SVOLGIMENTO DEL PROCESSO e MOTIVI DELLA DECISIONE
Con decreto del 14 ottobre 2014 il PM citava a giudizio S.G. per rispondere del delitto in epigrafe indicato. All'udienza del 19 gennaio 2015, assente l'imputato, il difensore prestava istanza di rinvio con sospensione dei termini della prescrizione per valutare la riunione ad altro procedimento pendente dinanzi alla scrivente. All'udienza del 25 maggio 2015 il difensore richiedeva la concessione di un rinvio con sospensione dei termini della prescrizione per munirsi di procura speciale ed eventualmente accedere a riti alternativi. All'udienza del 15 giugno 2015 il difensore rappresentava l'invio di richiesta all'UEPE per redigere il programma di messa alla prova e chiedeva, dunque, ulteriore rinvio con sospensione dei termini della prescrizione affinchè l' UEPE redigesse ed inviasse il relativo programma. All'udienza del 17 luglio 2015 il difensore chiedeva ulteriore rinvio con sospensione dei termini della prescrizione per verificare l'intervenuta o meno redazione del programma. All'udienza del 14 settembre 2015 il difensore, considerando la mancata ricezione del programma di prescrizioni adottate dall'UEPE per detta data, presentava analoga richiesta. All'udienza del 28 settembre 2015 il difensore prospettava analoghe difficoltà e presentava eguale richiesta di rinvio con sospensione dei termini. All'udienza del 12 ottobre 2015, pervenuto il programma dall'UEPE, rilevato il parere negativo del PM, la scrivente rigettava la richiesta con ordinanza allegata al verbale d'udienza e dichiarava aperto il dibattimento, rinviando per le formulazione delle richieste istruttorie. All'udienza del 26 ottobre 2015 venivano ammesse le prove richieste dalle parti. All'odierna udienza, esaminato il funzionario dell'Agenzia delle Entrate P.D., esaminato l'imputato, indicati gli atti utilizzabili per la decisione, sentite le conclusioni delle parti, la scrivente ha deciso dando lettura della presente sentenza.
Emerge dalla testimonianza del funzionario della Agenzia delle Entrate che il prevenuto, nella veste di legale rappresentante della "A. Società C. ARL", presentava telematicamente la dichiarazione annuale ai fini iva in relazione all'anno di imposta 2010 in cui riconosceva un debito iva nei confronti dell'Erario pari ad € 273.380,00, importo che doveva essere versato entro il 27 dicembre 2011. Orbene detto importo non è stato versato entro il termine indicato.
Invero il momento consumativo del reato è individuato alla scadenza del termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo.
Tale termine è fissato dalla L. n. 405 del 1990, art. 6, comma 2, al 27 dicembre. Conseguentemente per la consumazione del reato non è sufficiente un qualsiasi ritardo nel versamento rispetto alla scadenze previste, ma occorre che l'omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione si protragga fino al 27 dicembre dell'anno successivo al periodo d'imposta di riferimento. Nella fattispecie al 27 dicembre del 2011.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno precisato, all'esito di un'approfondita disamina della normativa tributaria in materia, in tema di elemento soggettivo, che il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico (Sez. Unite, n. 37424 del 28.3.2013, Romano, rv. 255758).
Mentre, invero, molte delle condotte penalmente sanzionate dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter.
Per la commissione del reato basta, dunque, la coscienza e volontà di non versare all'Erario riva incassata nel periodo considerato entro il 27 dicembre dell'anno successivo. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di punibilità, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore.
La prova del dolo - hanno condivisibilmente affermato le SS.UU. nella sentenza n. 37424/13 - è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia di punibilità, entro il termine lungo previsto.
Il principale tema esposto dal difensore all'odierna udienza in sede di conclusioni riguarda la crisi di liquidità della società, su cui ha riferito l'imputato. Egli ha riferito che la società non riusciva con i compensi ricevuti per le prestazioni effettuate a far fronte ai costi di gestione tanto che si vide costretto, anche a causa del contegno tenuto dai dipendenti, a decidere di pagare le retribuzioni piuttosto che le imposte.
Va innanzi tutto precisato che la crisi di liquidità va provata con le scritture contabili e non attraverso vaghe e generiche dichiarazioni per lo più rese dall'imputato. Pertanto, l'allegazione difensiva è sicuramente inidonea a dimostrare la sussistenza della situazione di crisi. Va aggiunto che il tema è stato oggetto di più sentenze della Suprema Corte di Cassazione, la quale ha condivisibilmente chiarito che: "Per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l'intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto. Quando il legislatore ha voluto attribuire all'elemento soggettivo del reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo espresso, escludendo, per esempio, dall'area della penale rilevanza le condotte solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l'evento (art. 323 c.p., artt. 2621,2622 e 2634 c.c., D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39. art. 27, comma 1), incriminando, invece, quelle ispirate da un'intenzione che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico), attribuendo rilevanza allo scopo immediatamente soddisfatto con la condotta incriminata (per es., art. 424 c.p.), assegnando al momento finalistico della condotta stessa il compito di individuare il bene offeso (artt. 393 e 629 c.p., artt. 416,270,270-bis e 305 c.p., art. 289-bis, 630 e 605 c.p.). Il dolo del reato in questione è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato. La scelta di non posare prova il dolo: i motivi della scelta non lo escludono.
L'oggettiva impossibilità di adempiere può avere rilevanza solo se dovuta a causa di forza maggiore che, come noto, esclude la suitas della condotta.
Secondo l'impostazione tradizionale, è la "vis cui resisti non potest", a causa della quale l'uomo "non agit sed agitar" (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855). Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell'evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell'evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all'assoluta ed incolpevole impossibilità dell'agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv. 142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191). Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente, la Suprema Corte ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez. 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822). Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856). Ne consegue che:
a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta;
b) la mancanza di provvista necessaria all'adempimento dell'obbigazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità:
c) non si può invocare la forza maggiore quando l'inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità;
d) l'inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 8352 del 2015). In conformità, già la sent. n. 20266 del 2014 chiariva che gli spazi per ritenere l'assenza dell'elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità appaiono, all'evidenza, oggettivamente ristretti.
Va evidenziato che nell'ormai ricorrente casistica dei motivi dell'illiquidità che si assume essere incolpevole e che si chiede poter scriminare il mancato pagamento di tributi all'Erario vengono per lo più sottoposte all'attenzione dei giudicanti, insieme o in alternativa:
a) l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti:
b) l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società:
c) la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato. Ebbene, nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex se l'invocato stato di necessità ex art. 54 c.p.. Non lo è, in primis, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. L'art. 54 c.p., esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che con l'espressione "danno grave alla persona", il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana (cfr. sul punto la già citata sentenza di questa sez. 3 n. 1541674).
Pur essendo dunque fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell'art. 54 c.p. (cfr. sul punto sez. 1,23 gennaio 1997, n. 4323, P.M. in proc. Baiocco ed altri, rv. 207434). Analogamente nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, in ogni caso, dalla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall'Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perché il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Er. proprio in relazione ai crediti tributari, sia perché la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l'ipotesi di forza maggiore sopra delineata.
In ultimo, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente pubblico, laddove l'interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per la prestazione di servizi. La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei crediti che l'interessato può addurre nei confronti dello Stato o dell'ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d'impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l'obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l'Erario.
Va chiarito che la scrivente ritiene che tale assunto non sia incompatibile con la più recente precisazione fornita dalla stessa Suprema Corte secondo cui non è escluso che, in astratto, siano possibili casi - il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato - nei quali possa invocarsi l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria (così sez. 3 n. 10813 del 6.2.2014, Servida, non massim.; conf. la cit. sez. 3, n. 5467 del 5.12.2013 dep. il 4.2.2014, Mercutello, rv. 258055).
È tuttavia necessario, perché in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario). In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa e non consolidata crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, Sentenza n. 8352 del 2015; Sez. 3,9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, Sentenza n. 5467 del 2014).
Nel caso de quo nessuna di queste condizioni è stata provata.
Pertanto il prevenuto va condannato per il reato contestatogli.
Non si ravvisano motivi per concedere le attenuanti generiche.
Ex art. 133 c.p., si stima equo irrogare la pena di mesi sei di reclusione.
Vanno altresì applicate le pene accessorie ex art. 12 D.Lgs. n. 74 del 2000 nei seguenti termini:
1) l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo di sei mesi;
2) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno;
3) l'interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per il periodo di un anno;
4) l'interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria;
5) la pubblicazione della presente sentenza a norma dell'art. 36 c.p. per la durata di venti giorni.
Si può concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena ritenendo che il prevenuto si asterrà dal commettere ulteriori reati.
P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara S.G. colpevole del delitto ascrittogli e lo condanna alla pena di mesi sei di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Vanno altresì applicate le pene accessorie ex art. 12 D.Lgs. n. 74 del 2000 nei seguenti termini:
1) l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo di sei mesi;
2) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per il periodo di un anno;
3) l'interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per il periodo di un anno;
4) l'interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria;
5) la pubblicazione della presente sentenza a norma dell'art. 36 c.p. per la durata di venti giorni.
Pena sospesa alle condizioni di legge.
Motivazione contestuale.
Così deciso in Bari, il 22 febbraio 2016.
Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2016.