RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 17 giugno 2022, la Corte di appello di Messina confermava la sentenza del 23 giugno 2021, con la quale il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva condannato R.F. alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi 4 di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all'art. 10 ter del D.Lgs. n. 74 del 2000, a lui contestato perché, quale legale rappresentante della società "(Omissis) s.r.l.", avente sede in (Omissis), non versava, entro il 27 dicembre 2016, termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale riguardante l'anno 2015, per un ammontare pari a Euro 568.848; in Barcellona Pozzo di Gotto in data 28 dicembre 2016. Con la medesima sentenza, veniva disposta la confisca della somma di Euro 568.848, corrispondente al profitto del reato.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello peloritana, R., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con il primo, la difesa deduce l'erronea applicazione dell'art. 45 c.p., non avendo la Corte di appello tenuto conto della comprovata e grave crisi di liquidità dell'impresa di R. e della conseguente impossibilità per l'imputato di far fronte ai debiti erariali, avendo il ricorrente documentato che l'azienda da lui amministrata aveva subito, negli anni precedenti al 2015, rilevanti perdite su crediti che ne avevano minato la struttura finanziaria, a causa dei fallimenti di alcuni clienti, eventi questi ovviamente non riconducibili a R..
Del resto, era stata fornita prova documentale in ordine alla sospensione dei fidi bancari e all'apposizione di ipoteche da parte del concessionario sui beni immobili aziendali, per cui l'imputato non avrebbe potuto fare ricorso all'indebitamento bancario o alla vendita dei beni immobili della società per corrispondere quanto dovuto all'Erario, mentre le istanze di rateizzazione, unitamente ai pagamenti, proverebbero la volontà dell'imputato di usare le liquidità a disposizione per ripianare i debiti fiscali per gli anni precedenti.
Alla luce della riduzione del fatturato, dell'impossibilità di accedere al sistema bancario e dell'avvenuto pagamento delle rate relative alle annualità precedenti, alcuna ulteriore condotta era dunque esigibile da parte di R., tanto più ove si consideri che le perdite subite negli anni antecedenti al 2015, pari a oltre 700.000 Euro, erano destinate a riverberarsi anche negli anni successivi.
Con il secondo motivo, è stata eccepita l'erronea applicazione dell'art. 649 c.p.p., rilevandosi che tale norma, alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale n. 149 del 2022, deve essere interpretata nel senso che un soggetto non può essere sottoposto a un procedimento penale anche nel caso in cui abbia subito un procedimento sanzionatorio in via amministrativa.
Nel caso di specie, la società amministrata dall'imputato ha subito già una sanzione amministrativa pari al 30% dell'imposta evasa, per cui ad essa non potrebbe essere aggiunta anche la sanzione penale per lo stesso fatto.
Con il terzo motivo, è stata dedotta l'erronea applicazione dell'art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, secondo cui si può procedere alla confisca per equivalente solo ove non sia possibile la confisca diretta, il che presuppone che il giudice verifichi la sussistenza dei presupposti per procedere in questo senso.
Tale valutazione sarebbe stata del tutto pretermessa dal Tribunale e la Corte di appello, nel tentativo di porre rimedio a tale lacuna motivazionale, ha indebitamente richiamato profili non decisivi, come la sussistenza di iscrizioni ipotecarie sugli immobili della società o l'assenza di poste attive patrimoniali, mentre l'imputato aveva comprovato la sussistenza di beni che avrebbero potuto essere certamente aggrediti comunque da un provvedimento ablatorio.
Con il quarto motivo, infine, è nuovamente eccepita, stavolta in relazione agli art. 182 bis e 182 ter della legge fallimentare, l'erronea applicazione dell'art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, osservandosi che, se il provvedimento ablatorio venisse confermato, ci si troverebbe nell'assurda situazione per cui la società, che ha beneficiato del risparmio di imposta derivante dall'omesso versamento dell'iva sarebbe legittimata, in virtù della omologa da parte del Tribunale dell'accordo di ristrutturazione del debito con transazione fiscale (in forza del quale la società si è impegnata a corrispondere all'Erario una somma pari al 15% delle imposte dovute fino al 2 settembre 2021), a corrispondere solo una quota parte del debito, mentre il legale rappresentante sarebbe costretto a subire l'ablazione dei propri beni per un importo corrispondente all'intero ammontare del debito fiscale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
1. Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell'imputato non presenta alcun vizio di legittimità.
Deve premettersi al riguardo che non è contestata la sussistenza del reato dal punto di vista oggettivo, essendo pacifico che la "(Omissis) s.r.l.", società amministrata da R.F., non ha versato, entro il 27 dicembre 2016, termine previsto per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale riguardante l'anno 2015, per un ammontare pari a Euro 568.848.
Il tema controverso riguarda piuttosto l'asserita scusabilità della condotta omissiva che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe dipesa da comprovate e insuperabili circostanze indipendenti dalla volontà dell'imputato.
La questione è stata già adeguatamente affrontata dalla Corte di appello, che, sviluppando ulteriormente le considerazioni già espresse dal Tribunale, si è posta sulla scia della consolidata affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Rv. 275967, Sez. 3, n. 20266 dell'08/04/2014, Rv. 259190, e Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Rv. 263128), secondo cui l'imputato può invocare l'assoluta impossibilità di adempiere il debito erariale, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto, occorrendo in definitiva la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
Alla luce di tale premessa, devono escludersi le lacune argomentative dedotte dalla difesa, avendo la Corte di appello rimarcato la mancata prova di eventi straordinari ingestibili e imprevedibili, apparendo piuttosto i fatti dedotti dal ricorrente riconducibili a generali manifestazioni dell'ordinario rischio di impresa. Del resto, ha sottolineato la Corte territoriale (pag. 5 della sentenza impugnata) due terzi delle ipoteche iscritte sugli immobili della società riguardavano pregresse esposizioni debitorie con il Fisco, a nulla rilevando l'esistenza di piani di rateizzazione dei debiti di anni precedenti, mentre l'unica domanda di insinuazione al passivo nei confronti della debitrice "(Omissis) s.p.a." risaliva al 2011 (l'omissione contestata in questa sede riguarda l'annualità 2015) e comunque aveva ad oggetto una somma, pari a 309.000 Euro, inidonea a coprire l'importo non corrisposto a titolo di iva contestato in questa sede; parimenti non è stata ritenuta dirimente la procedura esecutiva subita (pignoramento presso terzi risalente anch'esso al 2011, attivato su iniziativa della società "(Omissis) di R.F."), riferendosi la stessa a debiti per fatture relative a prestazioni svolte dalla società creditrice, non potendo tale vicenda essere considerata come esorbitante dai fisiologici rischi imprenditoriali.
Quanto poi alle misure adottate da R. per far fronte alla crisi di liquidità, la Corte di appello ha sottolineato la genericità delle allegazioni difensive, non comprendendosi dalle stesse quale fosse la reale scopertura bancaria della società gestita da R., desumendosi solo dalla revoca dell'affido da parte del (Omissis) che la stessa derivava proprio dalla notifica all'istituto bancario del pignoramento presso terzi cui ha dato corso l'Erario per i pregressi debiti fiscali.
Da ciò è stata tratta dai giudici di merito la conclusione, non illogica, secondo cui quella di non pagare l'iva è stata una scelta volontaria dell'imputato, che, in assenza di incontrollabili e ingestibili eventi esterni, ha consapevolmente deciso di destinare ad altri scopi le risorse generate dall'incasso dell'imposta dichiarata. In definitiva, a fronte di un percorso motivazionale privo di incongruenze argomentative e coerente con gli indirizzi ermeneutici elaborati in questa materia, non vi è spazio per l'accoglimento delle censure difensive, volte sostanzialmente a suggerire una non consentita rilettura degli elementi probatori, non potendo dunque ritenersi illegittima l'esclusione della causa di forza maggiore dedotta dal ricorrente rispetto al mancato versamento dell'iva.
2. Il secondo motivo è inammissibile sotto un duplice aspetto.
In primo luogo, infatti, occorre rilevare che la questione del ne bis in idem è stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità, non risultando mai dedotta nei due giudizi di merito. A ciò deve poi aggiungersi che, in ogni caso, il presupposto dell'eccezione difensiva è rimasto indimostrato, nel senso che la difesa ha rappresentato genericamente che la società amministrata da R. avrebbe già subito, per l'omesso versamento dell'iva oggetto del presente processo, una sanzione amministrativa pari al 30% dell'imposta evasa, ma tale affermazione è rimasta sfornita di adeguate allegazioni, il che, a prescindere dalla sua tardività, non consente di approfondire nel merito la questione dedotta.
3. Passando alle censure di punto di confisca (terzo e quarto motivo, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sovrapponibili), deve osservarsi che anche rispetto a tale statuizione non si ravvisa alcuna criticità.
Sul punto, in via preliminare, occorre richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816 - 06), secondo cui, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, l'onere motivazionale del giudice che dispone la confisca di valore prevista dall'art. 12 bis del D.Lgs. n. 74 del 2000 di beni dell'imputato, attesa la natura obbligatoria di detto provvedimento, è limitato alla sussistenza dei presupposti legali della sua applicazione, consistenti nella impossibilità di disporre la confisca diretta del profitto o del prezzo del reato nel patrimonio della persona giuridica, nella disponibilità del bene oggetto di confisca per equivalente da parte dell'autore materiale del reato e nella corrispondenza del valore del bene al profitto o al prezzo del reato, dovendosi altresì ribadire (cfr. Sez. 3, n. 3591 del 20/09/2018, dep. 2019, Rv. 275687) che, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente (oltre che la successiva confisca) possono essere disposti nei confronti del legale rappresentate di una società solo nel caso in cui, all'esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nel patrimonio dell'ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo necessaria, tuttavia, ai fini dell'accertamento di tale impossibilità, l'inutile escussione del patrimonio sociale, se vi sono già elementi sintomatici dell'inesistenza di beni in capo all'ente.
3.1. Orbene, la Corte territoriale si è posta in sintonia con tali coordinate interpretative, richiamando, in modo pertinente, sia il riscontro di importanti iscrizioni ipotecarie sul patrimonio della società amministrata da R., sia "la concreta insufficienza, in rapporto all'accertato credito dell'Erario, di poste attive patrimoniali e finanziarie scaturenti dai bilanci societari, peraltro prodotti ex art. 603 c.p.p. dallo stesso appellante"; alla luce di tali risultanze, è stato dunque ragionevolmente ritenuto legittimo l'esecuzione del provvedimento ablatorio per equivalente dei beni della disponibilità dell'imputato.
In presenza di un apparato argomentativo non illogico, non vi è dunque spazio per l'accoglimento delle doglianze difensive, che invero sollecitano un differente apprezzamento di merito che non può trovare ingresso in sede di legittimità.
3.2. Quanto infine all'omologazione dell'accordo di ristrutturazione del debito da parte del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, deve osservarsi che la Corte di appello non ha ignorato l'allegazione difensiva, ma l'ha ritenuta non decisiva, evidenziando, in maniera non errata, che, pure alla luce di tale produzione documentale, non appariva incisa l'entità economica confiscabile, posto che non risultava alcun pagamento, neanche parziale o pro quota annuale, delle somme come riconfermate nell'accordo omologato dal Tribunale (accordo rispetto al quale non sono deducibili in questa sede rilievi di illegittimità o di opportunità), a ciò restando solo da aggiungere che di eventuali riduzioni dell'importo del profitto confiscabile ben potrà tenersi conto nella fase esecutiva, in tal modo scongiurandosi il paventato rischio di duplicazioni di pagamenti all'Erario.
4. Alla stregua di tali considerazioni, il ricorso proposto nell'interesse di R. deve essere quindi rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2023