RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 08 luglio 2016, la Corte d'appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cagliari, ha assolto B.G. dal reato di atti persecutori limitatamente ai fatti contestati fino al marzo 2013 (capo A) perchè il fatto non sussiste, ed ha ridotto la pena al medesimo inflitta in anni nove e mesi sei di reclusione, con conferma delle statuizioni civili in favore della parte civile costituita L.A. ivi compreso il riconoscimento di una provvisionale di Euro 50.000,00 e, nel resto, dell'impugnata sentenza.
1.1. B.G. è stato condannato, alla pena indicata, perchè ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 612-bis c.p., commi 1 e 2, commesso in (OMISSIS) e luoghi del circondario, dal (OMISSIS), per avere compiuto atti persecutori nei confronti di L.A., consistiti in condotte reiterate di violenza, minaccia, percosse ingenerandole un fondato timore per la propria incolumità e costringendola a mutare le abitudini di vita (capo A); del reato di cui all'art. 609-bis c.p., art. 61 c.p., n. 2, violenza sessuale continuata e aggravata dal nesso teleologico e dalla relazione affettiva, ex art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5 quater, limitatamente, quanto a quest'ultima aggravante, alle condotte commesse dal (OMISSIS), per avere costretto, con frequenza settimanale, con violenza e minaccia L.A. a subire e compiere atti sessuali consistiti rapporti sessuali completi, rapporti orali e penetrazioni anali e vaginali con le dita (capo B), fatti commessi in (OMISSIS) e luoghi del circondario dal (OMISSIS); del reato di cui all'art. 605 c.p., art. 61 c.p., n. 2, per avere privato della libertà L.A. al fine di commettere la violenza sessuale, nella notte tra il (OMISSIS) (capo C); del reato di cui all'art. 582 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 per avere cagionato ad L.A. lesioni personali (ematomi diffusi sul tutto il corpo) da cui derivava una malattia giudicata guaribile in giorni 7, fatto commesso nella notte tra il (OMISSIS) (capo D).
1.2. In particolare, il giudice di secondo grado, per quanto qui di rilievo in connessione con i motivi di ricorso, ha disatteso le questioni processuali sollevate di nullità del decreto di giudizio immediato, ex art. 453 c.p., commi 1 e 1 bis e, nel merito, ha confermato la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle prove operata dal Tribunale di Cagliari, escludendo, sulla scorta del racconto della persona offesa, unicamente il reato di atti persecutori anteriori al marzo 2013. Alla decisione oggi impugnata il giudice dell'impugnazione è pervenuto condividendo le valutazione del primo giudice in punto attendibilità della persona offesa L.A., parte civile costituita, rese nel corso del dibattimento, dotate dei requisiti di coerenza, precisione, costanza, completezza logica, assenza di interesse, e verosimiglianza e, dunque, ritenute attendibili quanto al racconto dei fatti persecutori e delle violenze sessuali, fatti che hanno trovato una rilevantissima e variegata quantità di riscontri esterni (manoscritti, referti medici, testimonianze dirette e indirette).
1.3 In sintesi, la sentenza impugnata ha ripercorso la vicenda processuale per come raccontata dalla persona offesa, evidenziando la genesi della notizia criminis, allorchè la donna, la mattina del (OMISSIS), dopo essere stata privata della libertà personale per tutta la notte, nel corso della quale l'imputato con violenza, minaccia e cagionandole lesioni personali, l'aveva costretta a subire ripetute penetrazioni anali e vaginali ed un rapporto orale, era riuscita a fuggire e mettersi in salvo dalla vicina di casa e qui aveva chiesto aiuto alla cugina che l'aveva accompagnata presso il Pronto Soccorso del locale nosocomio, ove la donna era stata ricoverata per alcuni giorni.
La sentenza impugnata prosegue riportando il lungo, articolato e dettagliato racconto della donna che, nel corso dell'esame dibattimentale, aveva narrato l'evoluzione della relazione con l'imputato, nel corso della quale, in modo lento e progressivo, la stessa aveva assunto tratti aggressivi e persecutori in quanto l'uomo aveva mutato atteggiamento e tenuto comportamenti via via minacciosi, violenti, l'aveva costretta a rapporti sessuali non consenzienti e aveva posto in essere atti persecutori, imponendo controlli sulla vita, così da ingenerare il fondato timore per l'incolumità personale.
La corte territoriale ha, poi, passato in rassegna, esponendoli compiutamente, i numerosi riscontri di natura testimoniale (parenti, amici, coinquilina, medici dell'ospedale ove era stata ricoverata) e di natura documentale (referto medico, che aveva diagnosticato una decina di ematomi su tutto il corpo e abrasioni e tumefazioni e uno stato emotivo post traumatico da aggressione, e tre manoscritti della donna "a futura memoria" in cui raccontava i comportamenti violenti e minacciosi dell'uomo e il suo stato d'animo).
Infine, la Corte d'appello ha respinto la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ha confermato il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ritenendo prevalenti le ragioni fondate sulla gravità della vicenda, riducendo la pena inflitta in primo grado in conseguenza della pronuncia assolutoria limitatamente alle condotte antecedenti al marzo 2013 del capo A).
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso B.G., a mezzo dei difensori di fiducia, e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:
2.1 Con il primo motivo deducono la violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), nullità del decreto di giudizio immediato ex art. 453 c.p.p., commi 1 e 1 bis, art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c).
Argomentano i difensori del ricorrente che la norma processuale, secondo cui l'imputato deve essere interrogato sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova, e la cui violazione integra una nullità ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), imporrebbe l'espletamento di un nuovo interrogatorio rispetto alle acquisizioni successive. Il ragionamento svolto muove dalla constatazione che l'omesso interrogatorio dell'imputato sui fatti dai quali emerge l'evidenza della prova, integra una nullità a regime intermedio del decreto di giudizio immediato. Secondo quanto affermato da S.U. n. 42979 del 2014, richiamata dal ricorrente, esiste uno stretto rapporto di strumentalità tra il presupposto dell'evidenza della prova e gli altri presupposti anche nel caso di immediato c.d. custodiale, e pur riconosciuta l'affermazione che l'interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen. è equiparabile all'interrogatorio prodromico all'istaurazione del giudizio immediato, secondo la prospettazione difensiva, nel caso di svolgimento di ulteriori indagini dopo l'emissione della misura cautelare, vi sarebbe la necessità di un nuovo interrogatorio sulle acquisizioni probatorie successive, da cui la nullità del decreto di giudizio immediato nel caso di mancato espletamento.
Nel caso in esame, l'imputato era stato interrogato ex art. 294 cod. proc. pen., l'indagine era proseguita e l'imputato non era stato nuovamente interrogato sui fatti da cui emergeva l'evidenza della prova, da cui la dedotta nullità del decreto di giudizio immediato per mancanza ab origine del presupposto dell'evidenza della prova.
In tale ambito, la Corte d'appello avrebbe errato nel respingere l'eccezione di nullità sul rilievo che la nullità, di regime intermedio, non sarebbe stata tempestivamente dedotta ex art. 180 cod. proc. pen., entro e non oltre il giudizio di primo grado, perchè sollevata nel corso della memoria depositata nel giudizio di appello, e ciò in quanto, trattandosi di nullità di un atto introduttivo della fase dibattimentale, la nullità avrebbe dovuto essere eccepita prima della conclusione del giudizio di appello ex art. 182 cod. proc. pen. da cui la tempestività dell'eccezione di nullità e la fondatezza della stessa. Chiedono, pertanto, la dichiarazione di nullità del decreto di giudizio immediato.
2.2. Con il secondo motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione alla erronea applicazione degli artt. 609-bis, 609-septies, 612-bis cod. pen. e art. 129 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione in relazione all'omessa pronuncia di non doversi procedere per mancanza di querela.
La Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente la condizione di procedibilità della querela con riguardo agli atti persecutori e alle violenze sessuali commesse in epoca antecedente al 7 ottobre 2013, ovvero oltre sei mesi dalla presentazione della querela in data 7 ottobre 2013.
Nel ricordare, il ricorrente, che in presenza di reato continuato, il diritto di querela decorre dai singoli reati, avendo la persona offesa conoscenza degli stessi, e non dall'ultimo momento consumativo della continuazione, la corte territoriale avrebbe erroneamente applicato la legge penale ed erroneamente ritenuto sussistente la condizione di procedibilità, sicchè la sentenza dovrebbe essere annullata con pronuncia, ex art. 129 cod. proc. pen., di improcedibilità dell'azione penale per i reati commessi in epoca precedente al 7 marzo 2013.
2.3. Con il terzo motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'art. 61 c.p., n. 2 e l'illogicità della motivazione. La Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto sussistente l'aggravante del nesso teleologico contestata con riferimento ai reati sessuali commessi prima del marzo 2013, perchè finalizzati al compimento degli atti persecutori nonostante la pronuncia assolutoria per il reato di atti persecutori prima di tale data. La sentenza impugnata sarebbe finanche priva di motivazione sulla sussistenza della menzionata aggravante contestata nel capo B).
2.4. Con il quarto motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'art. 609-bis cod. pen., artt. 192,194,530,533 cod. proc. pen. e il correlato vizio di illogicità della motivazione sull'affermazione della responsabilità penale per i reati di violenza sessuale nel periodo antecedente al marzo 2013.
La Corte d'appello nel pervenire all'assoluzione dell'imputato per il reato di atti persecutori in epoca precedente al marzo 2013, non avrebbe sottoposto a revisione critica l'attendibilità della persona offesa e la coerenza, precisione delle sue dichiarazioni, anche con riguardo alle violenze sessuali in epoca precedente al marzo 2013, confermando il giudizio di colpevolezza anche con il travisamento della prova testimoniale della persona offesa che aveva dichiarato che le minacce e gli abusi sessuali erano iniziati allorchè si era trasferita nella città di (OMISSIS) per lo svolgimento del tirocinio formativo.
2.5. Con il quinto motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'art. 609 bis cod. pen., artt. 192,194,530,533 cod. proc. pen. e il correlato vizio di illogicità della motivazione sull'affermazione della responsabilità penale per i reati di violenza sessuale.
La Corte d'appello avrebbe confermato la affermazione della responsabilità penale del ricorrente per i reati di violenza sessuale in violazione dei canoni ermeneutici di valutazione della prova con riguardo alla valutazione della prova testimoniale con particolare riferimento alla compatibilità del racconto accusatorio con altri elementi di prova, segnatamente la documentazione informatica contenuta nel p.c. della persona offesa, dei messaggi telefonici e Skype da cui emergerebbero messaggi dal contenuto affettuoso incompatibili con il racconto della stessa di donna minacciata e perseguitata e incompatibili con i limiti alla vita sociale che l'imputato le avrebbe imposto. La sentenza sarebbe anche affetta da lacune motivazionali nella parte di valutazione probatoria dei testimoni ( M. e D.) e frutto di un travisamento nella ricostruzione probatoria. Di poi, il medesimo vizio di motivazione sarebbe ravvisabile anche con riferimento alla documentazione medica sulle lesioni asseritamente patite evidenziando come la circostanza che la parte lesa non autorizzò i medici del Pronto soccorso all'acquisizione di eventuali materiali biologici, condizionerebbe fortemente la valutazione dell'attendibilità, superata dalla corte territoriale in modo illogico. Analogo vizio di illogicità della motivazione sarebbe sussistente in relazione alla valutazione della credibilità con riferimento alle fotografie acquisite che, al contrario, attesterebbero una normale vita di relazione della persona offesa del tutto incompatibile con il suo racconto. Infine, alcun riscontro alle dichiarazioni della persona offesa potrebbe trarsi dai manoscritti a futura memoria provenienti dalla stessa persona offesa.
2.6. Con il sesto motivo di ricorso deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'aggravante di cui all'art. 612-bis c.p., comma 2 in assenza di relazione affettiva tra la persona offesa e l'imputato. La relazione tra costoro non avrebbe i connotati previsti dalla norma di legge che, in attuazione della Convenzione di Istanbul, richiederebbe una stabilità basata sulla condivisione della scelta di vita di coppia. La relazione tra la persona offesa e l'imputato, per come raccontato dalla prima che aveva dichiarato di non voler instaurare "una vera e propria relazione", non avrebbe i requisiti per integrare la circostanza aggravante in oggetto.
2.7. Con il settimo motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'art. 609-ter c.p., n. 5 quater e art. 522 cod. proc. pen..
La Corte d'appello avrebbe ritenuto sussistente la menzionata aggravante, per gli episodi di violenza sessuale commessi dopo il (OMISSIS), in assenza di contestazione chiara e precisa della stessa nel capo di imputazione B), da cui la nullità della sentenza ex art. 522 cod. proc. pen..
2.8. Con l'ottavo motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'art. 605 cod. pen. e il correlato vizio di illogicità della motivazione sull'affermazione della responsabilità penale per il reato di sequestro di persona in presenza di elementi probatori incompatibili con la privazione della libertà personale.
2.9. Con il nono motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) in relazione agli artt. 178,179,494,523,598 e 602 cod. proc. pen., art. 111 Cost, art. 6 Cedu e nullità del giudizio di appello per compressione del diritto di autodifesa dell'imputato; nel disciplinare lo svolgimento dell'udienza, il diritto di difendersi dall'imputato sarebbe stato illegittimamente compresso nel suo esercizio risultando così compromesso un corretto esercizio dello stesso alla luce dei principi di matrice convenzionale di cui all'art. 6 Cedu.
2.10. Con il decimo motivo deducono la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche giustificate dal comportamento processuale negativo e alla gravità dei fatti.
In data 22 dicembre 2017, i difensori di B.G. hanno depositato motivi nuovi con cui, nell'ambito dei motivi già devoluti, hanno dedotto: 1) la nullità del decreto di giudizio immediato in relazione all'art. 178 c.p.p., lett. b) e art. 179 cod. proc. pen. per violazione delle norme concernenti l'iniziativa del Pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale in relazione al fatto che il B. non era stato interrogato sui fatti costituenti l'evidenza della prova; 2) il vizio di motivazione in relazione alla valutazione della prova dichiarativa e alle ritenute conferme della stessa tratte dai manoscritti, privi di data, della Lai, privi di riferimento agli episodi di violenza sessuale, dai referti medici in atti attestanti lesioni non compatibili con il narrato, dalle dichiarazioni testimoniali delle coinquiline, dalla conferma tratta dalle dichiarazioni dell'imputato di aver distrutto il computer, nonchè il vizio di motivazione in relazione al contesto temporale delle violenze sessuali, il cui primo episodio è stato collocato nel marzo 2013, e alla assoluzione dal reato di stalking per le condotte antecedenti al marzo 2013; 3) il vizio di motivazione in relazione al diniego di perizia psicologica sulla parte lesa e la mancata assunzione di una prova decisiva.
In data 28 dicembre 2017, il difensore di parte civile ha depositato memoria scritta.
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento senza rinvio relativamente alle ipotesi di cui all'art. 609-bis cod. pen. antecedenti alla data del 07/11/2013 perchè improcedibili per mancanza di querela con trasmissione degli atti ad altra Sezione della Corte d'appello di Cagliari per la rideterminazione della pena e rigetto nel resto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso non è fondato.
5. Il primo motivo di ricorso, di carattere processuale, con cui il ricorrente deduce la nullità del decreto di giudizio immediato ex art. 453 c.p.p., commi 1 e 1 bis, art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) non è fondato per le ragioni qui di seguito esposte.
Il giudizio immediato di cui all'art. 453 c.p.p., comma 1-bis c.d. cautelare, conseguente all'ampliamento dell'originaria previsione normativa ad opera del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modificazione nella L. 24 luglio 2008, n. 125, condivide con il giudizio immediato del comma 1 del medesimo articolo, l'assenza dell'udienza preliminare, in coerenza con le peculiari esigenze di speditezza e di risparmio di risorse processuali che contraddistinguono questo giudizio alternativo (Corte cost., ordd. nn. 256 del 2003 e 371 del 2002) e la presenza, per la corretta istaurazione, di determinati presupposti, specificamente indicati dal legislatore, equiparati e tra loro intimamente connessi.
Il giudizio immediato tipico si caratterizza per lo stretto collegamento tra notitia criminis, indagini e giudizio essendo previsto, tra i presupposti, un termine (90 giorni) per la sua richiesta decorrente dall'iscrizione della notizia di reato, l'interrogatorio sui fatti dai cui emerge l'evidenza della prova (interrogatorio o, comunque, in sua assenza, di regolare notificazione dell'avviso a presentarsi emesso secondo le forme indicate dall'art. 375 cod. proc. pen. e sempre che non si tratti di persona irreperibile), da cui l'evidenza della prova si ricollega al presupposto probatorio del rito, traducendosi in una sorta di presunzione legale di non evidenza probatoria nei casi in cui le indagini si protraggano oltre i tre mesi.
Nel giudizio immediato c.d. custodiale il legislatore delinea un preciso nesso tra stato detentivo della persona, disposto in ordine al delitto per il quale è stato iscritto il procedimento e profili probatori, integrati dalla definizione della procedura incidentale di riesame o il decorso dei termini per proporre la richiesta di riesame, l'omessa revoca o annullamento della misura per insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. 2, n. 15578 del 13/12/2012, Sacco, Rv. 255790).
Le S.U. n. 42979 del 2014, Squicciarino, nell'affermare che l'inosservanza dei termini di novanta e centottanta giorni, assegnati al pubblico ministero per la richiesta, rispettivamente, di giudizio immediato ordinario e cautelare, è rilevabile dal giudice per le indagini preliminari, hanno specificato, in motivazione, che il rispetto dei termini per la formulazione della richiesta costituisce un presupposto di ammissibilità del rito, in virtù del nesso che lega, in tale tipo di giudizio, la non particolare complessità delle indagini, l'evidenza della prova, lo stato detentivo dell'accusato, e le peculiari esigenze di celerità e di risparmio di risorse processuali che ispirano l'istituto, equiparando quanto al requisito dell'evidenza della prova le due tipologie di giudizio immediato.
Quanto al profilo dell'evidenza probatoria cui è connesso il requisito del previo espletamento dell'interrogatorio sui fatti dai quali emerge la suddetta evidenza, con la pronuncia citata, la Corte Suprema di cassazione, nella sua massima espressione ha così scritto: "si deve affermare che l'applicazione di una misura cautelare, pur se già sottoposta al vaglio del tribunale del riesame, implicando unicamente una probabilità di colpevolezza, non esclude di per sè il vaglio preventivo circa la sostenibilità dell'accusa in dibattimento. Sotto tale profilo, quindi, nel c.d. giudizio immediato custodiale l'adozione della misura cautelare, sia pure seguita dalla definizione della procedura di riesame (o, comunque, dal decorso dei termini per richiederla) non esaurisce il doveroso apprezzamento dell'evidenza probatoria, intesa come sostenibilità dell'accusa in giudizio e come inutilità della celebrazione dell'udienza preliminare. Tale apprezzamento va effettuato dopo l'esame di tutti gli atti delle investigazioni compiute e dopo avere offerto alla persona incolpata l'opportunità di interlocuzione - resa possibile dall'avviso a rendere interrogatorio e dalla indicazione dei fatti da cui risulta l'evidenza probatoria - nel rispetto dei termini indicati dall'art. 453 c.p.p., comma 1-bis, funzionali a garantire la speditezza del processo, tenuto conto anche dello stato di privazione della libertà in cui versa l'imputato". Dunque, l'evidenza probatoria si traduce in una prognosi sulla sostenibilità in giudizio dell'accusa e deve essere tale da consentire di escludere che il contraddittorio fra le parti possa indurre il giudice dell'udienza preliminare a pronunciare una sentenza di non luogo a procedere (Sez. U, n. 22 del 06/12/1991, Di Stefano. Rv. 19247; Corte cost., ordd. nn. 276 del 1995 e 182 del 1992). La sussistenza di elementi di tale pregnanza da escludere la necessità di sottoposizione alla verifica dell'udienza preliminare spiega il fondamento logico-sistematico del giudizio immediato che prevede il passaggio alla fase dibattimentale senza la preventiva celebrazione della suddetta udienza.
Non di meno, il requisito dell'evidenza della prova non ha come logico corollario la necessità che l'interrogatorio debba avvenire all'esito delle indagini, come sostiene il ricorrente, da cui trae la conclusione della nullità del decreto di giudizio immediato per il caso di mancato esperimento di nuovo interrogatorio nell'ipotesi di successive indagini ulteriori a quelle oggetto dell'interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen.. Nel sostenere ciò, il ricorrente incorre in un equivoco e cioè che l'evidenza della prova (prognosi di sostenibilità dell'accusa) sia strettamente connessa e debba essere valutata al termine delle investigazioni, quasi a dire che non si possa profilare una evidenza probatoria sin dall'inizio delle indagini e che le successive siano mero completamento di un quadro di chiara sostenibilità dell'accusa in giudizio e, dunque, di evidenza probatoria, lasciando, così, sottintendere che l'interrogatorio di garanzia, espletato nei termini strettissimi dall'esecuzione della misura cautelare, non possa essere requisito sufficiente ai fini dell'integrazione dell'evidenza probatoria.
Ciò che rileva, si ribadisce, è il presupposto di evidenza della prova e l'espletamento di un interrogatorio, sia esso quello svolto a seguito di invito a comparire ex art. 375 cod. proc. pen. sia quello espletato dal G.I.P. ex art. 294 cod. proc. pen. equipollente (cfr. Sez. 2, n. 17007 del 18/01/2012, Cannone, Rv. 252820), sui fatti dai quali emerga l'evidenza della prova, che il Giudice delle indagini preliminari deve valutare in sede di emanazione del decreto di giudizio immediato, ovvero sui fatti dimostrativi dell'evidenza della prova.
In conclusione, quindi, l'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini (o, comunque, la rituale previa contestazione degli addebiti) e la applicazione della misura e la sua permanenza in vita, per il reato per il quale viene chiesto il giudizio immediato, sono funzionali ad un corretto accertamento dell'evidenza probatoria. Da qui la conclusione che non occorre l'espletamento di un nuovo interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare nel caso di successive investigazioni, poichè l'art. 453 cod. proc. pen. richiede l'interrogatorio sui "fatti" dai quali emerge l'evidenza della prova e cioè quelli dimostrativi dell'evidenza della prova e non anche su tutti quelli acquisiti ivi compresi quelli acquisiti successivamente.
Infine, deve rammentarsi che con riguardo al controllo della corretta instaurazione del giudizio immediato, la giurisprudenza di legittimità, con orientamento consolidato, ritiene che la valutazione circa la sussistenza dell'evidenza della prova, presupposto del rito rispetto al quale i termini per lo svolgimento delle indagini e il previo interrogatorio della persona sottoposta alle indagini, la permanenza della misura cautelare per i reati per i quali viene richiesto il giudizio immediato, nel caso di immediato c.d. cautelare, è riservata in via esclusiva al giudice per le indagini preliminari. Di conseguenza l'ammissione del giudizio immediato è sempre insindacabile da parte del giudice del dibattimento (S.U. n. 42979 del 26/06/2014, Squicciarino, Rv 260018; Sez. 4, n. 14784 del 10/02/2016, P.M. in proic., D'Anna, Rv. 266812; Sez. 4, n. 39597 del 27/06/2007, P.M. in proc. Pierfederici, Rv. 237831).
Tale conclusione non è contraddetta dalla circostanza che il giudice del dibattimento può rilevare l'omesso interrogatorio dell'accusato prima della formulazione della richiesta di giudizio immediato, ora oggetto del primo motivo aggiunto ex art. 585 c.p.p., comma 4. Tale vizio è, infatti, rilevabile dal giudice del dibattimento in quanto violazione di una norma procedimentale concernente l'intervento dell'imputato, sanzionata di nullità a norma dell'art. 179 c.p.p., comma 1, lett. b) e art. 180 cod. proc. pen.. Ciò non di meno evidenzia il Collegio una tale nullità non è predicabile essendo stato il ricorrente sottoposto ad interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen..
Deve, pertanto, affermarsi che nel caso di giudizio immediato ex art. 453 c.p.p., comma 1 e art. 453 c.p.p., comma 1-bis non occorre la rinnovazione dell'interrogatorio sui fatti che costituiscono l'evidenza della prova nel caso di svolgimento di successive indagini del P.M..
In ogni caso, fermo il principio di cui sopra, a fronte dell'eccezione di nullità sollevata nel giudizio di appello con cui il ricorrente deduceva la nullità del decreto di giudizio immediato per essere stato emesso senza che l'imputato fosse stato compiutamente interrogato sull'intero compendio probatorio (ivi comprese sulle indagini svolte dopo l'interrogatorio ex art. 294 cod. proc. pen.) che il Collegio ritiene non fondata come compiutamente esposto (vedi supra), la Corte d'appello ha correttamente ritenuto che la nullità stessa, di ordine generale non assoluta, era sanata ai sensi dell'art. 180 c.p. e art. 182 c.p., comma 2 essendo stata sollevata per la prima volta nella memoria nel giudizio di appello e dunque dopo la sentenza di primo grado (Sez. 1, n. 15239 del 07/12/2011, Gallio, Rv 252255; Sez. 6, n. 25968 del 15/04/2010, Fibbi, Rv. 247817; Sez. 2, n. 40231 del 29/09/2005, Amoroso, Rv 232768).
6. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso con il quale il ricorrente deduce la mancanza di condizione di procedibilità della querela per gli atti persecutori e le violenze sessuali in epoca antecedente al 7 marzo 2013, essendo stato presentato atto di querela in data 7 ottobre 2013.
E' ben vero, come argomenta il ricorrente, anche con richiamo alla pronuncia di questa Corte n. 18838 del 20/01/2017, che il diritto di querela decorre, in caso di reato continuato, dal momento in cui la persona offesa ha conoscenza certa del fatto - reato e non dall'ultimo momento consumativo della continuazione (Sez.3, n. 42891 del 16/10/2008, Badalamenti, Rv. 241539) e dunque, per il reato di violenza sessuale, esso decorre dalla data di commissione di ciascun episodio commesso in esecuzione di un medesimo criminoso ed è indicato in sei mesi dalla data di commissione di ciascun reato di violenza sessuale.
Nondimeno, va rammentato che l'art. 609-septies c.p.p., comma 4, n. 4, prevede la procedibilità d'ufficio per i delitti di violenza sessuale nel caso di connessione con altro delitto procedibile d'ufficio. Questa Corte di legittimità ha da tempo, e salvo isolato precedente, affermato l'indirizzo ermeneutico secondo cui la procedibilità d'ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall'art. 609-septies c.p., comma 4, n. 4 si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 cod. proc. pen.), ma anche quando v'è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro oppure ancora quando ricorrono i presupposti di uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell'art. 371 cod. proc. pen. (da ultimo Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016, B., Rv. 268313; Sez. 3, n. 10217 del 10/02/2015, P.O. in proc. G., Rv. 262654).
La ragione della perseguibilità d'ufficio nelle ipotesi di connessione risiede, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nella necessità di tutela della riservatezza della persona offesa, esigenza che viene meno quando il reato perseguibile d'ufficio con il quale il reato sessuale è connesso sia stato oggetto delle indagini preliminari, perchè tali indagini fanno necessariamente venire meno la riservatezza posta a fondamento della perseguibilità querela.
In altri termini, se la previsione della procedibilità a querela è diretta a preservare la persona offesa dallo c.d. strepitus fori e poichè lo svolgimento delle indagini preliminari relative a reati procedibili d'ufficio in connessione con il reato procedibile a querela, comporta necessariamente la diffusione della notizia, è evidente che vengono meno in tale caso i presupposti per l'attribuzione del diritto di querela alla persona offesa, sia con riferimento ai casi di connessione tra reati commessi nello stesso arco temporale sia con riferimento anche ad episodi punibili a querela commessi in epoca antecedente stante la eadem ratio, purchè su di essi vi sia, quantomeno, il collegamento ex art. 371 cod. proc. pen. e sia stata esercitata l'azione penale per il reato procedibile d'ufficio (Sez. 5, n. 39758 del 03/02/2017, B., Rv. 270901; Sez. 5, n. 14692, 12/12/2012, P., Rv. 255438).
Se, come è stato anche ritenuto da questa Corte di legittimità, perfino l'eventuale dichiarazione per prescrizione con la successiva abrogazione del commesso reato procedibile d'ufficio, quando quest'ultimo è stato oggetto delle indagini preliminari, è ininfluente ai fini della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale (Sez. 3, n. 1190 del 29/11/2011, Rv. 251908; Sez. 3, n. 1784619/03/2009, Rv. 243759; Sez. 3, n. 2876 del 21/12/2006, Rv. 236098), ciò comporta che, ai fini della perseguibilità d'ufficio del reato di violenza sessuale per connessione con altro reato procedibile d'ufficio non è necessaria, come ritiene il ricorrente, la contestualità tra gli stessi (reati procedibili d'ufficio e a querela), ma occorre che l'indagine sul reato perseguibile d'ufficio comporti necessariamente l'accertamento dei reati punibili a querela, connessi ex art. 12 cod. proc. pen. oppure con collegamenti investigativi indicati dall'art. 371 cod. proc. pen., purchè le indagini in ordine al reato perseguibile d'ufficio siano state effettivamente avviate (Sez. 5, n. 14692 del 12 dicembre 2012, Rv. 255438).
Poichè la ratio della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale in connessione con il reato procedibile d'ufficio, non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l'esigenza del perseguimento dei colpevoli con l'esigenza della riservatezza delle persone offese, data la particolarissima natura di tali reati, è evidente che una volta venuta meno tale esigenza, per l'avvio di indagini preliminari per il reato procedibile d'ufficio, la procedibilità per connessione ex art. 609 septies c.p., comma 4, n. 4 si estende a tutti i reati connessi rispetto ai quali l'indagine sul reato perseguibile d'ufficio comporti l'accertamento di quello punibile a querela.
Ne consegue, per il caso in scrutinio, che rispetto ai reati di violenza sessuale commessi in epoca antecedente al 6 marzo 2013, la procedibilità discende, ai sensi dell'art. 609-septies c.p., comma 4, n. 4 dalla connessione ex art. 371 cod. proc. pen. con il reato di sequestro di persona commesso la notte tra il (OMISSIS).
Quanto al reato di atti persecutori, la conclusione non muta. La giurisprudenza costante ha affermato la procedibilità d'ufficio nell'ipotesi di connessione prevista dall'art. 612-bis cod. pen., comma 4, da intendersi nel senso di necessaria interferenza fattuale ed investigativa tra il reato procedibile d'ufficio e quello di "stalking" (Sez. 5, n. 39758 del 03/02/2017, B., Rv. 270901).
In particolare, si è sottolineato che l'art. 612-bis cod. pen., comma 4, nell'evidenziare che il reato è procedibile d'ufficio quando "è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio", non richiama alcuna norma processuale sostanziale esplicativa del concetto di "connessione". Peraltro, del tutto condivisibilmente, la sentenza n. 14692 del 12/12/2012, richiama l'orientamento affermatosi nella giurisprudenza in tema di delitti di violenza sessuale (vedi supra), sicchè anche con riguardo al reato di atti persecutori la procedibilità d'ufficio, determinata da ipotesi di connessione ex art. 612-bis c.p., comma 4 ricorre nelle stesse ipotesi di connessione ex art. 609 septies cod. pen. e dunque in caso di connessione ex art. 12 cod. pen. e dunque per connessione materiale ovvero ogniqualvolta l'indagine sul reato perseguibile d'ufficio comporti l'accertamento di quello punibile a querela in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro, oppure ancora in presenza di collegamento investigativo ex art. 371 cod. proc. pen., precisando, per la peculiare struttura del reato, avente natura abituale, che la connessione assume il significato di necessaria interferenza fattuale e investigativa tra la condotta di reato procedibile d'ufficio e il reato di atti persecutori (Sez. 5, n. 39758 del 03/02/2017, B., Rv. 270901).
7. Non è denunciabile per la prima volta, con il ricorso per cassazione, la violazione di legge ex art. 125 c.p.p., comma 3, per omessa motivazione sulla circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2 del capo B), non essendo stata devoluta nei motivi di appello. Il terzo motivo di ricorso è, pertanto, inammissibile, stante il disposto di cui all'art. 606 c.p.p., comma 3.
8. Il quarto e quinto motivo di ricorso, che attengono al merito dell'affermazione di responsabilità, non sono fondati perchè diretti, pur attraverso la declinazione di un vizio di violazione di legge con riferimento alla valutazione dei criteri di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen. e di vizio motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova testimoniale con riguardo al reato di violenza sessuale nel periodo antecedente al marzo 2013, a sollecitare una lettura dei fatti alternativa a quella già effettuata dai giudici di appello.
Deve osservarsi, in generale, che le censure proposte dal ricorrente non sono consentite nel giudizio di legittimità, in quanto concernenti la ricostruzione e la valutazione del fatto, come pure l'apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, immune da incongruenze di ordine logico.
In particolare, il difensore del ricorrente dedica ampio spazio, nel ricorso, alla rilettura e rivalutazione diretta delle prove riportando passi delle dichiarazioni della persona offesa (cfr. pag. 17 e ss.), dei testimoni e il contenuto dei messaggi tra imputato e persona offesa, per argomentare l'inattendibilità del racconto della parte lesa.
A questo proposito va ricordato che la Corte di cassazione è giudice della motivazione del provvedimento impugnato e non giudice delle prove acquisite nel corso del procedimento, con la conseguenza che il vizio di motivazione, che risulti dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati, in tanto sussiste se ed in quanto si dimostri che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non invece quando si opponga alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621).
La rivalutazione del materiale probatorio che il ricorrente persegue (cfr. pag. 37), attraverso una ri-lettura delle prove (verbali) è un'operazione non consentita in questa sede, risolvendosi, in definitiva, a chiedere un terzo grado di merito attraverso la prospettazione del vizio di motivazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e). E ciò in quanto, alla Corte di Cassazione è preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260). Anche dopo la modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), è esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 dell'11/01/2007, Messina ed altro, Rv. 235716).
8.1. La Corte d'appello, contrariamente all'assunto difensivo, argomenta in modo convincente e assolutamente adeguato, logico e congruo il giudizio di attendibilità della persona offesa le cui dichiarazioni hanno trovato eloquenti riscontri nel referto medico attestante le lesioni personali, del tutto compatibili con il racconto, nelle dichiarazioni rese dai testi che la soccorsero la mattina del (OMISSIS), nelle dichiarazioni rese dalla vicina di casa quanto alla condizione della donna, nelle dichiarazioni dei sanitari che visitarono la persona offesa, nelle dichiarazioni rese dalle coinquiline quanto ai pestaggi notturni, nelle dichiarazioni della cugina quanto alla condizione psicologica della parte lesa, e nei manoscritti (tre) a futura memoria fatti ritrovare all'indomani dell'arresto dell'imputato dai quali emergeva il quadro preciso dell'evoluzione in senso patologico del rapporto sentimentale che legava l'imputato e la parte lesa.
8.2. In tale ambito è bene sgombrare il campo da fuorvianti censure difensive: la persona offesa si rifiutò di acconsentire al prelievo dei liquidi biologici, ma la notte del (OMISSIS) ella fu sottoposta a ripetuti atti sessuali, come accertati dai giudici del merito, tra cui penetrazioni con le dita, ma non penetrazioni con l'organo genitale maschile, sicchè alcun rilievo può assumere la censura difensiva diretta a contestarne la affidabilità delle dichiarazioni. Quanto ai manoscritti, della cui autenticità e preesistenza alla denuncia non viene mosso alcun dubbio, la difesa mette in dubbio la natura di "riscontro", poichè provenienti dalla stessa parte lesa, circostanza che non fa venir meno il fatto storico che la donna abbia scritto, nella perdurante perpetrazione dei fatti, ciò che stava subendo da parte dell'imputato, e che poi la corte territoriale ha valutato nel quadro complessivo delle emergenze probatorie.
Infine, anche il richiamo alla normalità dei rapporti tra imputato e parte lesa per come desumibile dai messaggi SMS, Facebook, di cui la corte territoriale si fa carico di rispondere con motivazione congrua e condivisibile (pag. 64), non conduce alla conclusione difensiva dell'inattendibilità della persona offesa. Deve rammentarsi che l'ambivalenza dei sentimenti che normalmente è presente nel caso di reati di violenza sessuale e atti persecutori tra persone legate da vincoli di natura sentimentale non fa venire meno l'attendibilità della dichiarante persona offesa.
Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di valutazione della prova testimoniale, l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sè inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell'analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015, S., Rv. 264334; Sez. 5, n. 5313 del 16/09/2014, S., Rv. 262665). La corte territoriale mostra di essersi attenuta al principio di diritto e con motivazione diffusa e congrua e sorretta da logicità ha ritenuto non solo pienamente attendibile la persona offesa ma coerenti, precise le sue dichiarazioni in relazione ai reati contestati che ha ritenuto provati.
8.3 Infine, anche il dedotto profilo del travisamento della trova, oggetto del terzo motivo di ricorso, non è fondato. Esso si traduce in un travisamento del fatto e non del risultato probatorio tratto dalle dichiarazioni rese dalla parte lesa in relazione all'arco temporale nel quale erano avvenute le violenze sessuali.
Al riguardo, il Tribunale di Cagliari (pag. 59) all'esito dell'istruttoria dibattimentale (tra cui si devono annoverare le dichiarazioni della persona offesa) ha ritenuto provato che l'imputato, nel periodo dal mese di novembre 2012 fino al (OMISSIS), avesse sottoposto la persona offesa a decine di violenze sessuali e che la notte tra il (OMISSIS), l'avesse anche privata della libertà personale e le avesse cagionato lesioni personali. A fronte dell'affermata responsabilità penale per il reato di violenza sessuale continuata a far tempo dal novembre 2012, come contestato nel capo B), il ricorrente non muove censura specifica con riguardo all'arco temporale dei fatti nell'atto di impugnazione (pag. 52 atto di appello), salvo censurare la sentenza di appello che ha confermato la pronuncia di primo grado ipotizzando un contrasto tra l'apparato argomentativo e uno "spezzone" delle dichiarazioni della parte lesa.
Come è noto, in tema di motivi di ricorso per cassazione, a seguito delle modifiche dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, non è consentito dedurre il "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, ciò non di meno è, invece, consentito dedurre il vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccio, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215). In ogni caso, deve trattarsi di una prova dal carattere dirimente per la decisione in quanto dà luogo ad una manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato nel confronto con altro atto del processo specificamente indicato nel motivo di gravame.
Nel caso in scrutinio la censura appare diretta ad reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito, ai fini della decisione, piuttosto che a denunciare la palese difformità tra la prova e il risultato che da questa viene tratto, avendo il Tribunale argomentato l'affermazione della responsabilità penale su un vasto compendio probatorio, tra cui le dichiarazioni della parte lesa, e, comunque, il motivo di gravame non metteva in discussione l'arco temporale, da cui l'infondatezza del motivo di ricorso come devoluto.
Infatti, l'accertamento della mancanza e della illogicità manifesta della motivazione risultanti dal testo del provvedimento impugnato, che è prospettabile nel caso di denuncia del vizio di travisamento della prova, non può esplicarsi in indagini extratestuali dirette a verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove, costituenti i dati fondanti della decisione, siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo (Sez. 1, n. 94 del 10/01/2000, Pixner, Rv. 215336).
In conclusione la sentenza impugnata poggia su un percorso argomentativo logico e fondato su elementi di prova presenti nel merito, ai fini della decisione, dunque, effettivamente parte dell'orizzonte cognitivo di quel giudice (Sez. 7, n. 12406 del 19/02/2015, Micchichè, Rv. 262948; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 Maggio, Rv. 255087; Sez.3, n. 39729 del 18 giugno 2009, Belluccia, Rv 244623; Sez.5. n. 39048 del 25 settembre 2007, Casavola, Rv 238215; Sez. 1, n. 24667, del 15 giugno 2007, Musumeci, Rv 237207; Sez. 4, n. 21602 del 07 aprile 2007, Ventola, Rv 237588), rispetto a quali è preclusa al giudice di legittimità una nuova valutazione da sovrapporre a quella del giudice del merito. Conclusivamente, i motivi afferenti alla responsabilità penale dell'imputato per i reati contestati (quarto e quinto motivo) appaiono diretti a rimettere in discussione le prove acquisite e non la sentenza impugnata, e sono, pertanto, infondati. Oggetto del sindacato del giudice di legittimità, si ribadisce, è la sentenza, la coerenza del percorso argomentativo, l'aderenza al dato probatorio nei termini sopra indicati, e l'assenza di illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione, che non sono, ictu oculi, rinvenibili nel provvedimento impugnato.
9. La violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla erronea applicazione dell'aggravante di cui all'art. 612 bis c.p., comma 2 in assenza di relazione affettiva tra la persona offesa e l'imputato, oggetto del sesto motivo di ricorso, non è fondata.
Secondo il ricorrente la relazione tra l'imputato e la persona offesa non avrebbe i connotati previsti dalla norma di legge che, in attuazione della Convenzione di Istanbul, richiederebbe una stabilità basata sulla condivisione della scelta di vita di coppia. Tale prospettazione non è per nulla condivisibile ed è contraria all'interpretazione letterale della norma e alla ratio legis.
L'originaria formulazione dell'art. 612 bis cod. pen., introdotta con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 7 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, art. 1, comma 1, è stata modificata dal D.L. 1 luglio 2013, n. 78, art. 1-bis, comma 1, (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 94, art. 1, comma 1, che ha elevato a cinque anni di reclusione il massimo della pena edittale, originariamente prevista in quattro anni e successivamente, per quanto qui di rilievo, il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, art. 1, comma 3, lett. a), (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonchè in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119, art. 1, comma 1, ha modificato l'aggravante di cui al comma 2, stabilendo che l'aumento di pena consegua anche nel caso in cui il fatto sia commesso attraverso strumenti informatici o telematici, e chiarendo che l'aggravante sussiste anche nel caso di persona che sia attualmente legata da relazione affettiva con la persona offesa (mentre nel testo previgente si parlava di fatto commesso da chi "è stato" legato alla vittima).
La menzionata modifica legislativa traduce in disposizione normativa interna il contenuto della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 ed aperta alla firma l'11 maggio 2011), ratificata dall'Italia con la L. 27 giugno 2013, n. 77, ha previsto una circostanza aggravante nel caso in cui il soggetto sia legato con la vittima da una "relazione affettiva".
Già il tenore lessicale si pone in contrasto con la prospettazione difensiva secondo cui occorrerebbe per l'integrazione della menzionata aggravante una decisione di condivisione di una scelta di una vita di coppia, secondo un'interpretazione della norma mutuata dalla giurisprudenza di legittimità in tema di maltrattamenti in famiglia nella quale assume rilievo la convivenza connotata da stabilità e condivisione di un percorso comune di vita, poichè la "relazione affettiva" tra due persone, non implica necessariamente una decisione di condivisione di vita in comune, essendo piuttosto incentrata sul legame fondato sul sentimento affettivo che connota il legame tra autore del reato e vittima. Poi la circostanza che la previsione legislativa dell'aumento di pena nel caso in cui il soggetto sia legato con la vittima da una relazione affettiva, accanto alla medesima previsione di aggravamento nel caso di coniuge anche separato o divorziato, è già di per sè significativa della differenza tra le situazioni, prevedendo l'inasprimento di pena per tutte quelle situazioni personali nelle quali il rapporto tra autore e vittima è sia connotato da stabilità, convivenza, condivisione di scelte di vita (coniuge), ma anche nel caso di separazione e divorzio, segno evidente che la ratio legis era diretta ad introdurre una maggiore tutela nei confronti delle vittime di atti persecutori fondata non solo sul legame "connotato da vita in comune" tra autore e vittima del reato di atti persecutori, come nel caso di rapporto di coniugio e convivenza, ma anche su un legame connotato da una relazione di affettività che sottende una condivisione di un reciproco rapporto di fiducia e protezione, sicchè l'aggressione da parte di colui nei confronti del quale la vittima confida e ripone aspettative di tutela e protezione (fondate sul rapporto affettivo) è punita più severamente. Dunque l'aggravante di cui all'art. 612-bis c.p., comma 2 nella specie dell'aver commesso il fatto da persona che è (era) legata da relazione affettiva non richiede una stabilità basata sulla condivisione di una scelta di vita in comune.
D'altra parte tale interpretazione, fondata sul dato letterale della norma, è la coerente attuazione dei principi della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza di genere, adottata il 7 aprile 2011 dal Consiglio d'Europa che rappresenta il primo strumento "giuridicamente vincolante" volto a creare un quadro normativo completo a prevenire il diffondersi di ogni forma di violenza contro le donne, in particolare di quella domestica.
Sotto questo profilo, la corte territoriale, rispondendo alla censura difensiva, ha correttamente ritenuta integrata la menzionata aggravante (pag. 65), circoscrivendo la sua applicazione, quanto al reato di cui all'art. 609-bis cod. pen. ai fatti commessi successivamente al (OMISSIS).
Infine la censura non è fondata neppure sotto il profilo dell'applicazione della circostanza aggravante a fatti anteriormente commessi all'entrata in vigore il (OMISSIS), in violazione dell'art. 2 cod. pen.. E' sufficiente ricordare che il reato di atti persecutori, ex art. 612-bis cod. pen., ha natura di reato abituale sicchè il momento consumativo coincide, come contestato, con "l'evento di danno" consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con "l'evento di pericolo" consistente nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto il cui accertamento, non sindacabile in questa sede, è stato fissato dalla contestazione fino all'ottobre 2013, dunque dopo l'entrata in vigore della norma.
10. Il settimo motivo di ricorso con il quale si deduce la nullità della sentenza ex art. 522 cod. proc. pen. in relazione alla contestazione della circostanza aggravante di cui all'art. 609-ter c.p., n. 5 quater per difetto di contestazione non è fondato.
Deve premettersi che la prospettazione difensiva, secondo cui la nullità della sentenza nella parte relativa all'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 609-ter c.p., comma 5 quater per assenza di formale contestazione nel capo B), essendo stata formalmente contestata solo con riguardo al capo A), muove da un corretto approccio ermeneutico. E', infatti, indirizzo condiviso nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale la contestazione di una circostanza aggravante deve formare oggetto di specifica contestazione nei singoli reati (Sez. 6, n. 5075 del 09/01/2014, Crucitti, Rv. 258046).
Non di meno, si è precisato che non è indispensabile una formula specifica espressa con una particolare enunciazione letterale, nè l'indicazione della disposizione di legge che la prevede, essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l'imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa sugli elementi di fatto che lo integrano (Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261 Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, P.G. in proc. Chatbi, Rv. 255793).
Nel caso in esame, l'imputato è stato in grado ed ha svolto una precisa difesa sui fatti che integrano la circostanza che il soggetto sia legato da relazione affettiva, anche senza convivenza, secondo il disposto dell'art. 609 ter c.p., n. 5 quater, tant'è che nei motivi di appello (e poi anche nel ricorso per cassazione) ne aveva contestato i presupposti di fatto e di diritto ed aveva chiesto l'esclusione (ora oggetto del sesto motivo di ricorso). Ne consegue l'infondatezza del motivo di ricorso.
11. L'ottavo motivo di ricorso con cui si censura l'affermazione della responsabilità dell'imputato per il reato di sequestro di persona appare inammissibile per genericità. La censura non si confronta con le argomentazioni dei giudici del merito che, con doppio accertamento conforme, hanno ritenuto l'imputato responsabile per avere privato la libertà personale della persona offesa durante tutta la notte tra il (OMISSIS), durante la quale aveva posto in essere le ripetute violenze sessuali (cfr. pag. 66) a nulla rilevando la circostanza che la donna era rimasta in possesso dei telefoni cellulari, in presenza di un continuo persistente controllo violento dell'uomo documentato dalle lesioni personali riportate dalla medesima, prova ne è che la donna riuscì a fuggire solo la mattina seguente dopo aver convinto l'uomo ad uscire di casa per recarsi a comprare dei farmaci.
12. Non è fondato il nono motivo di ricorso con il quale il ricorrente deduce la compromissione del diritto di auto-difesa e la violazione delle norme interne e sovranazionali.
Ritiene il ricorrente leso il suo diritto di auto-difesa nel processo per essere stato compresso, ad opera della corte territoriale, il suo diritto di intervento nel corso del processo, diritto riconosciuto dall'art. 24 Cost e dall'art. 6 Cedu..
In particolare, il ricorrente contesta la lesione del diritto all'auto-difesa per essere stato interrotto, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese all'udienza del 23 maggio 2016, anzitempo e nella successiva udienza dell'8 luglio 2016, dopo la discussione del proprio difensore, per essere stato limitato il suo intervento a solo dieci/quindici minuti in considerazione del fatto che aveva reso ampie dichiarazioni e depositato memorie scritte, limitazione temporale che avrebbe inciso sul diritto di difesa.
Non v'è dubbio che il nostro sistema processuale riconosca, accanto alla difesa tecnica, il diritto dell'imputato a partecipare e di auto difendersi cioè di intervenire personalmente nel processo. Tale diritto è previsto dall'art. 494 cod. proc. pen. che riconosce all'imputato il diritto di rendere spontanee dichiarazioni, purchè si riferiscano all'oggetto dell'imputazione e non intralcino l'istruttoria dibattimentale, e dall'art. 523 c.p.p., comma 5 che attribuisce all'imputato di prendere la parola, se lo richiede, terminata la discussione (norme applicabili anche nel giudizio di appello ex art. 598 cod. proc. pen.).
Nondimeno, con riguardo alla circostanza che l'imputato venne interrotto "anzitempo" dal Presidente del collegio, all'udienza del 23 maggio 2016, a parte la intrinseca genericità, la censura non è fondata poichè la previsione legislativa ancora il diritto riconosciuto dall'art. 494 cod. proc. pen. non tanto in ragione della "misura di durata" della propalazione delle dichiarazioni spontanee, ma alla pertinenza e non intralcio all'istruzione dibattimentale e prevede, al comma 2 del medesimo articolo, che il Presidente rilevata la divagazione dai fatti ammonisce l'imputato e poi gli toglie la parola. Orbene, dallo stesso contenuto del ricorso (pag. 57) risulta che il Presidente dopo aver contestato all'imputato di aver ampliato il suo intervento "non si ripeta però stiamo andando un pò oltre", dopo averlo ammonito gli ha tolto la parola.
Quanto alla contestata di violazione del diritto di auto difesa, all'udienza di discussione dell'8 luglio 2016, per aver concesso un termine breve di circa 10/15 minuti per rendere spontanee dichiarazioni avendo chiesto, l'imputato, dopo l'intervento del difensore, di parlare, essa non è parimenti fondata.
Deve al riguardo rammentarsi che la facoltà dell'imputato di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purchè esse si riferiscano all'oggetto dell'imputazione, va coordinata con la previsione dell'art. 523 cod. proc. pen., comma 6, in base al quale l'interruzione della discussione può essere giustificata solo dall'assoluta necessità di assunzione di nuove prove, e con l'art. 523 cod. proc. pen., comma 5 che riconosce il diritto dell'imputato ad avere la parola per ultimo, se lo richiede, diritto che la corte territoriale ha riconosciuto e che ora l'imputato ne contesta la violazione per non essere stato garantito nella "sua corretta estensione". Anche sotto questo profilo la censura non è fondata.
13. Il decimo motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non è, parimenti, fondato.
Rileva il Collegio che il giudice dell'impugnazione ha motivato la mancata concessione in ragione di plurimi elementi di valutazione tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen. e segnatamente sulla gravità dei fatti definita "straordinaria", dalla reiterazione delle condotte, della protrazione nel tempo e nel comportamento processuale di "disprezzo della vittima" manifestato dal tentativo di fare apparire la vittima come persona "disturbata sul piano sessuale".
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d'appello si è attenuta al principio di diritto secondo il quale la concessione delle attenuanti generiche deve essere fondata sull'accertamento di situazioni idonee a giustificare un trattamento di speciale benevolenza in favore dell'imputato.
Come questa Corte ha più volte affermato, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, sicchè il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900). Il riconoscimento o meno di tale circostanza è un giudizio di fatto che compente alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, in presenza di congrua motivazione. Peraltro, nel menzionato giudizio il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione del reato può essere sufficiente a riconoscerle ovvero ad escluderle (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419).
Sulla scorta di tali principi, si appalesano all'evidenza prive di base solida le doglianze mosse dal ricorrente laddove la Corte territoriale, in risposta ai motivi d'appello, ha evidenziato, contrariamente all'assunto difensivo, una pluralità di elementi negativi secondo gli indici di cui all'art. 133 cod. pen. e, dando rilievo non solo all'esercizio delle facoltà processuali e al comportamento processuale, ha ritenuto che non vi fossero elementi di segno positivo suscettibili di giustificare la reclamata mitigazione sanzionatoria, argomentazioni che non possono ritenersi ictu oculi illogiche e che non sono, pertanto, scrutinabili in questa Sede.
14. Infine, rileva il Collegio che non può essere scrutinato il terzo motivo ex art. 585 c.p.p., comma 4 trattandosi di motivo inerente alla mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'espletamento di una perizia e la mancata assunzione di una prova decisiva, non collegato con i motivi principali, sicchè trattandosi di nuovo motivo esso è inammissibile. Il primo e il secondo motivo ex art. 585 c.p.p., comma 4 sono stati esaminati congiuntamente ai motivi principali proposti (cfr. par.5 e 8).
15. Conclusivamente il ricorso va respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e a rifondere la spese di costituzione e rappresentanza sostenute nel grado in favore della parte civile L.A. che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre spese generali e accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile che liquida in complessivi Euro 3.500,00 oltre spese generali e accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2018