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Dichiarazioni integrative: applicabilità dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000 per superamento delle soglie di punibilità

dichiarazione infedele

Cassazione penale sez. III, 18/11/2022, n.10726

Anche le dichiarazioni integrative rientrano nel campo applicativo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, qualora, ove siano superate le soglie di punibilità contemplate dal legislatore, le stesse introducano, come nella vicenda in esame, elementi attivi non conformi a quelli effettivi o elementi passivi inesistenti (o "fittizi", secondo la versione previgente della norma).

Dichiarazioni integrative: applicabilità dell’art. 4 D.Lgs. 74/2000 per superamento delle soglie di punibilità

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 2 luglio 2021, la Corte di appello di Bologna confermava la decisione del 1 luglio 2015, con cui il Tribunale di Ferrara, tenuto conto della contestata recidiva ex art. 99 comma 4 c.p., aveva condannato G.G. alla pena di 2 anni di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, a lui contestato per avere presentato, nella qualità di amministratore della Kolonica s.r.l., una dichiarazione integrativa alla dichiarazione Mod. Unico 2010, con cui veniva abbattuta la base imponibile ai fini delle imposte dirette e dell'iva, mediante l'indicazione fittizia di operazioni di reverse charge (cessioni di fabbricati strumentali e operazioni di subappalto in edilizia), per il complessivo importo di 1.262.714 Euro, così da ottenere un'evasione del debito di imposta ai fini Ires di Euro 208.583 e ai fini Iva di Euro 263.818; fatto commesso in (Omissis). 2. Avverso la sentenza della Corte di appello felsinea, G., tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con il quale è stata dedotta l'inosservanza del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, evidenziandosi che la norma incriminatrice sanziona la presentazione della dichiarazione annuale, mentre l'eventuale presentazione di una dichiarazione integrativa non assume alcun rilievo, come già sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte (il riferimento è a Cass., Sez. 3, n. 23810 del 29/05/2019). Dunque, le dichiarazioni prese in considerazione dalla norma sono solo le dichiarazioni annuali in tema di imposte sul reddito delle persone fisiche e giuridiche, mentre sono escluse le altre dichiarazioni fiscali previste dall'ordinamento, per cui, ai fini della configurabilità del reato, sarebbero irrilevanti le dichiarazioni integrative, sia peggiorative che migliorative della situazione precedentemente rappresentata con le dichiarazioni annuali. 2.1. Con memoria trasmessa l'11 novembre 2022, il difensore di G. ha insistito nell'accoglimento del ricorso, depositando gli scritti difensivi prodotti nell'interesse del proprio assistito (invero in un differente giudizio di merito). CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è infondato. 1. Al fine di circoscrivere il tema giuridico su cui si incentra il ricorso, appare necessaria una breve ricostruzione della vicenda storica per cui si procede, che del resto non risulta controversa, almeno nella sua scansione fenomenica. Come emerge dalle due conformi sentenze di merito, la società Kolonica s.r.l., nella dichiarazione dei redditi 2010, riferita all'anno di imposta 2009, indicava somme pari a 261.206 Euro a titolo di Iva dovuta e a 208.583 Euro a titolo di Ires dovuta, somme non corrisposte entro i termini di legge né successivamente. L'Agenzia delle Entrate accertava poi che il 29 settembre 2011, ovvero entro la scadenza del termine ultimo del 30 settembre 2011, veniva presentata una dichiarazione integrativa relativa al medesimo anno di imposta, con cui veniva specificato che l'Iva dovuta era pari non più a 261.206 Euro, ma a 5.558 Euro (circa 255.000 Euro in meno), mentre, quanto all'Ires, l'importo dovuto era pari non più a 208.583 Euro, ma a 15.000 Euro, con una differenza di 193.000 Euro. Ciò era avvenuto mediante una modifica della cifra relativa alle operazioni imponibili, in relazione alle quale la società aveva incassato un'Iva da versare all'Erario, trasformandole in larga parte, come quantum complessivo, in operazioni eseguite in cd. reverse charge, cioè senza addebito Iva all'acquirente o ricevente la prestazione in subappalto, costituendo il reverse charge una inversione contabile in forza della quale, nell'ambito di un'operazione di vendita l'Iva non deve essere addebitata dal cedente all'acquirente e il cedente non è tenuto a versare corrispondentemente alcunché al Fisco. Nel corso degli accertamenti è altresì emerso che l'unica dichiarazione veritiera era la prima, in quanto corrispondente alle scritture contabili e, in particolare, alla fattura che risultava regolarmente incassata anche rispetto all'Iva. Viceversa, la dichiarazione integrativa, presentata dal commercialista M.M. per conto dell'imputato G.G., divenuto nel frattempo legale rappresentante della Kolonica s.r.l., è stata ritenuta falsa, in quanto esponeva fittiziamente elementi attivi inferiori a quelli effettivi, così abbattendo l'imponibile, nel senso che quello originariamente indicato nella prima dichiarazione era stato ridotto a due voci, una ancora imponibile, ma di molto inferiore a quella reale, e l'altra non più imponibile, in quanto in reverse charge. L'effetto di tale operazione è stata l'evasione dell'Iva per l'importo di 255.000 Euro e l'evasione dell'imposta sul reddito per l'importo di 190.000 Euro. Tanto premesso in punto di fatto, sia il Tribunale che la Corte di appello, ritenuta pacificamente superata la soglia di punibilità, hanno ritenuto configurabile a carico di G. il reato ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, considerando rilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, anche la dichiarazione integrativa, ove la stessa, come nel caso in esame, si riveli "infedele" nel senso delineato dalla norma incriminatrice, ossia indichi elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, oppure elementi passivi inesistenti. Si è infatti osservato sul punto (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata) che G. poteva sì presentare la dichiarazione integrativa, ma lo ha fatto non per correggere omissioni o errori della prima dichiarazione, ma per non pagare dolosamente le imposte dovute, segnalando a tal fine operazioni inesistenti. 2. Orbene, l'impostazione seguita dai giudici di merito appare immune da censure, in quanto coerente con la lettera e la ratio della norma penale de qua. Deve premettersi al riguardo che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, nella formulazione previgente alla novella operata dal D.Lgs. n. 158 del 2015, così recitava: "1. Fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38 (lire duecento milioni); b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro 2.065.827,60 (lire quattro miliardi). La norma trova il suo antecedente storico nella contravvenzione di dichiarazione infedele di cui alla L. n. 516 del 1982, art. 1, comma 2, lett. c), la quale aveva però un ambito di applicazione assai più ristretto, riguardando solo la mancata indicazione nella sola dichiarazione annuale ai fini delle imposte dirette dei redditi fondiari, di capitale o di altri redditi, in relazione ai quali il contribuente non fosse obbligato ad annotazioni in scritture contabili. Inoltre, in precedenza, la soglia di punibilità della dichiarazione era riferita, non all'ammontare dell'imposta evasa, ma a quello dei redditi di cui era stata omessa l'indicazione, pur se poi in fatto nessuna imposta fosse dovuta. Rispetto alla precedente previsione di cui alla L. n. 516 del 1982, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 rappresenta un ritorno al modello punitivo presente nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 56, comma 1, che puniva, indipendentemente dal tipo di reddito, chiunque presentasse una dichiarazione incompleta o infedele, quando l'imposta relativa al reddito accertato fosse superiore a L.. 5.000.000. L'art. 4 è stato poi modificato dal D.Lgs. n. 158 del 2015, essendo oggi la norma così formulata: "1. Fuori dei casi previsti dagli artt. 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro centocinquantamila; b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro tre milioni. 1-bis. Ai fini dell'applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)". Orbene, per quanto in questa sede rileva, occorre sottolineare che anche nel testo attuale della norma incriminatrice, dome in quello vigente all'epoca dei fatti, è presente la locuzione "in una delle dichiarazioni annuali", locuzione che fa espressamente riferimento non a una sola dichiarazione, ma una pluralità di atti dichiarativi, pur sempre riferiti al medesimo anno di imposta. Il tenore letterale della norma, dunque, consente di ricomprendere nel perimetro della fattispecie non solo la prima dichiarazione fiscale, ma anche quelle successive, integrative della prima, che intervengono, come quella in esame, entro il termine finale previsto per la presentazione della dichiarazione annuale. Del resto, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, che è quella di reprimere, in ambito tributario, le dichiarazioni infedeli produttive di significative evasioni fiscali, diverse da quelle già sanzionate, più gravemente, dagli art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri raggiri) del D.Lgs. n. 74 del 2000, sarebbe davvero paradossale e contrario allo spirito della norma escludere dall'area della rilevanza penale le dichiarazioni integrative riferite alla medesima annualità, perché, come correttamente osservato dalla Corte di appello, così ragionando, sarebbe sufficiente per ogni contribuente presentare prima una dichiarazione veritiera, per poi presentare, in relazione al medesimo anno di imposta, una dichiarazione integrativa assolutamente falsa, in quanto indicante operazioni e dati economici non corrispondenti a quelli reali. Deve pertanto ribadirsi che anche le dichiarazioni integrative rientrano nel campo applicativo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, qualora, ove siano superate le soglie di punibilità contemplate dal legislatore, le stesse introducano, come nella vicenda in esame, elementi attivi non conformi a quelli effettivi o elementi passivi inesistenti (o "fittizi", secondo la versione previgente della norma). Ciò comporta che, correttamente, la Corte di appello ha individuato il dies a quo della prescrizione (prima di operare l'aumento per la recidiva) nel momento della presentazione non della prima dichiarazione, risultata priva di indicazioni mendaci, ma di quella integrativa (29 settembre 2011), l'unica a essere risultata falsa, poiché è in tale momento che ha avuto luogo la consumazione del reato. Ne' a diverse conclusioni può pervenirsi alla luce del precedente giurisprudenziale citato dalla difesa (Sez. 3, n. 23810 del 08/04/2019, Rv. 275993), in quanto tale decisione riguarda un caso opposto a quello oggetto di causa, nel senso che in quella sede era pacificamente (e palesemente) falsa la prima dichiarazione fiscale, mentre quella integrativa è stata ritenuta inidonea a escludere la natura infedele della prima, non consentendo dunque la diversità delle rispettive situazioni fattuali di rendere comparabili le soluzioni giuridiche adottate. 3. Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso proposto nell'interesse di G. deve essere quindi rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 18 novembre 2022. Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2023
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