Bancarotta fraudolenta: sussiste in caso di prelievo dalle casse sociali di somme asseritamente corrispondenti al credito vantato
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Cassazione penale sez. V, 22/02/2022, n.17092

In tema di fallimento di una società di persone, la condotta del socio che recede che, nell'esercizio del diritto a vedersi liquidata la sua quota, prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti al credito vantato nei confronti della società senza alcuna indicazione di elementi oggettivi che consentano un'adeguata valutazione delle modalità di determinazione della congruità della somma, costituisce atto di disposizione patrimoniale intrinsecamente arbitrario che, in quanto idoneo a esporre a pericolo le ragioni dei creditori, integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Napoli ha riformato, limitatamente alla durata delle pene accessorie, la sentenza del Tribunale di quella stessa città in data 6 luglio 2017, pronunciata nei confronti di F.U. e di F.S., riconosciuti colpevoli, quali amministratori della "(OMISSIS)", fallita il (OMISSIS), del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il primo, e anche del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, il secondo, con consequenziale applicazione nei loro confronti della pena quantificata in anni due e mesi sei di reclusione.

2. Il ricorso per cassazione nell'interesse di F.U. consta di quattro motivi, quivi enunciati nei limiti richiesti per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p..

- Il primo motivo denuncia la violazione dell'art. 51 c.p., in relazione all'art. 2289 c.c., e lamenta che il ricorrente avrebbe dovuto essere assolto dalla bancarotta patrimoniale ascrittagli perché il fatto non costituisce reato. Ciò era sostenibile sulla base dei seguenti argomenti: F.U., autoliquidandosi la quota di sua partecipazione alla società in nome collettivo - di cui era stato socio fino al recesso, avvenuto il 10 dicembre 2017, allorché aveva, oltretutto, ceduto la sua quota alla moglie del fratello S. -, con il prelevare dalle casse sociali la somma di Euro 130.000,00, non aveva fatto altro che esercitare il diritto di credito vantato nei confronti della società, la cui valutazione egli aveva effettuato sulla base della condizioni economiche e finanziarie della compagine; la sua condotta non era stata animata da dolo, non essendosene egli rappresentato la pericolosità.

- Il secondo motivo eccepisce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni del teste D.S.G., per non essere stato questi inserito nella lista del pubblico ministero ex art. 468 c.p.p..

- Il terzo motivo deduce il travisamento delle dichiarazioni di D.S.G., siccome evincibile dalla sentenza di primo grado, richiamata da quella impugnata, nonché l'illogicità di quella, che aveva desunto dalle sue propalazioni la pericolosità della condotta del ricorrente, sebbene non avesse chiarito quale fosse stato il ruolo avuto dal dichiarante in seno alla fallita, di cui era stato, in effetti, soltanto consulente fiscale.

- Il quarto motivo denuncia il vizio di illogicità della motivazione della sentenza di primo grado, che aveva ritenuto F.S., dapprima ignaro della condotta distrattiva del germano e, poi, suo concorrente nella realizzazione di essa.

3. Il ricorso per cassazione nell'interesse di F.S. consta di tre motivi, parimenti enunciati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p..

3.1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), la violazione degli artt. 192 e 194 c.p.p., e lamenta il malgoverno dei criteri di valutazione delle prove dichiarative - segnatamente delle testimonianze del Curatore Fallimentare, P.P., e di D.I.M. - e di quelle documentali, dalle quali si sarebbe potuto desumere, ove congruamente apprezzate, l'estraneità del ricorrente alla condotta distrattiva del fratello U., questi essendo dotato di poteri gestori disgiunti della società in nome collettivo di famiglia, delle cui quote era proprietario in misura del 50%, rispetto al cui autonomo esercizio egli non avrebbe potuto opporre alcunché.

3.2. Il secondo motivo deduce difetto, mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, avendo la Corte territoriale ritenuto che il ricorrente fosse, oltretutto, autore anche della distrazione della somma di Euro 50.000,00, restituita dal fratello U., ancorché non fosse stata raggiunta alcuna prova certa né in ordine all'effettivo versamento della stessa da parte del germano, né in ordine all'eventuale destinazione che l'imputato le avrebbe impresso.

3.3. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 133 e 37 c.p., in riferimento all'operata quantificazione della pena principale e della pena accessoria.

4. Con requisitoria in data 27 gennaio 2022, rassegnata ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, e del D.L. n. 105 del 2021, artt. 1 e 7, il Procuratore Generale, in persona del Sostituto Dottoressa Paola Filippi, ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Va respinto il ricorso nell'interesse di F.U..

1.1. Il primo motivo è infondato.

1.1.1. Invero, la diffusa rassegna dei principi espressi dalla giurisprudenza civile di legittimità in tema di liquidazione della quota del socio recedente nella società di persone non getta alcuna luce sull'unico tema che avrebbe meritato di essere approfondito in questa sede: ossia quali fossero stati gli oggettivi parametri, concretamente utilizzati dal ricorrente, sulla base dei quali egli, recedendo dalla società di famiglia, aveva determinato il valore della sua quota di partecipazione in essa nella misura di Euro 180.000,00.

A fronte del silenzio sul punto serbato dall'appellante, già stigmatizzato nella sentenza impugnata (cfr. pag. 3), nulla e', in effetti, dedotto neppure nel motivo in disamina, che finisce, peraltro, per non attenersi neppure a quanto insegnato dalla stessa giurisprudenza evocata: la quale, invece, si è espressa affermando che, nel caso di recesso di socio di società di persone, per il calcolo della liquidazione della quota, a norma dell'art. 2289 c.c., comma 2, deve tenersi conto della effettiva consistenza economica dell'azienda sociale all'epoca dello scioglimento del rapporto, comprendendovi anche il fattore di redditività della azienda stessa: redditività, in cui si sostanzia il concetto di avviamento, che deriva da un complesso di elementi i quali, se pure cronologicamente attualizzati al momento dello scioglimento del rapporto, si fondano sui risultati economici delle passate gestioni e sulle prudenti previsioni dei futuri rendimenti, e che si traduce nella probabilità, proiettata eminentemente nel futuro, di maggiori profitti per i soci superstiti, derivati dall'apporto conferito dal socio recedente e consolidatosi come componente del patrimonio sociale (Sez. 1 civ., n. 7595 del 10/07/1993, Rv. 483091; conf. Sez. 1 civ., n. 5449 del 18/03/2015, Rv. 634708).

Deve, quindi, affermarsi che: "Nella società di persone, la condotta del socio uscente per recesso che prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti al credito vantato nei confronti della società - in riferimento al suo diritto a vedersi liquidata la quota -, senza alcuna indicazione di elementi oggettivi che ne consentano un'adeguata valutazione, costituisce un atto di disposizione patrimoniale intrinsecamente arbitrario, che, in quanto idoneo ad esporre a pericolo le ragioni dei creditori, è tale da integrare il delitto di bancarotta per distrazione".

1.1.2. Inammissibili sono, invece, le deduzioni in punto di elemento soggettivo del reato. Nulla di specifico è stato addotto dal ricorrente per contrastare l'affermazione, contenuta in sentenza, secondo la quale il cospicuo prelievo della somma di Euro 130.000,00 (al netto della somma di Euro 50.000, 00 restituita alla società) era tale da integrare un atto fortemente depauperativo della società, che, avendone gravemente sbilanciato la situazione patrimoniale e finanziaria, l'aveva consegnata ad un destino di irreversibile declino, come accertato dal curatore fallimentare pur in assenza delle scritture contabili (pag. 3, ultimo capoverso, della sentenza impugnata).

2.2. Il secondo ed il terzo motivo sono del tutto aspecifici.

Nessun riferimento figura nella sentenza impugnata alle dichiarazioni di D.S., menzionato soltanto per indicarlo come soggetto passivo del furto di dischetti su cui sarebbero state tenute le scritture contabili della fallita (pag. 5, secondo capoverso, della sentenza impugnata).

2.2.1. In ogni caso, pur ammesso che anche sulle dichiarazioni da questi rese si sia fondata la conferma della decisione di primo grado, una volta eccepitane l'inutilizzabilità, sarebbe stato onere del ricorrente illustrare, a pena di inammissibilità, l'incidenza dell'eventuale loro eliminazione ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 - dep. 20/02/2017, Rv. 269218; Sez. 6, n. 18764 del 05/02/2014, Rv. 259452).

2.2.2. Parimenti, l'impugnante si sarebbe dovuto far carico, nel rispetto, peraltro, del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432), di lumeggiare, sempre a pena di inammissibilità della censura, il carattere di decisività delle dichiarazioni del D.S. asseritamente mal interpretate, individuando, altresì, l'elemento fattuale o il dato probatorio da esse emergente incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza contrastata (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085).

2.3. Il quarto motivo è inammissibile, vuoi perché non sostenuto dal necessario interesse di F.U. a proporlo - del riconosciuto concorso di F.S. dovendosi dolere, in effetti, soltanto costui -, vuoi perché non modulato sulla ratio decidendi della statuizione al riguardo.

Quest'ultima, invero, fonda sulla riscontrata consapevolezza da parte di F.S. dell'operato arbitrario del fratello U., siccome documentata dalla scrittura privata del 22 novembre 2007, intercorsa tra i due germani, nella quale "la quota del recedente era calcolata senza alcun rigore ed in modo del tutto sommario" (pag. 3, terzo capoverso, sentenza impugnata); operato cui F.S., socio al 50% della società e dotato di poteri gestori della stessa, avrebbe, invece, potuto e dovuto opporsi proprio in ragione del concreto rischio di dissesto della società insito in esso. Si tratta, certamente, di decisivo passaggio argomentativo con il quale il ricorrente non si è affatto confrontato.

3. Anche il ricorso nell'interesse di F.S. non merita accoglimento.

3.1. Il primo motivo è infondato.

In disparte l'inosservanza del principio di diritto secondo il quale, in tema di ricorso per cassazione, non è consentito dedurre la violazione dell'art. 192 c.p.p., anche se in relazione all'art. 125, e art. 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui permette di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità o di inutilizzabilità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027), va rilevato che quanto in esso dedotto, per sostenere l'estraneità di F.S. all'operazione di liquidazione della quota sociale del fratello recedente, non è in linea con la disciplina dei poteri e dei doveri incombenti sui singoli soci di società di persone, dotati di poteri gestori disgiunti, dettata dalle norme del Codice civile.

Infatti, l'art. 2257 c.c. - richiamato dall'art. 2293 c.c. in tema di società in nome collettivo -, dopo avere stabilito che: "Salvo diversa pattuizione, l'amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri" (comma 1), precisa che: "Se l'amministrazione spetta disgiuntamente a più soci, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all'operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta" (comma 2). Tanto comporta che il singolo socio amministratore, vieppiù perché illimitatamente e solidamente responsabile - come emerge dal tenore letterale del combinato disposto degli artt. 2260 e 2297, comma 1, c.c. -, non può disinteressarsi dell'operato degli altri soci-amministratori, a maggior ragione quando emergano, come nel caso di specie, chiari segnali di condotte pregiudizievoli per l'integrità del patrimonio da costoro attuate, salvo che non sussistano specifiche e documentate ragioni che diano conto dell'inesigibilità dell'esercizio del potere-dovere di vigilanza sulla complessiva gestione sociale.

Al di là dell'esercizio disgiunto dei poteri gestori, gravano, infatti, indistintamente, su tutti i soci-amministratori obblighi di vigilanza - direttamente discendenti dalla posizione di garanzia delineata dagli artt. 2260 e 2267 c.c. - che impongono loro di controllare di continuo l'andamento della gestione ed intervenire per evitare che condotte pericolose per la prosecuzione dell'attività sociale e per gli interessi dei creditori possano essere poste in essere.

Può, dunque, affermarsi che: "Nella società di persone, il potere di amministrazione disgiunta spettante, di regola, a ciascun socio, non vale, di per sé, a esonerare il socio, che non si sia reso autore di condotte pregiudizievoli per la società ed i creditori, da responsabilità anche penale, a titolo di concorso in bancarotta fraudolenta patrimoniale, in caso di dichiarazione di fallimento, essendo egli onerato del potere-dovere di vigilare sulla complessiva gestione della società, salvo che non adduca specifiche e documentate ragioni atte a dar conto dell'inesigibilità del relativo esercizio".

3.2. Il secondo motivo denuncia un vizio non consentito nel giudizio di legittimità.

Della valutazione delle prove dichiarative e documentali raccolte (relazione L. Fall., ex art. 33, scrittura privata in data 22 novembre 2007, dichiarazioni dibattimentali del Curatore Fallimentare, P.P., e del testimone D.I.M.) il ricorrente propone un'alternativa lettura -tale da accreditare la sua estraneità e alla liquidazione della quota del fratello recedente e alla distrazione della somma di Euro 50.000,00, da questi restituita alle casse sociali -, senza dedurre - come sarebbe stato suo onere in presenza di conforme pronuncia di merito in punto di riconoscimento della sua responsabilità - specifici loro travisamenti, ricadenti su oggetti determinati ed inopinabili (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Rv. 216260; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Rv. 214794; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207944; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, Rv. 272018; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Rv. 258774; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Rv. 237207).

3.3. La doglianza in punto di commisurazione della pena principale e della durata delle pene accessorie fallimentari non si fa carico di lumeggiare specifici aspetti atti a diversamente orientare la discrezionalità del giudice di merito, che non appare esercitata in maniera manifestamente irragionevole, essendo stata, la prima, determinata nel minimo edittale, con contenuto aumento per la continuazione (concesse, oltretutto, le circostanze attenuanti generiche), e la seconda valorizzando l'intensità del dolo che aveva animato la condotta dell'imputato - in quanto pure responsabile dell'occultamento delle scritture contabili -, nonché l'entità della somma distratta.

4. Consegue il rigetto dei ricorsi, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2022

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