RITENUTO IN FATTO
1. La corte di appello di Genova, con sentenza del 16 novembre 2020 confermava la sentenza del 15 aprile 2019 del tribunale di Massa, con cui G.L. era stata condannata in relazione al reato di cui al D.Lgs. n.. 74/2000, art. 10 ter.
2. Avverso la suindicata sentenza G.L. propone ricorso, mediante il proprio difensore, sollevando due motivi di impugnazione.
3. Deduce, con il primo, la violazione della legge penale con riguardo all'intervenuto rigetto della sollevata eccezione di incompetenza territoriale del tribunale di Massa, avuto riguardo al luogo dell'intervenuta omissione - da individuarsi in quello della sede effettiva dell'impresa, quale centro prevalente della attività amministrativa e organizzativa - e a dati emergenti da materiale investigativo appositamente riprodotto, che avrebbero fondato l'individuazione del giudice competente nel tribunale di Milano. Si osserva che non potrebbe trovare applicazione, come invece ritenuto dalla corte di appello, l'indirizzo di legittimità secondo cui, a fronte della impossibilità di individuare con certezza il luogo di consumazione del reato contestato, andrebbe applicato il criterio sussidiario del luogo di accertamento del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18 comma 1, prevalente per la sua natura speciale, rispetto alle regole di cui all'art. 9 c.p.p.. Ciò perché, nel caso concreto, tutti gli elementi raccolti dimostrerebbero che qualsivoglia obbligo tributario avrebbe trovato sede non solo nel luogo ove l'attività era effettivamente svolta ma anche ove la società era effettivamente amministrata dall'amministratore di fatto, Tempesta. A tale conclusione sarebbero dovuti giungere i giudici di merito anche in considerazione della connessione esistente, ex art. 12 c.p.p., tra il procedimento pendente dinanzi al tribunale di Massa e quello pendente in Milano. La sussistenza di tale connessione sarebbe stata dimostrata anche dall'uso, da parte della corte di appello, di atti di indagine del procedimento di competenza della autorità giudiziaria di Milano.
4. Con il secondo motivo rappresenta il vizio di contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 234 e 238 c.p.p., per avere la corte fondato il giudizio di responsabilità della ricorrente su elementi di prova parziali, tratti da indagini svolte in diverso procedimento. Si richiama innanzitutto il rilievo di gravame volto alla esclusione del dolo per essersi la ricorrente ritrovata a fronteggiare una situazione di mancanza di liquidità cagionata da altri. E se ne contesta la sua esclusione osservando che la motivazione impugnata fonderebbe il giudizio di responsabilità su atti di indagine compiuti in altro procedimento ancora non definito e prodotti a supporto della eccezione di incompetenza territoriale e non acquisibili né ai sensi dell'art. 234 c.p.p., quali atti provenienti dall'imputato, né ai sensi dell'art. 238 c.p.p., quali verbali di prova di atti non ripetibili. Anche ove se ne volesse ammettere l'utilizzabilità, sarebbe carente e contraddittoria la motivazione, rappresentandosi solo il contenuto parziale dei predetti atti, omettendosi di valorizzare la parte inerente lo stato di crisi della società cagionato in precedenza dal T., autore della distrazione di una liquidità pari a 1 milione di Euro, e così non valutandosi prove a discarico, senza neppure illustrare la ragione della mancata considerazione della crisi di liquidità, quale elemento utile nella valutazione del dolo ascritto all'imputata. Si rappresenta, inoltre, che i giudici avrebbero ricavato la sussistenza del dolo dal contenuto di atti di indagine estranei al processo qui in esame e, quindi, non validamente utilizzabili dai giudici di appello, non essendo riconducibili a prova documentale o a verbale di prova irripetibile o a sentenza irrevocabile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è inammissibile. Quanto innanzitutto all'assunto per cui l'attività effettiva della società avrebbe dovuto essere individuata in Milano, la ricorrente non si confronta integralmente con la motivazione censurata, con particolare riferimento ai rilievi volti ad evidenziare come l'Icotea, società riconducibile alla ricorrente, fosse essenzialmente destinata ad operare come società cartiera, priva di ogni autonomia ed effettività gestionale, al di là della redazione di false fatture, ed a quelli sottolineanti come l'atto costitutivo relegasse in Milano, in ogni caso, solo attività secondarie. Laddove in favore della Samo Frutta s.r.l., lungi dall'effettuare movimentazioni implicanti attività in Milano, l'Icotea si era limitata solo ad assumere in carico personale indicato dalla prima, nel quadro di una somministrazione di lavoratori. Cosicché, a fronte di una motivazione immune da vizi riguardante innanzitutto lo stesso piano argomentativo prospettato dalla ricorrente, inerente il criterio di individuazione della competenza secondo il luogo di effettivo svolgimento dell'attività della società, la censura non si è confrontata appieno, indugiando in una unilaterale valorizzazione di dati, corrispondente a critiche meramente ripetitive di precedenti considerazioni difensive, avulse da ogni dialettica con gli argomenti svolti dalla corte di appello; così incorrendo in un difetto di specificità estrinseca, da intendersi come l'espressa correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata (cfr. Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 Rv.268822, Galtelli). In proposito, va evidenziato come la Corte abbia più volte ribadito la rilevanza, ai fini della ammissibilità del ricorso, della specificità dei motivi del medesimo. Si è così evidenziato che i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili "non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato" (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568) e che le ragioni di tale necessaria correlazione tra la decisione censurata e l'atto di impugnazione risiedono nel fatto che il ricorrente non può trascurare le ragioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425). Ancor più specificamente, si è ritenuto "inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso" (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838). In sintesi, il requisito della "specificità estrinseca" dei motivi risponde alla necessità che il ricorrente formuli una ragionata censura della motivazione del provvedimento impugnato (cfr. Cass. Sez. 2, n. 7801 del 19/11/2013 (dep. 19/02/2014) Rv. 259063 Hussien).
Quanto poi, al richiamo alla connessione ex art. 12 c.p.p., ne va esclusa la portata a fronte della rilevata e incontestata tardività della prospettazione da parte della corte di appello.
Tanto premesso, deve aggiungersi che va condiviso, in punto di determinazione della competenza territoriale, l'indirizzo più di recente affermato da questa Suprema Corte, per cui, in tema di delitto di omesso versamento dell'Iva, ai fini della individuazione della competenza per territorio, non può farsi riferimento al criterio del domicilio fiscale del contribuente, ma deve ricercarsi il luogo di consumazione del reato ai sensi dell'art. 8 c.p.p.; ne consegue che, essendo impossibile individuare con certezza il suddetto luogo di consumazione, considerato che l'obbligazione tributaria può essere adempiuta anche presso qualsiasi concessionario operante sul territorio nazionale, va applicato il criterio sussidiario del luogo dell'accertamento del reato, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 1, prevalente, per la sua natura speciale, rispetto alle regole generali dettate dall'art. 9 c.p.p. (Sez. 3 n. 17060 del 10/01/2019 (dep. 18/04/2019) Rv. 275942 - 01.
2. Inammissibile è anche il secondo motivo. Va premesso che dalla lettura della sentenza di primo grado emerge che le parti hanno espresso consenso all'utilizzazione della cnr del 17.10.216 e relativi allegati, tra cui il P.V.C. del 12.10.2016, la dichiarazione dei redditi per il 2014, una comunicazione della Agenzia delle Entrate inviata il 4 marzo 2016, il riepilogo delle somme dovute, il modello di pagamento delle somme dovute, la documentazione Iva. Da parte sua, la ricorrente lamenta l'utilizzo, ad opera della corte, nell'ambito della contestata motivazione, proprio della predetta CNR, oltre che di un PVC del 27 aprile 2017, rappresentando l'illegittimità del ricorso a tali atti perché prodotti solo a sostegno della eccezione di incompetenza territoriale. Sul punto, quindi, certamente è manifestamente infondata la deduzione di inutilizzabilità della predetta CNR del 17.10.2016, in assenza di specifica e documentata contestazione di quanto riportato nella prima sentenza circa l'intervenuto consenso all'utilizzazione. Laddove, invece, non appare essere rientrato nel predetto accordo utilizzatorio il P.V.C. successivo alla predetta CNR, del 27 aprile 2017; cosicché l'eventuale utilizzo dovrebbe ritenersi impedito, trattandosi di atti di indagine non regolarmente introdotti nel processo in questione.
Tuttavia, dalla lettura della sentenza di primo grado e di quella impugnata, emerge che i dati valorizzati nel merito provengono quanto a CNR e PVC dagli atti oggetto di intervenuto consenso all'utilizzazione, prima citati. Mentre il PVC di constatazione del 27.4.2017, viene richiamato solo in secondo grado e solo per ribadire l'emissione di fatture inesistenti da parte della Icotea nei confronti della Samo Frutta s.r.l., con assunzione, da parte della G., della qualità di indagata in concorso con il T. e P.A., nel procedimento pendente presso la Procura di Milano e in relazione al reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti. Laddove subito dopo viene nuovamente citata la cnr del 17 ottobre 2016, in ordine alla denunzia della ricorrente anche per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter e in relazione a condotte del P. e della stessa imputata, denotanti, secondo i giudici, la consapevolezza, da parte della stessa G., della complessiva attività gestoria della cooperativa; così da escludere che ne fosse all'oscuro e da escludersi la carenza dell'elemento soggettivo del reato a suo carico, essendo informata, all'atto di accettazione dell'incarico, della situazione economica della società e della impossibilità di adempiere agli obblighi erariali.
A fronte di tale motivazione, peraltro supportata anche dagli analoghi contenuti della conforme sentenza di primo grado, la deduzione di inutilizzabilità, pur pertinente limitatamente al PVC dell'aprile 2017, è carente nella parte in cui non illustrata la decisività dei dati che sarebbero stati desunti dal predetto PVC, tale da travolgere l'intera motivazione, che, va ribadito, appare, piuttosto, fondata essenzialmente su dati esulanti da atti non utilizzabili, nei termini poco prima precisati. In altre parole, non appare rispettato il principio secondo il quale, in tema di ricorso per cassazione, è onere della parte che eccepisce l'inutilizzabilità di atti processuali indicare, pena l'inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, gli atti specificamente affetti dal vizio e chiarirne altresì l'incidenza sul complessivo compendio probatorio o indiziario già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato. (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012 Rv. 254108 Muià).
Va in ogni caso aggiunto che, a fronte, tra l'altro, di espresso richiamo operato in sentenza, la motivazione in punto di responsabilità della imputata si fonda su una cd. "doppia conforme", per cui come noto "le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, qualora i giudici di appello abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai fondamentali passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata" (cfr. Sez.3, n. 13926 del 01/12/2011 Rv. 252615 Valeri; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 Argentieri).
Deve altresì osservarsi che "in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l'appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relationem; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte (cfr. Sez.6, n. 28411 del 13/11/2012 Rv. 256435 Santapaola e altri).
Di rilievo, in tema di valutazione delle censure proposte in presenza di una cd. "doppia conforme", è anche il principio per cui "in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1 lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione. (cfr. Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013 Rv. 254988 Reggio.; Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017 Rv. 271227 M e altri).
Consegue, attraverso la lettura combinata della sentenza di appello e di quella di primo grado, e trascurando la limitata citazione del PVC in ordine alla Samo Frutta srl e alle indagini in corso nei confronti della ricorrente in concorso con T. e P. (pag. 5 della sentenza di appello), che innanzitutto non emerge in alcun modo la rappresentata crisi di liquidità, anche conseguente alla asserita distrazione di un milione di euro da parte del T., sia perché il primo giudice - senza che sul punto vi sia specifica confutazione - ha evidenziato come la ricorrente abbia ella stessa chiesto la rateizzazione del debito pagando la prima rata di Euro 33.000, e non sia emersa alcuna prova della indisponibilità di liquidi, sia perché il riferimento alla distrazione effettuata dal T. - pur di per sé logicamente non sufficiente, giova sottolinearlo, per dimostrare la mancanza assoluta di denaro per l'imposta omessa - sarebbe deducibile da quelle stesse investigazioni ritenute dalla stessa difesa inutilizzabili. Cosicché, tale ultimo riferimento probatorio, se rivendicato da parte della difesa a proprio favore, dovrebbe implicare inevitabilmente la possibilità di attingere a tutto il materiale investigativo milanese, che, in caso contrario, rimarrebbe invece inutilizzabile per tutte le parti.
Va dunque rimarcata, alla luce delle suesposte considerazioni, la mancanza di prova della crisi di liquidità, la quale peraltro, come noto, può giustificare la mancanza dell'elemento soggettivo del reato solo ove essa sussista e nel contempo consegua a forza maggiore, tenendo conto che in tema di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto, l'inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014 (dep. 25/02/2015) Rv. 263128 - 01).
L'assenza della dimostrazione della situazione dedotta dalla difesa, emergente, lo si ripete, dalle due conformi sentenze e non confutata dalla difesa (se non, in fin dei conti, attraverso il richiamo a dati comunque insufficienti per quanto sopra osservato - quali una distrazione operata dal T. e non meglio illustrata circa la sua incidenza sull'intero assetto patrimoniale -, oltre che provenienti da investigazioni rappresentate come inutilizzabili dalla stessa ricorrente), consente che in questa sede sia effettuato a soli fini di completezza l'ulteriore richiamo - come operato coerentemente rispetto alla situazione di fatto accertata, già dal primo giudice, per escludere anche in diritto il fondamento delle tesi difensive - all'ulteriore principio per cui, ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento di IVA (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter), non rileva quale causa di forza maggiore, per il legale rappresentante di un'impresa, lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015 Rv. 264882 - 01), quando risulta che l'agente al momento del suo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità. Principio pertinente laddove, anche a volere ammettere una crisi di liquidità in essere, i giudici del merito hanno coerentemente evidenziato circostanze tali da far ritenere che la ricorrente non potesse non essere a conoscenza di una tale situazione, assumendosene tutti i rischi e responsabilità secondo i principi relativi al ruolo del rappresentante legale.
Va conclusivamente osservato che il gravame opposto dalla difesa, come riepilogato in sentenza in maniera incontestata (cfr. sull'onere di eventuale contestazione, con riguardo ai motivi di gravame, sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017 Rv. 270627 - 01 Ciccarelli; Sez. II, n. 9028 del 5 novembre 2013, dep. 25 febbraio 2014, rv n. 259066), oltre a proporre, come evidenziato, profili che appaiono derivanti proprio da quelle investigazioni assunte in questo ricorso come inutilizzabili, ribadisce anche aspetti confutati dal primo giudice.
3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 3 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2021