragioni che hanno portato a ritenere che la (Omissis) - quando era già in situazione di conclamata crisi - avesse di fatto rinunciato a una azienda suscettibile di produrre reddito senza conseguirne guadagno, mentre ha favorito a proprio discapito la (Omissis), depauperando il patrimonio aziendale, non esigendo, anzi concedendo dilazioni, il pagamento del prezzo pattuito, nonostante l'evidente incapacità della cessionaria, al momento dell'acquisto, di assicurare il pagamento del prezzo di acquisto.

Non coglie nel segno neppure la deduzione difensiva che lamenta il mancato confronto con il tema della ricostruzione dell'operazione in termini di management buy out, noto con la sigla MBO, che è un'operazione di acquisizione di azienda da parte di un gruppo di manager interni all'azienda che assumono la figura di manager-imprenditori.

Solitamente, questa operazione di acquisizione della società in cui si lavora avviene comprando azioni e diventando i soci di controllo della società stessa, con tutto il potere decisionale e il diritto di godere dei profitti/utili generati e distribuiti sotto forma di dividendi. Assumendo essi la veste sia di soci che di manager, tale doppio status incentiva i manager a gestire in modo diligente e non opportunistico la loro stessa società. Ebbene, la Corte di appello ha specificamente scrutinato il tema e ha espressamente escluso che si fosse trattato di una siffatta operazione, evidenziando come non fosse emersa la base fattuale dell'MBO, ovvero la finalizzazione al risanamento dell'azienda, in mancanza di alcun progetto industriale, di "un piano economico e finanziario ragionevole con indicazione delle fonti delle risorse finanziarie e descrizione degli obiettivi da raggiungere" (pag. 91).

La motivazione della sentenza non è illogica, né è ravvisabile il denunciato travisamento, non evidenziando il ricorso, con la necessaria chiarezza, la discrasia tra contenuto della prova, qui documentale, e la sua interpretazione. A fronte di un congruo corredo argomentativo, che non denuncia evidenti illogicità, le critiche all'uso del materiale probatorio si risolvono in una censura alla ricostruzione di fatto che, invece, il giudice del merito ha operato rispettando i parametri della razionalità e completezza. In particolare, con le censure proposte il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica - unici vizi della motivazione proponibili ai sensi dell'art. 606, lett. e), c.p.p. ma una decisione erronea, in quanto fondata su un travisamento del fatto, non deducibile dinanzi al Giudice di legittimità. Il controllo di legittimità, infatti, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cessazione.

7.3.2. Quanto alla distrazione delle fatture, la censura difensiva, che si incentra su una asserita contraddizione interna della sentenza rispetto ad altra parte della decisione afferente ad altre fatture, per cui l'epilogo decisorio era stato differente, finisce per sollecitare una rivalutazione di prove dichiarative citate in sentenza.

8. Motivo 14: Non coglie nel segno neppure la censura veicolata con il quattordicesimo motivo, che denuncia violazione della regola di cui all'art. 603 c.p.p. con riguardo alla richiesta di acquisizione di tutta la documentazione sia cartacea che informatica, dal momento che la deduzione, per la genericità che la caratterizza, risulta ‘esplorativà, e sconta la mancanza del carattere di decisività dei temi introdotti dal ricorrente, nel senso che manca la indicazione degli elementi che avrebbero potuto condurre alla emersione, dalla acquisizione invocata, di elementi dotati di capacità di lumeggiare, in maniera radicale e assorbente, le condizioni deponenti per una valutazione dei rapporti contestati nei termini perseguiti dalla Difesa (Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, Rv. 268657).

9. Motivo 17: La Corte di appello ha fatto un uso corretto del proprio potere discrezionale, replicando specificamente alle doglianze difensive svolte dall'appellante. In particolare, ha considerato equa una pena sensibilmente lontana dal minimo edittale in ragione dell'importanza delle condotte distrattive" e " del rilevante pericolo per il ceto creditorio rappresentato da un passivo fallimentare di oltre 40 m/n di Euro", valutazione discrezionale che appare ragionevole e, quindi, non censurabile dinanzi al Giudice di legittimità, dal momento che il giudice di merito, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, Sentenza n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243).

10. Motivo 18: Allo stesso modo risulta infondato l'ultimo motivo che attinge le statuizioni civili: la sentenza impugnata ha fornito adeguata motivazione in merito al danno subito dalla Provincia costituita parte civile, con adeguati argomenti, la cui tenuta logica non risulta compromessa dalle deduzioni difensive.

In particolare, la Corte di appello, lungi dall'obliterare il tema della correlazione causale tra le condotte fraudolente del S. e il danno patito dalla parte civile, come sostiene il ricorrente, nel ravvisare il diritto autonomo e personale della Provincia quale soggetto danneggiato dal reato, ha evidenziato che il frustrato raggiungimento degli obiettivi prefissati era stato la conseguenza della mala gestio della (Omissis) e delle condotte distrattive poste in essere dal suo organo di governo, che avevano comportato il problematico recupero dei contributi e lo sviamento dei fondi erogati dalla loro destinazione di promozione economica e occupazionale del territorio.

Da tanto, ha precisato, era derivato per la collettività locale un grave pregiudizio, sia in termini di danno emergente per mancata realizzazione dell'auspicato aumento dell'occupazione che di lucro cessante, dovuto alla perdita di ulteriori posti di lavoro. Dunque, la Provincia ha fatto valere un proprio diritto derivante dalla violazione, attraverso le condotte bancarottiere, degli accordi e degli impegni assunti contrattualmente nel 1999 finalizzati ad azioni "per riavviare il processo di sviluppo del territorio, all'epoca gravemente compromesso". La valutazione della Corte di appello è allineata con l'orientamento a tenore del quale, in tema di reati fallimentari, ai sensi dell'art. 240, comma 2, L. Fall., i singoli creditori sono legittimati in proprio - uti singu/i a costituirsi parte civile nel procedimento penale per il delitto di bancarotta fraudolenta nella qualità di persona danneggiata dal reato, quando fanno valere una richiesta di risarcimento a titolo personale (cfr. tra le altre, Sez. 5, n. 42608 del 12/04/2005, Rv. 232846; cfr. Sez. 5, n. 6904 del 04/11/2016 -dep. 2017-, Rv. 269105).

Al rigetto del ricorso segue, ex lege, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2023

Bancarotta fraudolenta: sui pagamenti tra società infragruppo

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