RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10 marzo 2016, ha condannato P.F. alla pena di un anno di reclusione ed alle pene accessorie di cui al medesimo D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12, ritenuta la continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, con la sospensione condizionale della pena, per i delitti ex art. 81 cpv. c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, perchè nella sua qualità di legale rappresentante e liquidatore della (OMISSIS) S.p.a. con sede legale in (OMISSIS), non ha versato entro i termini previsti per il versamento degli acconti relativi ai periodi di imposta successivi, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alle dichiarazioni annuali, presentate per gli anni 2009 e 2010, pari rispettivamente a Euro 694.356,00 ed Euro 1.086.413,00, con fatti commessi rispettivamente in (OMISSIS).
Ai sensi dell'art. 12 bis, del citato D.Lgs., è stata peraltro disposta la confisca nei confronti della (OMISSIS) S.p.a. della somma di Euro 1.780.769,00 in quanto profitto dei reati contestati.
Il Tribunale di Roma ha altresì assolto P.F. per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, perchè il fatto non sussiste.
1.1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza dell'8 gennaio 2018, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, ha concesso all'imputato l'ulteriore beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale del casellario giudiziale, ed ha confermato nel resto la sentenza di primo grado.
2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato P.F..
Si premette che gli elementi a carico dell'imputato sono stati tratti dalla Guardia di Finanza dalla proposta di transazione fiscale L. Fall., ex art. 182 ter, esibita spontaneamente da P.F., quale liquidatore della (OMISSIS) S.p.a., senza che fossero svolte ulteriori indagini.
2.1. Dopo aver ricostruito l'iter del processo, riportato i motivi di appello e parte della motivazione della sentenza impugnata, con il primo motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione, sia in relazione al principio della presunzione di innocenza di cui all'art. 27 Cost., sia con riferimento al principio dell'onere della prova a carico dell'accusa; la Corte di appello avrebbe altresì erroneamente interpretato il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6.
Richiamando la copiosa giurisprudenza di legittimità e stante il disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, il ricorrente, facendo leva sul principio per cui ai fini della prova della colpevolezza dell'imprenditore che effettui cessioni di beni mobili, ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, si debba verificare e tenere conto dell'effettiva percezione del prezzo della merce venduta e della quota parte dell'Iva, lamenta l'erronea motivazione della Corte territoriale che avrebbe desunto l'obbligo di corresponsione dell'Iva non tanto dal momento della consegna-spedizione della merce, ma quanto da quello del pagamento della stessa.
Peraltro, ad avviso della difesa, i Giudici di merito avrebbero supposto in maniera del tutto apodittica che la (OMISSIS) S.p.a. avesse percepito effettivamente le somme destinate al pagamento dell'Iva e che il mancato versamento delle medesime all'erario sarebbe stata una scelta imprenditoriale per fronteggiare la crisi di liquidità. In ragione di ciò, sarebbe del tutto illogico e mai comprovato considerare che le somme confiscate siano il profitto dei reati contestati.
Infine, si contesta come non potesse attribuirsi all'odierno ricorrente un onere di prova ulteriore riguardo all'effettività dei pagamenti in questione, perchè sarebbe compito dell'accusa provare che il mancato versamento dell'Iva derivi da un mancato accantonamento delle somme percepite.
3. Con il secondo motivo si deduce la mancanza o l'apparente motivazione del provvedimento impugnato sull'istanza di incostituzionalità proposta nei motivi di appello, del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 bis, o della L. n. 244 del 2007, art. 143, comma 1, in relazione all'art. 322 ter c.p., per violazione degli artt. 3,24 e 25 Cost., e art. 111 Cost., comma 2, e per violazione dei principi di autonomia e personalità giuridica fissati dall'art. 2325 c.c., e art. 2331 c.c., comma 1.
Si ripropone la questione di legittimità costituzionale della norma che prevede la confisca estensibile all'ente, laddove non sia consentito al medesimo ente di partecipare e difendersi nel processo penale instaurato, D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10 ter, nei confronti della persona del suo legale rappresentante.
Inoltre, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nell'infliggere il provvedimento di confisca nei confronti della (OMISSIS) S.p.a., essendo la ditta soggetto terzo estraneo al processo penale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
1.1. Deve infatti rilevarsi che gli importi dell'Iva non versati sono quelli che risultano dalle dichiarazioni Iva presentate dal ricorrente quale legale rappresentante della s.p.a. (OMISSIS).
E' proprio dalla presentazione della dichiarazione annuale, effettuata dal ricorrente, che emerge quanto è dovuto a titolo di imposta.
1.2. Come affermato da Cass. Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017, dep. 2018, Strada, Rv. 272552 - 01, ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell'IVA di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 ter, l'entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili.
Non rileva neanche, per ragioni di tipicità, se l'importo relativo all'Iva sia stato effettivamente incassato.
La sentenza Strada ha pertanto affermato che il debito erariale non deve risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio: il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale. La presentazione della dichiarazione, infatti, costituisce un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato (in questo senso, espressamente, Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, in motivazione; nonchè Sez. 3, n. 6293 del 14/01/2010, n. m.), tant'è che l'autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l'oggetto della condotta omissiva è esattamente (ed esclusivamente) il debito dichiarato, non quello risultante aliunde (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, secondo cui la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto à titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto).
Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato (superiore alla cd. "soglia") con quello che risulta dalla contabilità dell'impresa (in ipotesi ad essa inferiore) non ha perciò alcuna rilevanza posto che, come già rilevato, la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non è strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato. Le discrasie tra il debito erariale dichiarato e quello effettivo hanno il proprio terreno elettivo nei reati in materia di dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2,3 e 4, i quali ben possono concorrere con quello di cui all'art. 10 ter.
1.3. Va poi ribadito il principio affermato da Cass. Sez. 3, n. 38594 del 23/01/2018, M., Rv. 273958 - 01, per cui, in tema di reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, l'emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all'obbligo di versare comunque la relativa imposta sicchè egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura nè lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell'elemento soggettivo.
2. Il secondo motivo è inammissibile per difetto di legittimazione.
Il ricorso è stato infatti proposto in proprio dall'imputato, non nella qualità di legale rappresentante della società; per altro la società è terza sicchè ai sensi dell'art. 100 c.p.p., sarebbe stato necessario il conferimento della procura speciale per la proposizione del ricorso.
3. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 18 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2019