Bancarotta fraudolenta: sull'obbligo di verità gravante sul fallito
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Cassazione penale sez. V, 16/12/2021, n.2732

In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, l'obbligo di verità, penalmente sanzionato e gravante sul fallito ex art. 87 l. fall., unitamente alla sua responsabilità in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale, giustifica l'apparente inversione dell'onere della prova a suo carico, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, senza che ciò interferisca col diritto al silenzio garantito all'imputato in sede processual-penale.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 13.12.2018 la Corte di Appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia emessa in primo grado nei confronti di C.S., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ha, previa concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, rideterminato, riducendola, la pena al predetto inflitta in anni tre di reclusione, nonché ridotto le pene accessorie fallimentari, confermando nel resto la decisione del primo giudice.

2.Ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo due motivi.

2.1.Col primo motivo deduce il vizio di motivazione per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della stessa in relazione alla distrazione di Euro 120.000,00, quale residuo di cassa, per avere la corte territoriale tratto la prova di essa dalla relazione del curatore senza averne previamente verificato l'attendibilità alla stregua della documentazione contabile, che non risulta acquisita agli atti del processo.

2.2.Col secondo motivo, proseguendo nel discorso avviato col primo, rappresenta che non può attribuirsi rilievo al fatto che l'imputato non abbia offerto giustificazioni in ordine alle mancanze rilevate dal curatore, avendo egli diritto al silenzio. Il curatore in ogni caso ha riferito di beni mancanti sulla sola base del raffronto tra il registro dei beni strumentali e il verbale di inventario, laddove il difensore ha comunque rappresentato al predetto, con istanza del 4.2.2015, che i beni indicati come mancanti fossero, in parte, ancora nel possesso del proprietario, L., in parte, allo stesso dati in custodia in occasione del rilascio forzato dell'immobile e dell'azienda ed, in parte, pignorati e venduti in una precedente esecuzione. Tali elementi smentiscono la circostanza secondo cui il C. avrebbe avuto la materiale disponibilità dei beni risultati mancanti, sicché lo stesso avrebbe dovuto essere assolto dal reato ascrittogli, quanto meno limitatamente a tale condotta (col conseguente venir meno dell'aggravante dei più fatti di bancarotta e rideterminazione della pena in misura inferiore a tre anni).

3. Il ricorso è stato trattato, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto:

il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso;

il difensore dell'imputato ha insistito nei motivi di ricorso chiedendone l'accoglimento.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.

1.1.Col primo motivo si contesta genericamente che la corte territoriale non avrebbe considerato che, in assenza di prova documentale in relazione alla somma di denaro di Euro 120.000, si sarebbe dovuto mandare assolto l'imputato, non essendo sufficiente ai fini della condanna in ordine alla distrazione di tale somma quanto dichiarato dal curatore nella relazione ex art. 33 L. Fall. e in dibattimento, né il fatto che l'imputato non abbia in alcun modo giustificato le risultanze che gli si addebitano né al curatore né in sede dibattimentale.

E' solo il caso di evidenziare che il ricorrente al riguardo non contesta tanto la veridicità del dato indicato dal curatore quanto, in generale, l'attendibilità della relazione ex art. 33 L. Fall. per il solo fatto che non fossero stati ad essa allegati gli atti nella medesima richiamati, laddove la relazione ex art. 33 L. Fall., che peraltro è un atto del fascicolo fallimentare a cui ha possibilità di accesso il fallito, ben può essere posta a base della affermazione di responsabilità dell'imputato. Ed invero, come è stato già condivisibilmente affermato da questa Corte, le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare sono ammissibili come prove documentali in ogni caso e non solo quando siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile, atteso che gli accertamenti documentali e le dichiarazioni ricevute dal curatore costituiscono prove rilevanti nel processo penale, al fine di ricostruire le vicende amministrative della società (Sez. F, Sentenza n. 49132 del 26/07/2013, Rv. 257650, Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017 Ud., dep. 16/03/2018, Rv. 272664).

E, quanto alla mancanza di giustificazioni da parte dell'imputato, va osservato che in ogni caso egli era tenuto, nella qualità rivestita, a fornire, quanto prima, al curatore, in sede fallimentare, tutte le delucidazioni e controdeduzioni del caso per consentire allo stesso di assolvere alle incombenze proprie della sua carica; e da tale omissione, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, sono desumibili elementi di valutazione ai fini della prova del reato di bancarotta patrimoniale; elementi di valutazione che rimangono tali di là della contestazione da parte della difesa, in sede penale, delle altre risultanze probatorie (nel caso di specie, peraltro, come detto, generica); sicché rimanendo nel caso di specie, oltre il resto, comunque il fatto, opportunamente, valorizzato dai giudici di merito, che l'imputato non ha giammai reso spiegazioni riguardo alla somma in questione, deve concludersi che correttamente la corte territoriale abbia confermato la pronuncia di primo grado.

Il motivo si appalesa pertanto nel suo complesso infondato.

1.2. Anche il secondo motivo, che attacca genericamente la motivazione della sentenza impugnata per non avere considerato le deduzioni difensive che si fondavano sulla documentazione prodotta al fine di dimostrare la sorte dei beni strumentali non rinvenuti dal curatore, è privo di pregio. Esso attraverso il vizio denunciato mira a una rivalutazione delle dichiarazioni del curatore che vengono peraltro riportate in ricorso, estrapolandole dal contesto dichiarativo di riferimento, e senza allegarle per esteso o in altro modo renderle fruibili nella loro completezza (ed invero, secondo la linea ermeneutica consolidata di questa Corte regolatrice, la rispondenza delle valutazioni compiute dal giudice di merito alle acquisizioni processuali può essere dedotta sub specie del vizio di travisamento della prova a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti - Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006 - dep. 20/07/2006, Stojanovic, Rv. 23416701; Sez. 4, n. 20245 del 28/04/2006 - dep. 14/06/2006, Francia, Rv. 23409901 -, con il risultato di porre a carico del ricorrente un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali che intende far valere, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi (integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice), laddove, nel caso di specie, le censure - pure a volerle riguardare tutte anche sotto tale profilo - sono state articolate unicamente sulla base di quanto si assume, in maniera generica, essere stato riferito dal curatore e/o di mere considerazioni già ritenute dalla Corte prive di un benché minimo principio di prova).

In altri termini, attraverso il complessivo vizio valutativo ed argomentativo articolato si invoca, piuttosto, una rivalutazione delle risultanze processuali oltre che fattuali, vieppiù senza operare un reale confronto con la motivazione avversata - della quale, peraltro, non si denunziano vizi rilevanti ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) se non la sostanziale svalutazione delle apodittiche argomentazioni poste a base delle conclusioni della difesa.

Con il vizio dedotto ci si limita, per altro vero, a reiterare le censure già mosse in appello, arricchendole con deduzioni rispetto alle quali erano state comunque già fornite risposte, logiche, esaurienti e precise nell'ambito della complessiva ricostruzione resa dal giudice dell'appello sulla base di dati concreti tratti dalle emergenze processuali passate in rassegna. Il motivo in scrutinio, assume, invero, che, in buona sostanza, si sia indicata la destinazione dei beni non rinvenuti dal curatore in sede di inventario, laddove la sentenza impugnata evidenzia che, invece, quanto meno in relazione a diversi di essi, non possa ritenersi raggiunta tale dimostrazione; così, quanto ai beni che la difesa assume oggetto di precedente pignoramento, evidenzia la corte territoriale che non vi è corrispondenza tra questi e quelli non rinvenuti in sede fallimentare, non avendo peraltro il C. dichiarato alcunché al riguardo né al curatore né in sede di giudizio; indi conclude, il giudice di merito, che non si possa ritenere provato che quei beni - o almeno che determinati di essi - abbiano avuto sorte di assegnazione. Ed ancora, quanto ad altri beni non rinvenuti - al netto di quelli risultati essere di proprietà di terzi - la corte territoriale ha parimenti spiegato come anche per essi fosse rimasta incerta la destinazione, non avendo l'imputato fornito indicazioni al riguardo (risolvendosi la prospettazione difensiva nella mera rappresentazione della loro esistenza all'atto del rilascio dell'immobile al proprietario L. e della loro presa in carico da parte di questi in attesa del recupero del C. che era e rimaneva il legittimo proprietario di essi).

Valgono, quindi, anche in tal caso, le medesime considerazioni sopra esposte in relazione al primo motivo, con la conseguenza che deve concludersi che, non avendo ancora una volta l'imputato, nella rivestita qualità, fornito alla curatela tutte le spiegazioni atte a giustificare la sorte dei beni strumentali della società fallita, si sia correttamente confermata la decisione assunta dal giudice di primo grado.

Ed invero, l'impostazione seguita dalla corte territoriale appare conforme all'indirizzo consolidato secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell'occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell'amministratore, della destinazione dei beni suddetti (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Rv. 279204 - 01; Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Rv. 267710 - 01). Al riguardo, è stato precisato che il giudice non può ignorare l'affermazione dell'imputato di aver impiegato tali beni per finalità aziendali o di averli restituiti all'avente diritto, in assenza di una chiara smentita emergente dagli elementi probatori acquisiti, quando le informazioni fornite alla curatela, al fine di consentire il rinvenimento dei beni potenzialmente distratti, siano specifiche e consentano il recupero degli stessi ovvero l'individuazione della effettiva destinazione (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, cit.), laddove nel caso di specie l'imputato non ha affatto fornito alla curatela informazioni utili al riguardo, né tanto meno può ritenersi una valida giustificazione la generica indicazione resa dalla difesa secondo cui i beni sarebbero stati affidati in custodia al Lillini dal momento che questi li aveva in realtà trattenuti presso di sé, secondo quanto riportato nel verbale di rilascio dell'immobile, in attesa del recupero da parte del C. (sicché a rigore non competeva comunque al curatore reperirli).

E' solo, infine, il caso di aggiungere che al diritto al silenzio dell'imputato in sede di giudizio penale non corrisponde un analogo diritto nell'ambito della procedura fallimentare, ciò in quanto il fallito - e nel caso di società l'amministratore di questa - ha l'obbligo giuridico di fornire dimostrazione della destinazione dei beni acquisiti al suo patrimonio (cfr. Sez. 5, n. 22894 del 17/04/2013, Rv. 255385 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 7569 del 21/04/1999, Rv. 213636); la responsabilità dell'imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l'obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87, L. Fall. sul fallito, o in caso di società sull'amministratore, interpellato dal curatore circa la destinazione dei beni dell'impresa, giustificano l'apparente inversione dell'onere della prova a carico dell'amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato.

2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva il rigetto del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 606 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2022

Bancarotta fraudolenta: sull'obbligo di verità gravante sul fallito

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