RITENUTO IN FATTO
1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di Milano confermava la decisione emessa dal G.u.p. del Tribunale di Milano all'esito del giudizio
abbreviato e appellata dagli imputati, la quale aveva condannato M.S. alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione perché responsabile del delitto D.Lgs. n. 74, ex art. 2, a lui ascritto al capo D), e Ma.An.Pi. alla pena di due mesi di reclusione, in continuazione con i fatti giudicati con sentenza della Corte di appello di Milano del 31 ottobre 2018, irrevocabile il 15 gennaio 2019, per il delitto D.Lgs. n. 74, ex art. 2, di cui al capo C), limitatamente alla dichiarazione presentata il 24 settembre 2015 per l'anno di imposta 2014; il Tribunale, inoltre, con riguardo a Ma.An.Pi., dichiarava l'improcedibilità, dell'azione penale in relazione alle condotte relative alle dichiarazioni presente in data 19 settembre 2012, 20 settembre 2013 e 22 settembre 2014 perché l'azione non doveva essere esercitata ai sensi dell'art. 649 c.p.p..
2. Avverso l'indicata sentenza, gli imputati, tramite il comune difensore di fiducia, con il medesimo atto propongono ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, e art. 649 c.p.p.. Assume il difensore che Ma.An.Pi. era stato condannato con sentenza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Milano in data 31 ottobre 2018, parzialmente riformata dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 31 ottobre 2018, e divenuta irrevocabile il 15.1.2019, anche in relazione alla dichiarazione per l'anno d'imposta 2014 con utilizzo di fatture false, sicché la condanna nel presente procedimento violerebbe il divieto di ne bis in idem, a nulla rilevando che nei due procedimenti le fatture siano state emesse da soggetti giuridici diversi - ossia la (OMISSIS) nel processo qui in esame, la (OMISSIS) nel processo definito con sentenza irrevocabile -, in quanto il reato si perfeziona con la presentazione della dichiarazione, che è unica rispetto alla medesima annualità di imposta.
2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, e art. 649 c.p.p., Nel riprendere le argomentazioni sviluppate con il primo motivo, difesa lamenta la violazione del divieto di ne bis in idem quantomeno con riferimento all'I.v.a..
2.3. Con il terzo motivo si censura la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, e art. 649 c.p.p.. Aggiunge il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe introdotto una nuova circostanza di fatto, e cioè che nel precedente procedimento penale la contestazione aveva riguardato solo la dichiarazione i.v.a. e non anche le imposte dirette, in relazione alla quale il ricorrente non ha potuto esercitare i diritti di difesa, proprio perché mai prospettata in precedenza.
2.4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all'affermazione di penale responsabilità di M.S., in quanto la Corte di merito non avrebbe considerato la parte delle fatture concernenti l'acquisto effettivo di bancali da (OMISSIS) e (OMISSIS), società da non reputarsi solo mere cartiere, ma soggetti commerciali reali che hanno emesso anche delle false fatture. La Corte d'appello non avrebbe perciò spiegato il motivo per cui la vendita di tali bancali non sia riconducibile alla lecita attività di compravendita riconosciuta nei confronti di tali ditte, la quali hanno contabilizzato ricavi per circa 1.800.000 Euro. La sentenza, inoltre, non ha dato conto della dirimente eccezione concernente lo status di condannato del titolare della (OMISSIS), sulle cui dichiarazioni si fonda il giudizio di penale responsabilità.
2.5. Con il quinto motivo si lamenta la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all'art. 62 bis c.p., avendo la Corte di merito negato il riconoscimento delle attenuanti generiche, senza considerare né il fatto che gli imputati sono gravati da un solo precedente, né il comportamento collaborativo assunto nel corso delle verifiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I primi tre motivi dedotti nell'interesse di Ma.An.Pi., esaminabili congiuntamente essendo connessi, sono fondati per i motivi e nei limiti di seguito indicati.
2. I fatti sono pacifici.
Ma.An.Pi. è stato definitivamente condannato con sentenza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Milano in data 31 ottobre 2018, parzialmente riformata dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 31 ottobre 2018, irrevocabile il 15.1.2019, per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, in relazione all'anno di imposta del 2014, perché, in qualità della ditta individuale " Ma.An.Pi.", al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto, annotava nella contabilità, avvalendosene nella dichiarazione i.v.a., 866 fatture per operazioni inesistenti emesse da (OMISSIS) di M.A., con l'indicazione nella dichiarazione per l'anno di imposta 2014 di elementi passivi fittizi per 534.681,50 Euro ed i.v.a. indebitamente sottratta per 117.631,73 Euro. Commesso in Senago il 24 settembre 2015, data di presentazione della dichiarazione del modello unico SP 2015.
Nel presente processo, al ricorrente al capo C) viene contestato il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, perché, in qualità di titolare dell'omonima ditta individuale, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicava nella previste dichiarazioni annuali di dette imposte, elementi passivi fittizi, mediante fatture per operazioni oggettivamente inesistenti; in particolare, relativamente all'anno di imposta 2014, utilizzava le fatture n. 40, 41 e 42 per operazioni emesse da (OMISSIS) di L., per un imponibile di 6.750 Euro, i.v.a. 1.485 Euro. In Senago il 24 settembre 2015.
3. Nel rigettare il motivo di appello incentrato sulla violazione dell'art. 649 c.p.p., la Corte di merito ha richiamato il principio secondo cui, ai fini della preclusione connessa al principio del ne bis in idem, l'identità del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, da considerare in tutti i suoi elementi costitutivi sulla base della triade condotta-nesso causale-evento, non essendo sufficiente la generica identità della sola condotta (Sez. 2, n. 52606 del 31/10/2018, dep. 22/11/2018, Biancucci, Rv. 275518-02; Sez. 5, n. 50496 del 19/06/2018, dep. 07/11/2018, Bosica, Rv. 274448; in questo senso già Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, dep. 28/09/2005, P.G. in c. Donati, Rv. 231799).
Nel caso in esame, dal raffronto tra le imputazioni elevate nel presente processo e in quello definito con sentenza irrevocabile non vi sarebbe identità del fatto, perché, nel primo caso, la contestazione è riferita sia alla dichiarazione dei redditi, sia a quella dell'I.v.a., mentre la sentenza di condanna attiene all'utilizzo di fatture inesistenti, non oggetto di contestazione del presente processo, nella sola dichiarazione i.v.a.
Inoltre, come osserva il Procuratore generale riprendendo argomentazioni della sentenza di primo grado, anche volere ritenere che nel presente giudizio la contestazioni riguardi effettivamente solo la dichiarazione ai fini i.v.a., tuttavia la diversità delle false fatture utilizzate, come contestate nei due procedimenti, non consentirebbe di ritenere ormai esaurita la potestà punitiva per la preclusione connessa al principio del ne bis in idem.
4. Così ricostruiti i termini della questione, si osserva che i principi sopra richiamati, che concorrono a definire la nozione di identità del fatto, devono essere adattati in relazione alla singola fattispecie di reato, tenendo conto della sua struttura e della sua conformazione, essendo evidente, ad esempio, che, in relazione ai reati di mera condotta, come quello in esame, ai fini della valutazione dell'identità del fatto non vengono in rilievo l'evento e il nesso causale, proprio perché, in tal caso, l'illecito penale si esaurisce nella realizzazione del comportamento vietato secondo le modalità descritte dalla norma incriminatrice.
5. Orbene, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, rubricato "Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti", al comma 1, punisce, con la pena ivi comminata, "chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi".
Si tratta di una fattispecie delittuosa, che, come si legge nella relazione Governativa, "si connota come quella ontologicamente più grave: essa ricorre infatti quanto la dichiarazione non soltanto non è veridica ma risulta altresì insidiosa, in quanto supportata da un impianto contabile o più semplicemente documentale, atto a sviare od ostacolare la successiva attività di accertamento dell'amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalora artificiosamente l'inveritiera prospettazione dei dati in essa racchiusa".
La norma prevede una duplice condotta: la prima, di natura propedeutica, consiste nell'acquisizione di fatture o di documenti equivalenti per operazioni inesistenti e nella successiva loro registrazione o conservazione a fini di prova; la seconda, che segna la consumazione del reato, si realizza nella presentazione di una dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell'I.v.a. in cui vengano indicati "elementi passivi fittizi" che trovino appunto un supporto nelle fatture per operazioni inesistenti o in altri documenti equivalenti. Si osserva, inoltre, che, a differenza di altre fattispecie, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, non richiede l'effettiva evasione dell'imposta, circostanza che viene in rilievo solamente sul piano dell'elemento soggettivo, connotando il dolo specifico, e, conseguentemente, nemmeno una soglia di punibilità.
5. Non può esservi quindi dubbio sul fatto che tale previsione, volutamente distaccandosi rispetto alla disciplina rappresentata dalla L. n. 516 del 1982, ha focalizzato (come reso esplicito dal testuale richiamo alla "indicazione" in dichiarazione degli elementi passivi quale momento culminante ed indefettibile della condotta illecita) il momento consumativo del reato sulla stretta condotta della presentazione della dichiarazione stessa, con il conseguente abbandono del modello del reato prodromico in precedenza considerato dal legislatore.
In tal senso, pertanto, ed in assoluta aderenza al dettato normativo, si è più volte pronunciata la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, da ultimo, Sez.3, n. 32348 del 18/06/2015, Persona, non massimata; Sez. 3, n. 52752 del 20/05/2014, Vidi e altro, Rv. 262358; Sez. 3, n. 23229 del 27/04/2012,P.M. in proc. Rigotti, Rv. 252999; Sez. 3, n. 14855 del 19/12/2011, Malagò, non massimata; Sez. 2, n. 42111 del 17/09/2010, De Seta, Rv. 248499; Sez. 1, n. 25483 del 05/03/2009,. Daniotti, Rv. 244155; Sez. 3, n. 626 del 21/11/2008, Zipponi, Rv. 242343) che ha anche aggiunto come, in stretta connessione con tale modello, nell'art. 6 si sia previsto che il delitto in questione non possa essere punito a titolo di tentativo; ed è significativo, in proposito, che la stessa relazione ministeriale al decreto in oggetto spieghi che la ratio della norma è appunto quella di "evitare che il trasparente intento del legislatore delegante di bandire il modello del reato prodromico risulti concretamente vanificato dall'applicazione del generale prescritto dell'art. 56 c.p.: si potrebbe sostenere, difatti, ad esempio, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti o sottofatturazioni, scoperte nel periodo d'imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta o infedele, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato".
Di qui, dunque, la conseguenza, da un lato, che solo con la condotta di presentazione della dichiarazione il reato può considerarsi perfezionato e, dall'altro, che, a differenza di quanto, in precedenza, stabiliva il L. n. 516 del 1982, art. 4, lett. g), (che puniva anche il semplice inserimento nella contabilità di fatture per operazioni inesistenti indipendentemente dall'allegazione alla dichiarazione), le condotte pregresse ad essa restano, sul piano penale, del tutto irrilevanti, non potendo essere punite neppure a titolo di tentativo.
Pertanto, come è stato affermato da questa Corte, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si consuma nel momento della presentazione della dichiarazione e non già nel momento in cui detti documenti vengano registrati in contabilità, sicché, se la dichiarazione è unica, unico è il reato commesso pur se i documenti utilizzati siano plurimi o abbiano diversi destinatari (Sez. 3, n. 626 del 21/11/2008, dep. 12/01/2009, Zipponi, Rv. 242343).
7. Da quando precede discende che la diversità di documenti utilizzati per aumentare l'costi, allorché la dichiarazione sia unica e relativa allo stesso periodo d'imposta, non giustifica l'affermazione di responsabilità per due reati diversi. Invero, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, che punisce colui il quale emette fatture per operazioni inesistenti, al comma 2, dispone che l'emissione o il rilascio di fatture per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo d'imposta si considera come un solo reato. A fortiori, quindi, deve considerarsi unico il reato allorché si utilizzino più fatture per aumentare i costi se la dichiarazione è unica ed è relativa alla stessa imposta ed allo stesso periodo d'imposta.
Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, prevede un'unica incriminazione per il soggetto che pone in essere una dichiarazione fraudolenta, sia che si avvalga di un solo documento, sia che utilizzi una pluralità di fatture o altri documenti, a nulla rilevando che le fatture o gli altri documenti siano diversi ed abbiano diversi destinatari; e ciò perché il reato non si perfeziona con la semplice registrazione del documento che sarà poi utilizzato ma con la dichiarazione riferita a quella specifica intera annualità e con l'indicazione nell'ambito della suddetta dichiarazione, di elementi passivi fittizi inseriti nella contabilità.
E' perciò irrilevante il numero delle fatture o degli atti documenti utilizzati per abbattere i costi perché la registrazione di tali documenti rappresenta solo un'attività prodromica alla realizzazione del reato, che si consuma nel momento in cui si presenta una dichiarazione fraudolenta mediante l'uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e non nel momento in cui si registra in contabilità il singolo documento che poi sarà utilizzato per abbattere i costi.
L'eventuale pluralità di reati non dipende, quindi, dalla pluralità dei documenti utilizzati, ma dalla pluralità delle dichiarazioni relative a periodi d'imposta diversi ovvero a tributi differenti: se la dichiarazione è unica e riguarda la medesima imposta, unico è il reato commesso con quella dichiarazione anche se i documenti utilizzati sono diversi.
Del resto, se nel procedimento già concluso con sentenza passata in giudicato fosse stata contesta l'utilizzazione anche delle ulteriori tre fatture di cui al presente processo, ciò non avrebbe comportato il concorso di reati, essendo le fatture confluite nell'unica dichiarazione relativa all'anno di imposta del 2014.
8. Se, quindi, la diversità di fatture non giustifica, per i motivi indicati, una pluralità di reati, si tratta ora di verificare se, nel caso in esame, la medesimezza del fatto possa essere esclusa in relazione alla diversità di dichiarazioni, che pacificamente riguardano il medesimo periodo di imposta.
La Corte territoriale, infatti, ha rilevato che, mentre nel processo già definito con sentenza irrevocabile la contestazione D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 2, era limitata all'utilizzato di fatture per operazioni inesistenti nella sola dichiarazione i.v.a., nel presente processo, come emerge dall'imputazione, la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, riguarda sia la dichiarazione dei redditi, sia la dichiarazione i.v.a..
Si tratta di un'affermazione che, tuttavia, non risulta chiaramente supportata dai dati probatori, anche considerando che, secondo l'accertamento contenuto nella sentenza di primo grado, la diversità del fatto era stata esclusa sulla base della diversità delle fatture (cfr p. 42-43), ma implicitamente ritenendo che si sia trattato della medesima dichiarazione presentata ai soli fini i.v.a., come peraltro risulterebbe confermato sia dalla data di presentazione della dichiarazione, che è la medesima, ossia il 24 settembre 2015, sia dal fatto che l'imputazione fa riferimento solamente all'iva evasa.
La Corte d'appello, in altri termini, al di là della formale contestazione, avrebbe dovuto puntualmente accertare se il ricorrente, con riferimento all'anno di imposta 2014, abbia effettivamente presentato due distinte dichiarazioni (ai fini iva e dei redditi) perché, solo in tal caso, è ravvisabile la diversità del fatto rispetto a quello già definitivamente giudicato.
La sentenza impugnata, pertanto, va annullata in relazione a Ma.An.Pi. con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano affinché compia l'accertamento dinanzi indicato.
9. Il quarto motivo è inammissibile perché generico e fattuale.
Invero, in relazione alla posizione di M.S., i giudici di merito, con doppia valutazione pienamente convergente, hanno appurato che le ditte individuali (OMISSIS) e (OMISSIS), entrambe nella titolarità di A.F., aveva emesso oltre 2.700 fatture per complessivi 8.047.220,06 Euro di imponibile, e 1.686.377,78 di Ivale, a fronte di solo 47 fatture annotate in contabilità, dell'importo di 1.396.759 Euro per la (OMISSIS) e di 347.815 Euro per la (OMISSIS); le fatture in esame furono reperite presso alcune ditte, tra cui la ditta di M.S..
Dall'esame dei conti correnti delle ditte emittenti, emerse che gli importi versati dai clienti destinatari erano stati puntualmente quasi per inteso prelevati e che tale movimentazione era incongruente con il volume di affari dichiarato dalla ditta del M.; i giudici di merito hanno desunto fittizietà delle operazioni indicate nelle fatture dall'esame della contabilità, da cui emergeva l'assenza di beni strumentali rispetto alle operazioni commerciali rappresentate transazioni, l'assenza sia di fatture di vettori per il trasporto dei materiali, sia di documenti di trasporto della merce, risultando la sola presenza di macchinari per la movimentazione interna.
Del resto, lo stesso A. riferiva spontaneamente ai militari della G.d.F. che egli stesso prelevava in contante per intero gli importi relativi ai bonifici della (OMISSIS) e della (OMISSIS) e riconsegnati a M.S. per le fatture emesse alla sua ditta.
A tal riguardo, la censura di una eventuale inutilizzabilità di tali dichiarazioni appare del tutto generica, e, in ogni caso, non si confronta con il costante orientamento di questa Corte, secondo cui Sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell'incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350 c.p.p., comma 7, purché emerga con chiarezza che l'indagato ha scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione (Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020, dep. 19/01/2021, Minauro; Sez. 1, n. 15197 del 08/11/2019, dep. 15/05/2020, Fornaro, Rv. 279125; Sez. 3, n. 20466 del 03/04/2019, dep. 13/05/2019, S., Rv. 275752; Sez. 2, n. 14320 del 13/03/2018, dep. 28/03/2018, Basso, Rv. 272541).
Le doglianze sono comunque generiche, non offrendo elementi concreti per desumere, in tale contesto, l'effettività delle operazioni commerciali.
10. Il quinto è inammissibile per genericità.
La Corte di appello, infatti, per un verso ha valorizzato i precedenti penali e, per altro verso, ha escluso la sussistenza di elementi valorizzabili per una mitigazione di pena, peraltro nemmeno indicati dal ricorrente, ha unicamente valorizzato un asserito contegno collaborativo, che non trova riscontro nella sentenza impugnata e che, in ogni caso, è stato ritenuto soccombente rispetto ai precedenti penali Si tratta di una valutazione di merito logicamente motivata, che sfugge al sindacato di legittimità.
11. Essendo il ricorso di M.S. inammissibile e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 Euro in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ma.An.Pi. e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
Dichiara inammissibile il ricorso di M.S., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021