SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con decreto del 17.10.15 il P.m. citava a giudizio Ca. Gi. per il reato in epigrafe indicato.
All'udienza del 17.2.16, regolarmente costituite le parti, veniva dichiarata l'assenza dell'imputato.
Aperto il dibattimento i mezzi di prova venivano ammessi in conformità alle richieste di parte e, su consenso della Difesa e del P.m., si acquisiva ai fini della decisione l'informativa di reato del 12.5.14 e il modello IVA 2011 allegato. Rilevato che l'ammontare contestato risultava inferiore alla soglia di euro 250.000 prevista dall'art. 10 ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, così come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., questo Giudice invitava le parti alla discussione, le cui conclusioni sono in epigrafe riportate. S'impone l'assoluzione di Ca. Gi. per il reato contestato. Giova preliminarmente ripercorrere i tratti salienti delle modifiche, stratificate nel tempo, alla disciplina prescritta dall'art. 10 ter.
La soglia limite di responsabilità penale originariamente prevista era di euro 50.000 per ciascun periodo d'imposta. Tuttavia, con d.lgs. n. 158 del 2015 essa è stata innalzata ad euro 250.000 al fine di andare incontro alle problematiche di ragionevolezza e coordinamento che avevano portato la Corte costituzionale a dichiarare l'illegittimità costituzionale della formulazione originaria "nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo d'imposta, ad euro 103.291,30 euro".
Infatti, con sentenza n. 80 del 2014, operando una comparazione tra la norma in esame e quella prescritta dal d.lgs. n. 74 del 2000 agli artt. 4 e 5, in materia di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione, la Corte ha ritenuto sussistente una manifesta sperequazione censurabile in forza del principio di ragionevolezza distillato nell'art. 3 della Costituzione. La discrasia era evidente per importi evasi che si stabilissero tra il plafond prescritto dall'art. 10 bis d.lgs. cit. (50.000 euro) e quelli di cui agli artt. 4 e 5 del medesimo testo normativo. Infatti, anteriormente alle modifiche legislative intervenute nel 2011, l'art. 5 cit. prevedeva una sanzione penale nel caso di evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto superiore a 77.468,53 euro, qualora non fosse stata possibile una determinazione della base imponibile mediante auto-accertamento per omessa dichiarazione dei redditi. Di conseguenza un'evasione per un ammontare che eccedesse i 50.000 euro ma si ponesse al di sotto dei 77.468,53 euro, andava incontro ad una repressione di natura penale solo ai sensi dell'art. 10 ter, nonostante fosse maggiormente stigmatizzabile la condotta di chi non avesse comunque presentato la relativa dichiarazione dei redditi, evadendo comunque l'imposta. Analoga discrasia era ravvisabile nel raffronto dell'art. 10 ter con l'art. 4, la cui punibilità penale avrebbe richiesto che l'imposta evasa fosse superiore a 103.291,38 euro, con la irragionevole conseguenza che, laddove l'I.V.A. evasa si fosse collocata tra i 50.000 e i 103.291,38 euro, veniva inspiegabilmente avvantaggiato il contribuente che avesse presentato una dichiarazione non veritiera, benché avesse posto in essere una condotta più grave di colui che, pur contribuendo alla determinazione della base imponibile mediante la presentazione della dichiarazione, sarebbe stato esente da sanzioni penali. In buona sostanza, le condotte di cui agli artt. 4 e 5 cit., pur tali da rendere più difficoltoso l'accertamento dell'evasione, sarebbero state sanzionate penalmente solo nel caso in cui fossero stati superati dei tetti di non punibilità di gran lunga più elevati di quello prescritto dall'art. 10 ter, la cui fattispecie si caratterizza per un'autoliquidazione del contribuente. La Corte costituzionale, pur prendendo atto dell'intervento del legislatore avvenuto con d.l. n. 138 del 2011, art. 2, comma 36 vicies semel, volto a porre rimedio a tale discrasia riducendo la soglia di non punibilità di cui all'art. 4 ad euro 50.000 e dell'art. 5 ad euro 30.000, non ha risparmiato censure alla disciplina in questo modo applicabile, laddove prescriveva che le suddette modifiche operassero per i soli fatti successivi al 17 settembre 2011, data di entrata in vigore della predetta legge, giacché sarebbe rimasto il vulnus d'incostituzionalità per i fatti commessi prima del suindicato dies a quo. Ne è discesa la pronuncia d'incostituzionalità volta a porre rimedio alla manifesta disparità di trattamento che continuava a persistere per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge di modifica, mediante una sentenza che appare a tutti gli effetti assumere i canoni di una pronuncia additiva allorché allinea la soglia di non punibilità di cui all'art. 10 ter alla più alta rispetto a quelle prescritte dagli artt. 4 e 5, e pari ad euro 103.291,38. L'innalzamento operato con d.lgs. n. 158 del 2015 è stato quindi funzionale ad assicurare una maggiore armonia tra le sanzioni prescritte per le ipotesi di reato richiamate, in ragione del differente disvalore giuridico. Nel caso di specie, dal capo d'imputazione, nonché dagli atti acquisiti su consenso delle parti, emerge che l'IVA non versata per l'anno d'imposta 2010 è equivalente ad euro 114.711,00 dunque inferiore alla nuova soglia prescritta dall'art. 10 ter (euro 250.000). Consegue l'assoluzione dell'imputato per intervenuta depenalizzazione dell'ipotesi contestata. Orbene, il superamento della tesi della natura di condizione obiettiva di punibilità della soglia di rilevanza penale, la quale assurge ad elemento costitutivo del reato, induce a ritenere corretta la formula assolutoria "perché il fatto non sussiste" (cfr. Cass. Pen. n. 3098/16). In ordine alla trasmissione degli atti all'Autorità amministrativa competente sollecitata dal P.m., questo Giudice ritiene di non condividere la tesi desumibile dalla predetta istanza dell'operatività della sanzione amministrativa al caso in esame, dovendo aderire al difforme orientamento giurisprudenziale avvalorato per ben due volte dalle Sezioni Unite.
In dettaglio, con sentenza Sez. U, n. 7394 del 16/03/1994, Ma., si affermò l'insussistenza di un obbligo siffatto fondandosi essenzialmente su due punti:
a) l'inapplicabilità del comma terzo (attualmente quarto) dell'art. 2 cod. pen., sul rilievo che si devono intendere per disposizioni "più favorevoli al reo" solo quelle che fanno rientrare il fatto reato sotto un precetto che configura diversamente il reato stesso o lo assoggetta a una sanzione più mite, ma pur sempre penale, anche sotto il solo aspetto degli effetti penali;
b) la natura di eccezioni degli artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981 al divieto di retroattività e, quindi, nel caso di violazioni non ricomprese nella legge n. 689 del 1981, la necessità di altri sussidi normativi per attribuire alla condotta depenalizzata rilevanza retroattiva sotto il profilo amministrativo.
Tale principio di diritto è stato reiteratamente sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità e, tra le decisioni più significative, possono ricordarsi:
- Sez. 3, n. 1401 dei 15/12/2011, dep. 17/01/2012, Cl. (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all'art. 22 della legge 15 febbraio 1963, n. 281 [immissione in commercio e distribuzione per il consumo di mangimi non rispondenti alle prescrizioni di legge o non conformi alle dichiarazioni, indicazione e denominazioni], operata dalla legge 3 febbraio 2011, n 4);
- Sez. 3, n. 1400 del 15/12/2011, dep. 17/01/2012, Zh. (relativa alla sopravvenuta depenalizzazione del reato di cui all'art. 11, comma primo, d.lgs. n. 313 del 1991 [immissione in commercio di giocattoli privi della certificazione di conformità CE], operata dal d.lgs. n. 54 del 2011);
- Sez. 4, n. 41564 del 26/10/2010, Os., e n. 38692 dei 28/09/2010, L. Ma. (relative alla sopravvenuta depenalizzazione, limitatamente all'ipotesi prevista dall'art. 186, comma 1, lett. a), cod. strad., del reato di guida sotto l'influenza dell'alcol ad opera della legge n. 120 del 2010 [disposizioni in materia di sicurezza stradale]);
- Sez. 5, n. 21064 del 05/03/2004, D. Ma. (relativa all'abolito criminis del reato di impedito controllo della gestione sociale, originariamente previsto dall'art. 2623, n. 3, cod. civ., ad opera dell'art. 2625 cod. civ., introdotto dal d.lgs. n. 61 del 2002, il quale prevede che la condotta di impedito controllo, quando non abbia cagionato danno ai soci, sia punita con sanzione pecuniaria amministrativa);
- Sez. 3, n. 2640 del 15/12/1997, dep. 28/02/1998, Br. (relativa alla depenalizzazione attuata, in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, dalla legge n. 172 del 1995);
- Sez. 1, n. 4678 del 23/09/1996, Gi. (relativa alla sopravvenuta trasformazione nell'illecito amministrativo previsto dall'art. 180, comma 8, cod. strad. [inottemperanza all'ordine di presentarsi all'autorità di polizia per esibire documenti o per fornire informazioni in merito alla disponibilità di un veicolo], prima integrante il reato previsto dall'art. 650 cod. pen.);
- Sez. 3, n. 2724 del 21/06/1996, Ta. (relativa all'intervenuta depenalizzazione della condotta di rilascio di scarichi civili e fognari in epoca anteriore al 17 marzo 1995 [d.l. 17 marzo 1995, n. 79, convertito con modificazioni dalla legge 17 maggio 1995, n. 172]);
- Sez, 4, n. 9814 del 19/05/1994, Ur. (relativa alla violazione, sanzionata dal previgente codice della strada del 1953, di sorpasso di un veicolo in corrispondenza di un dosso, oggi sanzionata solo amministrativamente a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 285 del 1992 [nuovo codice della strada]);
- Sez. 3, n. 4135 del 19/01/1994, An. (relativa alla depenalizzazione di reati finanziari disposta con l'art. 2 della legge 28 dicembre 1993, n. 562, di modifica dell'art. 39 della legge 24 novembre 1981, n. 689).
Il contrasto giurisprudenziale, però, è sorto in seguito ad una ulteriore decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 1327 del 27/10/2004, dep. 19/01/2005, Li Calzi), che ha affermato l'opposto principio secondo il quale “In caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, la Corte di Cassazione dispone sempre la trasmissione degli atti all'autorità amministrativa competente, in forza della disposizione di carattere generale di cui all'art. 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689"
Sennonché, con sentenza Sez. U, n. 25457 del 29/03/2012 - dep. 28/06/2012, Ca. Ru., Rv. 252694, il Supremo Consesso, riprendendo le argomentazioni della sentenza Ma., ha precisato che "nel caso in cui l'autorità giudiziaria pronunzi sentenza assolutoria perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato non ha l'obbligo di rimettere gli atti all'autorità amministrativa competente a sanzionare l'illecito amministrativo allorquando la normativa depenalizzata non contenga norme transitorie analoghe a quelle di cui agli art. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione”.
Nella fattispecie, al netto della formula assolutoria ritenuta più adeguata e derivante dalla peculiarità della norma in esame, devono trovare applicazione i principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata; infatti, in assenza di una disciplina transitoria, l'avvenuta depenalizzazione delle ipotesi di evasione inferiori ad euro 250.000 non consente l'applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative alle ipotesi realizzate in epoca antecedente, non trovando a tal fine applicazione né l'art. 2 co. 4 c.p., in ordine alla retroattività della norma più favorevole, né tantomeno l'art. 40 della legge n. 689 del 1981.
Il carico di lavoro dell'Ufficio è causa del termine indicato in dispositivo per il deposito dei motivi.
P.Q.M.
Letto l'art. 530 c.p.p., assolve Ca. Gi. dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste.
Fissa in giorni 30 per il deposito dei motivi.
Aversa, 17.2.16
Depositata in cancelleria il 22/02/2016.