FATTI DI CAUSA
Con sentenza depositata il 28.2.2017, la Corte d'appello di Catania ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato il ricorso di C.G. volto ad ottenere la reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, dai quali era stata cancellata per il periodo 1971-1980 in quanto emigrata in Germania per oltre un biennio, dal 24.4.1967 al 30.7.1971, senza dare comunicazione alcuna agli organi competenti e per di più prestando attività lavorativa extra-agricola per circa due anni.
La Corte, in particolare, pur dando atto che la L. n. 322 del 1963, art. 1, aveva disposto la proroga dell'iscrizione agli elenchi per l'annata agraria 1964-65 sulla base delle giornate effettuate per l'annata 1960-61 e che tale differimento era stato ulteriormente prolungato con leggi successive, ha rilevato che la L. n. 338 del 1968, art. 6, aveva previsto che l'iscrizione non sarebbe venuta meno nemmeno in dipendenza di un'emigrazione all'estero, purché di durata non superiore a due anni, restandone piuttosto sospesa l'efficacia, e ha ritenuto che, essendo la pensionata emigrata all'estero per un periodo superiore, correttamente ne era stata disposta la cancellazione, restando all'uopo irrilevante la previsione del D.L. n. 791 del 1981, art. 14, siccome intervenuta successivamente al momento in cui ella aveva perduto il diritto all'iscrizione.
Avverso tale pronuncia C.G. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura. L'INPS ha resistito con controricorso.
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso. In vista della pubblica udienza, parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione dei principi di ragionevolezza e affidamento e violazione del D.P.R. n. 818 del 1957, art. 8, per avere la Corte di merito ritenuto la legittimità della cancellazione dagli elenchi per il periodo 1967-1980 ancorché fosse intervenuta solo nel 2008, quando si era già consolidato il rapporto previdenziale ed ella aveva maturato il diritto a pensione: a suo avviso, infatti, opererebbero, da un lato, il principio di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21-nonies, in virtù del quale eventuali provvedimenti illegittimi possono essere annullati d'ufficio solo in presenza di superiori ragioni d'interesse pubblico e comunque entro il termine di diciotto mesi dal momento dell'adozione del provvedimento che autorizza o attribuisce benefici economici, e, dall'altro, D.P.R. n. 818 del 1957, art. 8, cit., in virtù del quale rimangono acquisiti alle singole gestioni e sono computabili ai fini previdenziali i contributi per i quali l'accertamento dell'indebito versamento sia posteriore di oltre cinque anni dalla data in cui il versamento medesimo è stato effettuato.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.L. n. 791 del 1981, art. 14, comma 3, L. n. 322 del 1963, art. 1,L. n. 852 del 1973, art. 1, e L. n. 334 del 1968, art. 6, nonché della L. n. 669 del 1979, per avere la Corte territoriale ritenuto che L. n. 322 del 1963, art. 1, comma 4, riferisse il potere di cancellazione anche agli elenchi a validità prorogata e non soltanto alle nuove iscrizioni negli elenchi stessi ed altresì che la L. n. 334 del 1968, art. 6, potesse trovare applicazione a coloro che erano emigrati prima della sua entrata in vigore, laddove avrebbe piuttosto operare la sospensione di cui al D.L. n. 791 del 1981, art. 14, cit.
Ciò posto, va disattesa l'eccezione d'inammissibilità sollevata dall'INPS con riguardo al primo motivo di doglianza e argomentata sul rilievo che tale questione non era mai stata proposta nei precedenti gradi di merito: è sufficiente al riguardo ricordare che la deduzione per la prima volta nel giudizio di legittimità di una censura in diritto differente rispetto a quelle svolte nei gradi di merito è sempre ammissibile, salvo che non comporti il necessario esame dei presupposti di fatto richiesti dalla differente disciplina per la riconoscibilità del diritto controverso (così, tra le più recenti, Cass. n. 25863 del 2018), ciò che nella specie non è accaduto.
Nel merito, tuttavia, il motivo è infondato.
Va premesso che, in materia di iscrizione dei lavoratori agricoli negli appositi elenchi, si contrappongono, da un lato, la pretesa dell'iscritto a mantenere l'iscrizione, al fine di accedere alle prestazioni previdenziali proprie dei lavoratori del settore, e, dall'altro lato, l'obbligo dell'ente previdenziale di assicurare il rispetto delle regole che presiedono alla legittimità dell'iscrizione assicurativa (così da ult. Cass. n. 3556 del 2023, sulla scorta di precedenti conformi).
Si tratta, come è stato precisato dalla costante giurisprudenza di questa Corte, di situazioni giuridiche che non mettono capo né all'esercizio di alcuna potestà amministrativa di carattere discrezionale da parte dell'ente, né ad alcuna posizione di interesse legittimo in capo al lavoratore assicurato: il diritto del lavoratore agricolo all'iscrizione sorge infatti ex lege in presenza di determinati presupposti di fatto, così come all'accertamento dell'insussistenza di tali presupposti di fatto consegue la sua cancellazione dagli elenchi (così ancora Cass. n. 3556 del 2023, cit.).
Tanto basta, a parere del Collegio, per ritenere l'infondatezza delle censure concernenti la violazione dei principi di ragionevolezza e affidamento cui dev'essere ispirata l'attività amministrativa: indipendentemente dalla possibilità o meno di riferire l'intero corpus delle previsioni della L. n. 241 del 1990 alla sola attività amministrativa in senso stretto, ossia all'agire autoritativo dell'amministrazione (come pure recentemente sostenuto da Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022, sulla scorta di Cass. n. 28141 del 2018), dirimente è piuttosto il fatto che, vertendosi in materia di obbligazioni di natura pubblica, che nascono ex lege al verificarsi dei requisiti di volta in volta previsti dall'ordinamento, la funzione del procedimento amministrativo che è preordinato alla loro adozione è di natura meramente ricognitiva: e ciò comporta non soltanto che all'inadempimento dell'ente che sia pregiudizievole per il diritto del privato può direttamente porre rimedio il giudice ordinario, dinanzi al quale si fa valere direttamente il rapporto obbligatorio, ma soprattutto che, trattandosi di atti rigidamente vincolati alla regola del rapporto obbligatorio, lo stesso ente previdenziale può sempre prendere, senza formalità alcuna (e dunque anche in giudizio), una diversa posizione in ordine al contenuto dell'obbligazione, non essendo in alcun modo vincolato da altri atti emessi in precedenza, ma soltanto alla legge del rapporto (così, espressamente, già Cass. n. 2804 del 2003).
Sta qui la ragione ultima per cui gli atti di gestione delle obbligazioni pubbliche in materia previdenziale e assistenziale debbono logicamente ritenersi sottratti all'obbligo di motivazione sancito dalla L. n. 241 del 1990, art. 3: si tratta infatti di atti in cui la motivazione è affatto irrilevante, decisivo essendo soltanto che il comportamento dell'ente si sia uniformato o meno al vincolo obbligatorio che, in presenza dei presupposti di fatto, sorge direttamente dalla legge. Ed è per ciò che questa Corte ha da tempo affermato che, stante l'indifferenza del procedimento amministrativo rispetto alla consistenza della sua situazione soggettiva, l'assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi della relativa obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale su una carente o insufficiente motivazione del provvedimento di diniego della prestazione, potendo semmai in tali casi, ricorrendone in concreto i presupposti, far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni eventualmente cagionatigli dal comportamento dell'ente medesimo (così, espressamente, Cass. n. 2804 del 2003, cit., cui hanno dato seguito, tra le numerose, Cass. nn. 9986 del 2009, 20604 del 2014, 31954 del 2019 e 3556 del 2023, cit.). Si deve piuttosto aggiungere che a diverse conclusioni non è dato pervenire nemmeno considerando gli arresti con cui questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha affermato la sussistenza, in capo a talune Casse preposte alla gestione della previdenza dei professionisti, della potestà di accertare autonomamente che l'esercizio della corrispondente professione non sia stato svolto in situazioni di incompatibilità che determinino la cessazione dall'iscrizione (così Cass. S.U. n. 2612 del 2017, con riguardo alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Dottori Commercialisti, e Cass. n. 8146 del 2017, con riferimento alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza per Geometri): in dette pronunce, infatti, lungi dall'attribuire rilievo alla previsione, dianzi richiamata, della L. n. 241 del 1990, art. 21-nonies, che appare prima facie incompatibile con l'anzidetta ricostruzione del rapporto giuridico previdenziale, si è piuttosto affermato che, in mancanza di specifiche norme procedimentali che disciplinino l'esercizio della potestà di accertamento dell'insussistenza di cause d'incompatibilità, il diritto dell'assicurato di prendere visione degli atti del procedimento, di presentare memorie scritte e documenti che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento nonché l'obbligo dell'ente di dare notizia dell'avvio del procedimento mediante comunicazione personale all'interessato e di motivare il provvedimento finale ben possono essere desunti in via analogica dalle corrispondenti previsioni generali della L. n. 241 del 1990, trattandosi di norme preordinate a che il procedimento amministrativo si svolga in contraddittorio con l'interessato.
Così dovendosi ricostruire la fattispecie, risulta evidente l'inconferenza dell'ulteriore profilo di doglianza concernente la mancata applicazione del D.P.R. n. 818 del 1957, art. 8: è sufficiente al riguardo ricordare che la disposizione in esame, secondo la quale debbono essere accreditati agli effetti del diritto alle prestazioni assicurative i contributi indebitamente versati allorché l'accertamento dell'indebito versamento intervenga dopo oltre cinque anni, ha carattere eccezionale e presuppone sempre, per la sua applicabilità, l'esistenza di un valido rapporto di assicurazione generale obbligatoria con l'INPS, onde essa non può essere invocata al di fuori della possibilità di istituire regolarmente o protrarre legittimamente un tale rapporto, quand'anche abbia avuto luogo per qualsiasi causa un versamento di contributi all'indicato istituto (Cass. n. 13919 del 2001, cui hanno dato seguito, tra le più recenti, Cass. nn. 15079 del 2008, 64 del 2009 e 18314 del 2019).
Parimenti infondato è il secondo motivo.
Va premesso, al riguardo, che con sentenza n. 65 del 1962 la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità costituzionale del R.D. n. 1949 del 1940, artt. 4 e 5, nella parte in cui, ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli agricoltori e dai lavoratori dell'agricoltura per le assicurazioni sociali e per gli assegni familiari, prevedevano che essi andassero commisurati al presunto impiego di mano d'opera per come individuato dalla Commissione provinciale per tutta la provincia o per zone della provincia stessa sulla base del numero delle giornate di lavoro occorrenti annualmente su un ettaro di terreno: ad avviso del giudice delle leggi, infatti, tale sistema, oltre a tradire il principio enunciato nella delega conferita dal R.D.L. n. 2138 del 1938 (conv. con L. n. 739 del 1939), che intendeva piuttosto commisurare i contributi sulla base dell'impiego di mano d'opera per ogni azienda agricola, si poneva altresì in contrasto con l'art. 3 Cost., dal momento che dava luogo a sperequazioni fra province e province, zone e zone, aziende e aziende, datori di lavoro e datori di lavoro, lavoratori e lavoratori, e comportava altresì svantaggi a carico degli imprenditori che usavano mezzi più moderni di coltura e degli effettivi lavoratori agricoli nei confronti dei lavoratori appartenenti ad altri settori produttivi o di persone non appartenenti ad alcun settore. A seguito di tale pronuncia, intervenne pertanto il legislatore, che - nelle more di una disciplina della determinazione dei contributi dovuti per i lavoratori agricoli che fosse commisurata alle giornate effettivamente lavorate - si premurò di dettare, con la L. n. 322 del 1963, art. 1, una speciale disciplina transitoria per il conseguimento delle prestazioni previdenziali, stabilendo che gli elenchi nominativi dei lavoratori in vigore alla data del 25.6.1962 e basati sul criterio dell'ettaro-coltura avrebbero costituito, sino alla fine dell'annata agraria 1964-65 e salva nuova diversa disciplina legislativa della materia, titolo valido per il conseguimento delle prestazioni da parte dei lavoratori medesimi, prevedendo altresì che rimanessero valide le attribuzioni di giornate effettuate per le singole categorie di lavoratori per l'annata agraria 1960-61.
Detto che tale termine fu oggetto di proroghe successive fino alla fine degli anni ‘70 (L. n. 669 del 1979, da ult. ex art. un., che dispose per gli anni 1980 e 1981), rileva qui in particolare la disciplina dettata al riguardo dalla L. n. 334 del 1968: con essa, infatti, si previde da un lato la proroga al 31.12.1969 delle disposizioni della L. n. 322 del 1963, art. 1, già cit. (art. 1, comma 1), ma contestualmente si ridisciplinò il meccanismo della formazione degli elenchi di variazione concernenti le nuove iscrizioni, le cancellazioni e nuove classificazioni di lavoratori (art. 1, comma 2), prevedendosi, per quanto rileva nella presente vicenda, che le emigrazioni temporanee, purché di durata inferiore a due anni, non avrebbero determinato, di per sé, la cancellazione dagli elenchi nominativi (art. 6, comma 1), purché se ne fosse data comunicazione entro trenta giorni all'ufficio provinciale del servizio per gli elenchi nominativi dei lavoratori e per i contributi unificati in agricoltura; diversamente, si sarebbe proceduto alla cancellazione dagli elenchi, salvo che si fosse trattato di emigrazione inferiore al biennio (art. 6, comma 2).
Ciò posto, non è punto controverso che l'odierna ricorrente si sia allontanata dal territorio nazionale dal 24.4.1967 al 30.7.1971, prestando lavoro extra-agricolo per circa due anni in Germania, senza dare alcuna comunicazione agli uffici competenti: la questione agitata nel motivo in esame concerne piuttosto l'applicabilità alla sua vicenda delle disposizioni previste dalla L. n. 334 del 1968, art. 6, che ella contesta sul rilievo che non riguarderebbero i lavoratori iscritti negli elenchi a validità prorogata e comunque non potrebbero disciplinare fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore.
Entrambi gli assunti sono tuttavia privi di base normativa. I lavoratori iscritti negli elenchi a validità prorogata, infatti, pur differenziandosi dagli altri lavoratori agricoli per ciò che concerne il titolo della loro iscrizione negli elenchi, non possono considerarsi estranei alla più ampia disciplina dettata per la formazione degli elenchi e, in particolare, per le cause generali di cessazione dall'iscrizione: fermo restando che non vi sono nelle norme in esame indici testuali che possano suggerire un'interpretazione del genere, è sufficiente al riguardo rilevare che essa si porrebbe chiaramente in contrasto con il principio di eguaglianza formale di cui all'art. 3 Cost., comma 1, dal momento che attribuirebbe ai lavoratori iscritti negli elenchi a validità prorogata un ulteriore trattamento di favore rispetto a tutti gli altri lavoratori addetti all'agricoltura.
Ciò posto, deve anzitutto riconoscersi che affatto correttamente i giudici territoriali hanno ritenuto applicabile l'istituto della cancellazione anche ai lavoratori iscritti negli elenchi a validità prorogata: la tesi contraria propugnata in ricorso, secondo cui il meccanismo delle cancellazioni già previsto dalla L. n. 322 del 1963, art. 1, commi 4 e 5, e poi ridisciplinato dalla L. n. 334 del 1968, art. 1, comma 2, riguarderebbe solo i nuovi iscritti, poggia sull'erroneo convincimento che la legge abbia disposto un'iscrizione immodificabile, mentre - come risulta chiaramente dal disposto della L. n. 322 del 1963, art. 1, comma 1 - essa ha semplicemente previsto un'ultrattività degli elenchi precedenti alla declaratoria d'illegittimità costituzionale del R.D. n. 1949 del 1940, artt. 4 e 5, che erano stati redatti sulla base delle giornate attribuite a ciascun iscritto in virtù del criterio dell'ettaro-coltura. Se ciò è vero, risulta evidente che anche ai lavoratori iscritti negli elenchi a validità prorogata debbono potersi applicare le previsioni dettate dalla L. n. 334 del 1968, art. 6, circa la perdita del beneficio dell'iscrizione in caso di emigrazione protrattasi oltre un biennio: fermo restando che in capo alla ricorrente non poteva predicarsi alcun onere di comunicare all'ufficio competente la propria emigrazione entro il termine di trenta giorni dall'evento, per come previsto dalla L. n. 334 del 1968, art. 6, comma 2, essendo ella già emigrata alla data di entrata in vigore della legge cit., non può nei suoi confronti non trovare applicazione la previsione dell'art. 6, comma 1, di tale legge, che prevede la cancellazione dagli elenchi nel caso in cui l'emigrazione si sia protratta oltre un biennio: il principio d'irretroattività di cui all'art. 11 prel. c.c. impedisce bensì che una norma possa trovare applicazione a rapporti esauriti prima della sua entrata in vigore o a rapporti ancora in essere allorché incida sull'efficacia originaria del fatto che li ha generati, ma non impedisce certo che trovi applicazione, oltre che alle situazioni e ai rapporti sopravvenuti, a situazioni e rapporti già in essere al momento della sua entrata in vigore, purché suscettibili di considerazione e disciplina autonoma prescindendo dal loro fatto generatore (giurisprudenza costante fin da Cass. S.U. n. 2926 del 1967: v., tra le numerose successive, Cass. nn. 2433 del 2000, 16620 del 2013, 16039 del 2016).
Dovendo pertanto ritenersi che, una volta decorso un biennio dalla data di entrata in vigore della L. n. 334 del 1968, art. 6, l'odierna ricorrente aveva perduto il diritto all'iscrizione negli elenchi a validità prorogata e non poteva conseguentemente più invocare la diversa disciplina del D.L. n. 791 del 1981, art. 14 (conv. con L. n. 54 del 1982), il ricorso va conclusivamente rigettato, nulla disponendosi sulle spese di lite ex art. 152 att. c.p.c., la ricorrenza dei cui presupposti è stata accertata dalla sentenza impugnata.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2023