RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello de L'Aquila, decidendo sulle impugnazioni proposte nell'interesse dell'imputato e della costituita parte civile D.N.N., ha confermato la sentenza del 2.3.2017 con cui il Tribunale di Pescara aveva riconosciuto B.R. responsabile: unitamente ed in concorso con M.D. e D.F., separatamente giudicati, dell'episodio di usura aggravata in danno di d.N.N. e D.S.T., di cui al capo c) della rubrica; unitamente ed in concorso con gli stessi, dell'episodio di usura aggravata in danno di D.N.N. e N.C. ascrittogli al capo d) della rubrica; dell'episodio di usura aggravata in danno di D.S.S. e M.M. ascrittogli, con gli stessi concorrenti, al capo f) della rubrica; in concorso con D.F. e L.G., del fatto di usura aggravata in danno di D.M.F. e A.C. ascrittogli, nel procedimento penale 5172/12 RG riunito a quello principale; il Tribunale, pertanto, ritenuta la continuazione trai vari fatti di reato, aveva condannato il B. alla pena complessiva di anni 2 e mesi 6 di reclusione ed Euro 8.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni patiti dalle costituite parti civili D.S.S. e M.M., respingendo invece le richieste risarcitorie formulate dalle parti civili D.N.N., A.C. e D.M.F.;
2. ricorre per cassazione i difensore di B.R. lamentando, con un unico articolato motivo, violazione della legge penale sostanziale: rileva che i giudici di merito hanno ritenuto il B. responsabile del delitto di usura in quanto costui, secondo la incontestata ricostruzione dei fatti, aveva posto in essere una attività di intermediazione in favore delle presunte persone offese al fine di fare ottenere a costoro dei mutui ipotecari mediante la simulazione di vendite immobiliari e pretendendo, per questa sua attività, dei compensi giudicati usurari in quanto corrispondenti ad una percentuale del mutuo erogato superiore al tasso "soglia" previsto; rileva dunque l'erroneità della interpretazione adottata dai giudici di primo e secondo grado in merito alla nozione di "mediazione" da ritenersi "contra legem" e, segnatamente, contro il disposto di cui all'art. 644 c.p.; riportata la ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza di primo grado e sintetizzati i motivi di appello dando atto della correttezza della soluzione con cui la Corte territoriale aveva definito il primo motivo di gravame e della transazione nel frattempo perfezionata con D.S.S. e M.M., denunzia dunque violazione di legge con riferimento, per l'appunto, agli artt. 644 c.p., art. 12 "preleggi", art. 128 TUB, artt. 1754 e 2035 c.c., art. 25 Cost. e art. 6 CEDU richiamando, ancora, la sentenza di appello laddove la Corte aveva segnalato che la condotta del B. era stata quella di concorrere con altri nell'adoperarsi, mediante pratiche fraudolente e nel porre in essere siffatte condotte decettive finalizzate ad acquisire finanziamenti destinati a terzi concorrenti considerati, nel contempo, dai giudici di merito, persone offese del delitto di usura; rileva, tuttavia, l'erroneità della affermazione della Corte di Appello secondo cui la illiceità del profitto della truffa non fa venir meno la natura del finanziamento avendo i giudici del gravame dato rilievo alla condotta di procacciamento che, secondo lo schema delineato dalla norma incriminatrice, deve essere il frutto di una mediazione che tuttavia, secondo la difesa, non è rinvenibile in una condotta truffaldina nella quale hanno concorso gli stessi beneficiari del denaro così fraudolentemente ottenuto in danno degli istituti bancari; richiama i disposto di cui all'art. 128 TUB e la figura del mediatore creditizio che, come nella ipotesi codicistica di cui all'art. 1754 c.c., è soggetto che non deve essere legato ad alcuna delle parti messe in contatto laddove, con argomentazione non esaminata dalla Corte di Appello, si era segnalato che nel caso di specie il B. risulta in realtà concorrente nella truffa con i beneficiari dei mutuo; aggiunge che, nello schema proposto dal legislatore, l'usurato è vittima e non complice del mediatore di cui i giudici di merito hanno sposato una nozione a suo avviso dissonante rispetto a quella delineata dalla norma incriminatrice; rileva la difesa, infatti, che il supposto compenso usurario non è altro che parte dell'illecito profitto della truffa che i concorrenti in tale reato si sono divisi tra di loro non potendosi certo configurare il prezzo della mediazione nell'ambito di una attività illecita sussumibile nell'ambito della ipotesi contemplata dall'art. 2035 c.c.;
3. in data 30.6.2020 la difesa di B.R. ha trasmesso una memoria in cui ha insistito sulla responsabilità delle presunte "vittime" nella truffa commessa in danno degli istituti di credito che avevano erogato i mutui sulla scorta di compravendite simulate e della comunicazione di dati reddituali falsi; ribadisce la autonomia della ipotesi delittuosa disciplinata, in maniera peraltro immutata, dall'art. 644 c.p., comma 2 e la sua in effetti scarsissima applicazione pratica stante il ridotto ambito operativo della fattispecie; sottolinea, ancora, come in alcun modo le presunte vittime della condotta ritenuta usuraria potrebbero vantare un qualsivoglia diritto nei confronti dell'odierno ricorrente e, in particolare, alcun diritto alla ripetizione di quanto versato quale prezzo del concorso nella truffa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato dovendosi tuttavia prendere atto, come si vedrà, della intervenuta prescrizione del reato di cui al capo c) con ogni conseguenza in termini di rideterminazione della pena.
1. I fatti sono stati ricostruiti dai giudici di merito sulla scorta di una conforme valutazione delle medesime emergenze istruttorie e, per altro verso, non contestati quanto, piuttosto, dati per presupposti dalla difesa che, proprio alla luce ed in forza della ricostruzione operata in quella sede, ha articolato la censura relativa alla non configurabilità della ipotesi di reato della c.d. mediazione usuraria.
I diversi episodi per i quali il ricorrente è stato condannato avevano replicato un medesimo schema operativo ed una medesima condotta: si era trattato, infatti, di mutui fondiari acquisiti in maniera fraudolenta in quanto richiesti e concessi dagli istituti di credito sulla scorta di simulati trasferimenti di proprietà; in particolare: con riferimento a capo c), a B. era stato contestato di essersi fatto promettere e consegnare da D.N.N. e D.S.T. la somma di Euro 28.000 quale remunerazione della attività di intermediazione da lui posta in essere (in concorso con M.D. e D.F.) per l'erogazione di un mutuo di Euro 250.000 da parte del MPS di Pescara a D.N.N. (simulato acquirente) che aveva consegnato il relativo importo D.S.T. (simulato alienante) con l'accordo "interno" di assumersi l'onere di restituzione alla banca; al capo d) era stato contestato al B. di essersi fatto promettere e consegnare da D.N.C. la somma di Euro 35.000 quale remunerazione della attività di intermediazione da lui posta in essere (in concorso con D.F.) per l'erogazione di un mutuo di Euro 300.000 da parte della Banca Toscana di Pescara a D.N.N. e A.D. (simulati acquirenti) che aveva consegnato il relativo importo a D.N.C. (simulato alienante) che si assumeva l'obbligo di restituire l'importo alla banca; al capo f) era stato contestato al B. di essersi fatto promettere e consegnare da D.N.N. e D.S.T. la somma di Euro 12.000 quale remunerazione della attività di intermediazione da lui posta in essere (in concorso con M.D. e D.F.) per l'erogazione di un mutuo di Euro 123.000 da parte del MPS di Pescara a D.S.S. e M.M.; nel procedimento penale n. 5172/12, al ricorrente era stata contestata la medesima ipotesi delittuosa in quanto egli si sarebbe fatto dare o promettere (in concorso con il D. e L.G.) da D.M.F. e da A.C., la somma di Euro 80.000 quale remunerazione del mutuo erogato ai coniugi F.U. e S. (pari ad Euro 825.000) quali simulati venditori dell'immobile sito in Montesilvano simulatamente venduto al D. ed alla A.; tutti costoro, peraltro, erano imputati del delitto di cui all'art. 640 c.p. in danno del MPS di Siena avendo fraudolentemente indotto il predetto istituto di credito ad erogare il mutuo che era solo apparentemente destinato a costoro quali simulati acquirenti dell'immobile di proprietà di Ugo F. e S.M.G. che lo avevano a loro volta solo fittiziamente trasferito ai primi ed erano in realtà gli effettivi destinatari del mutuo che si erano impegnati a restituire tenendo indenni la D. e l' A. (in realtà l'impegno era di F.L. e C.F.); altro profilo di frode era quello del valore dell'immobile, periziato per Euro 1.050.000 a fronte di un valore reale non superiore ad Euro 640,540; il mutuo non aveva alcuna possibilità di essere restituito trattandosi di rate da 6.000 mensili.
Il Tribunale aveva riconosciuto il B. responsabile dei fatti di mediazione usuraria a lui ascritti.
Con l'atto di appello la difesa dell'odierno ricorrente aveva eccepito la violazione del disposto di cui all'art. 521 c.p.p. valorizzando un profilo che, affrontato dalla Corte di Appello, non ha formato oggetto di ulteriore doglianza in sede di legittimità; altra censura articolata in appello era stata quella che ha invece formato oggetto di diffusa trattazione con il presente ricorso contestandosi la configurabilità del delitto ipotizzato dalla pubblica accusa a fronte della acquisizione di mutui quale frutto della condotta fraudolenta tenuta dal B. come dalle sue presunte "vittime".
2. Per introdurre la trattazione dell'articolato motivo di ricorso non è inutile richiamare i termini specifici in cui il fatto è stato ricostruito dalla sentenza di primo grado.
Il Tribunale, infatti, aveva spiegato in primo luogo che "... che l'imputato B.R., unitamente ad altri (...), poneva in essere una serie di attività nel settore dei prestiti fondiari, adoperandosi per far ottenere a piccoli imprenditori in difficoltà, che non potevano fare ricorso ai normali circuiti finanziari e che già erano stati vittime di usura attraverso finanziamenti concessi a tassi usurari sempre ad opera dei medesimi coimputati, simulate compravendite immobiliari, consentendo loro di ottenere liquidità attraverso l'erogazione di mutui fondiari e pretendendo per la mediazione finanziaria importi generalmente compresi tra l'8% ed il 10% dell'importo erogato" (cfr., pag. 7 della sentenza di primo grado).
Aveva inoltre precisato il primo giudice che "si trattava di piccoli commercianti che si erano dapprima rivolti al coimputato d. che, previa corresponsione di una sorta di tangente del 5% dell'importo finanziato, li accreditava presso la finanziaria Sima di Lanciano ed altre società finanziarie... consentendo loro di ottenere con facilità prestiti caratterizzati dai correlato onere della restituzione in tempi stretti, seguendo ovviamente la necessità di ottenere nuovi prestiti per restituire il capitale dovuto (..)" (cfr., ivi).
E, sempre secondo quanto riportato nella sentenza di primo grado, era stato allora che costoro si erano visti ".. proporre operazioni di mutuo fondiario sulla base di compravendite simulate che coinvolgevano familiari e conoscenti compiacenti dei debitori, finalizzate unicamente a far conseguire liquidità alle persone in difficoltà, anche attraverso la predisposizione di falsa documentazione relativa alle posizioni reddituali di coloro che, quali simulati acquirenti del'immobile, apparentemente accedevano al mutuo, con accordi interni tra simulato acquirente e simulato alienante (con riguardo all'onere di restituzione del capitale e degli interessi all'istituto di credito che erogava il mutuo) e corresponsione di esorbitanti compensi, versati in contanti, agli intermediari, tra cui B.R."(cfr., ivi, pag. 8).
La Corte di Appello, nell'esaminare il motivo di gravame articolato nell'interesse dell'odierno ricorrente, ha richiamato la ricostruzione della vicenda quale era stata operata dal Tribunale evidenziando a sua volta che il B. si era adoperato per procurare a D.S.T., N.C., D.S.S. e M.M., tutti soggetti in difficoltà economica, finanziamenti da parte di istituti di credito finalizzati ad estinguere posizioni debitorie in atto con i medesimi soggetti coimputati, a fronte della promessa e della dazione di compensi (che non si contesta in alcun modo fossero) sproporzionati rispetto al credito così ottenuto.
Ha dato per assodato che la erogazione dei finanziamenti era stata ottenuta con metodi "truffaldini" (ovvero con l'escamotage di compravendite simulate, della alterazione dei dati reddituali dei "simulati acquirenti" e, in un caso, anche con la ipervalutazione dell'immobile oggetto di compravendita) e che i simulati acquirenti ed i simulati venditori erano certamente concorrenti nella truffa ma, nel contempo, questi ultimi (ovvero coloro cui era di fatto destinato il finanziamento), anche vittime del reato di usura (ovvero della specifica ipotesi di "mediazione usuraria").
3. La ricostruzione della vicenda consente, in primo luogo, di ritenere la infondatezza "in fatto" del rilievo difensivo secondo cui le persone offese, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di Appello, non potrebbero essere considerate "vittime" del B. nel delitto di "mediazione usuraria" in quanto, semmai, ritenersi concorrenti con il ricorrente nella commissione delle truffe in danno degli istituti di credito per mezzo delle quali i finanziamenti erano stati erogati.
Come si è visto, infatti, il Tribunale ha chiaramente individuato nei piccoli imprenditori in difficoltà i soggetti che si erano inizialmente rivolti al B. (ed ai coimputati) per ottenere dei prestiti che erano stati loro erogati a tassi usurari; ed erano stati proprio il B. ed i correi ad assumere essi stessi l'iniziativa (al fine di rendere possibile la restituzione del capitale e degli interessi sui prestiti che erano stati da loro erogati) di indurre i loro "clienti" a porre in essere le operazioni consistenti nelle compravendite simulate consentendo loro di ottenere dei mutui fondiari con i quali, per l'appunto, ripianare le situazioni debitorie pregresse; non senza, a quel punto, la dazione, in contanti, ed a titolo di remunerazione e compenso del loro operato, di una quota parte consistente (e, come pure si è detto, incontestatamente usuraria) dell'importo in tal modo ottenuto.
In altri termini, dunque, indipendentemente dalla effettiva configurabilità di una ipotesi di concorso nel reato di truffa (che, infatti, in uno degli episodi è stata effettivamente oggetto di contestazione), la vicenda delineata nelle due sentenze di merito e, in particolare, in quella di primo grado, è di una condizione di assoluto squilibrio e di svantaggio in cui le persone offese si erano trovate di fronte ai "mediatori" finanziari tanto da vedersi costrette ad accedere alle "proposte" provenienti da costoro sino ad essere indotti a coinvolgere parenti e terzi in operazioni" truffaldine.
4. La Corte di Appello, esaminando il motivo del gravame proposto nell'interesse del B., ha spiegato, in primo luogo, che l'art. 644 c.p. disciplina due diverse figure di reato e, in particolare, al comma 2, quella della "mediazione usuraria".
Ha sottolineato come il reato di truffa possa certamente concorrere (per meglio dire, coesistere) con quello di usura trattandosi di condotte distinte sul piano materiale e, nel caso di specie, anche sul piano temporale oltre che consumate in danno di soggetti diversi.
Più in particolare, ha escluso che la circostanza che il denaro erogato dagli istituti di credito fosse il provento del delitto truffa facesse "venir meno la natura dello stesso, e cioè di finanziamento, inserito in uno schema contrattuale che lo qualifica come tale" sottolineando come il contratto sia certamente efficace salvo essere annullabile ai sensi dell'art. 1439 c.p..
Per altro verso, ha fatto presente che il concorso dei B. nella truffa non consente di escludere il suo ruolo di "intermediario" nella erogazione del credito con conseguente integrazione della ipotesi delittuosa prevista al capoverso dell'art. 644 c.p. nel caso di pretesa di un compenso obiettivamente sproporzionato.
5. Si tratta della ipotesi nota come "mediazione usuraria" configurabile nei confronti di "... chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal comma 1, procura a taluno una somma di denaro od altra utilità facendo dare o promettere, per sè o altri, per la mediazione, un compenso usurario".
Come tradizionalmente (e icasticamente) osservato dalla dottrina, la norma incriminatrice colpisce "l'avida condotta di quei loschi individui che, intromettendosi tra chi presta e chi riceve denaro, riescono ad assicurarsi guadagni esorbitanti".
Presupposto negativo per la configurabilità del delitto, come per l'appunto si desume dalla esplicita clausola di riserva, è che il fatto della mediazione non costituisca concorso nel reato di usura: l'agente, cioè, non deve aver operato come intermediario per la conclusione di un contratto nella consapevolezza che questo avrebbe implicato la pretesa di oneri usurari.
Ne consegue che la fattispecie in esame sarebbe di difficile applicazione proprio all'ipotesi più frequente di mediazione, ravvisabile nel fatto di chi, a propria volta usurato, procuri al proprio creditore altre potenziali vittime, ottenendo, in tal modo, vantaggi sia dall'uno - dilazioni ulteriori, abbuoni del proprio debito o, semplicemente, a promessa di una partecipazione all'utile" con cui pagare gli interessi arretrati - sia dalle altre, dalle quali lucri un compenso eccessivo per la mediazione.
Per la sussistenza del reato occorre ed è sufficiente, allora, che sia usurario il compenso per la mediazione, mentre non è necessario che sia usurario anche il contratto principale, nei qual caso potrà semmai aversi concorso nell'usura.
Dal punto di vista dell'elemento oggettivo, per la mediazione usuraria non è previsto un tasso soglia predeterminato ex lege, per cui l'usurarietà del compenso della mediazione non può che essere valutata "in concreto" ancorchè, come correttamente segnalato dal Tribunale, alla luce dei costi delle spese ordinariamente praticati nel settore bancario per operazioni similari ed oscillanti tra lo 0,1% e lo 0,5% dell'importo erogato (cfr., pag. 16 della sentenza di primo grado).
Questa stessa Sezione ha avuto modo di affrontare una ipotesi di "mediazione usuraria" caratterizzata dalla c.d. usura "in concreto" in una fattispecie analoga a quella che ci occupa, in cui i mutui erano stati erogati mediante il ricorso ad pratiche "truffaldine" identiche, ovvero attraverso la simulazione di compravendite immobiliari; ed in effetti Cass. Pen., 2, 29.3.2017 n. 26.214, Gallicchio (massimata nel senso che in tema di usura cosiddetta in concreto, di cui all'art. 644 c.p., comma 3, seconda parte, al fine della verifica della sproporzione degli interessi, dei vantaggi e dei compensi pattuiti, per l'accertamento della "condizione di difficoltà economica" della vittima deve aversi riguardo alla carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a fronte di una condizione patrimoniale di base nel complesso sana, laddove, invece, la "condizione di difficoltà finanziaria" investe più in generale l'insieme delle attività patrimoniali del soggetto passivo, ed è caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni) riguardava una vicenda in cui la Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito avessero affermato la penale responsabilità dell'imputato per aver ottenuto un compenso "usurario" in relazione alla mediazione svolta per l'erogazione di un mutuo bancario destinato alla persona offesa, che versava in grave difficoltà economica, come risultante, in particolare, dalla destinazione della maggior parte della somma mutuata all'estinzione dei debiti che la affliggevano; la decisione, ancorchè massimata come sopra, riguardava per l'appunto una fattispecie in fatto del tutto analoga a quella che ci occupa, in cui la erogazione di un mutuo era stata il frutto di attività truffaldina posta in essere dall'"intermediario" unitamente all'"usurato" e la acquisizione, da parte del primo, di un compenso superiore al tasso soglia, come si rileva dal corpo della motivazione dove era stata sinteticamente richiamata la vicenda osservando che "si rilevava che sia il D. che il D.B. e lo Z. avevano concordemente confermato sia la progettazione che l'esecuzione della compravendita simulata finalizzata a far incamerare al Carta le somme del mutuo che avrebbero dovuto sanare la sua grave situazione debitoria. Del pari, risultava dimostrata l'esistenza dello stato di difficoltà economica della persona offesa sulla base dei contenuti delle testimonianze raccolte e delle emergenze documentali, ovvero delle attestazioni dei pagamenti effettuati con la somma ricevuta a titolo di mutuo, che risultava essere stata destinata, per la maggior parte, proprio all'estinzione dei debiti che affliggevano il Carta (pag. 10 della sentenza impugnata".
Infine, dal punto di vista soggettivo, la norma richiede esclusivamente il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di procurare denaro o altra utilità e di far dare o promettere, a sè o ad altri, quale prezzo della prestata mediazione, un compenso usurario oltre alla consapevolezza della situazione di inferiorità o delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria in cui versa la vittima.
6. Il riferimento alla ricostruzione in fatto consente, inoltre, di superare ogni perplessità, pur ventilata dalla difesa sotto il profilo della violazione di legge con riguardo al'art. 1754 c.c., circa la qualificazione dell'odierno ricorrente quale "mediatore" nella erogazione dei mutui fondiari di cui si discute: sul punto specifico, infatti, il Tribunale, nel passare in rassegna tutti gli elementi costitutivi del delitto di mediazione usuraria (cfr., pag. 15 della sentenza di primo grado), aveva espressamente sottolineato, tra questi, proprio "il fattivo svolgimento di opera di intermediazione nei finanziamenti fondiari, a partire dalla soluzione proposta ai debitori, per poi occuparsi del disbrigo delle pratiche e reperimento della documentazione necessaria (artatamente alterata per consentire l'esito positivo del finanziamento fondiario), dei rapporti con gli istituti di credito appositamente scelti per l'erogazione del mutuo (sfruttando pregresse conoscenze personali nel settore creditizio), fino alla conclusione degli atti notarili di compravendita e di contestuale erogazione dei mutui (anche presenziando alla sottoscrizione)".
Il Tribunale aveva inoltre spiegato che "... l'opera prestata dalla PRAIIM, da qualificare come mera mediazione, esulava dal costo economico delle operazioni di finanziamento fondiario (attinente al mutuo fondiario e regolato direttamente tra l'istituto di credito mutuante ed il mutuatario, che agiva per conto dei reali beneficiari del finanziamento) e non determinava alcun rischio economico per gli autori della intermediazione" (cfr., ivi, pagg. 15-16).
Da questo punto di vista è infatti pacifico che l'obbligo di restituzione gravava integralmente sui destinatari finali del mutuo (ovvero i simulati venditori) anche per la quota parte destinata quale remunerazione per l'attività di mediazione che, pertanto, era rimasta integralmente a carico dei primi quale costo dell'intervento e della attività mediante la quale era stato possibile ottenere il mutuo.
7. Fuori luogo, ancora, è il riferimento all'art. 2035 c.c. (espressione, secondo la difesa, del principio "in pari causa turpitudinis melior est conditio possidentis") che il ricorso invoca per sostenere che, in quanto concorrenti con l'imputato (ed i correi) nelle truffe poste in essere in danno degli istituti di credito, i destinatari finali dei finanziamenti così ottenuti non avrebbero mai potuto essere considerati "vittime" e, dunque, assumere una posizione soggettiva attiva nei confronti del ricorrente.
In più occasioni, infatti, questa Corte, anche nel suo massimo consesso nomofilattico, ha avuto modo di chiarire che l'unica eccezione alla ripetibilità dell'indebito è data dalla prestazione contraria al buon costume (art. 2035 c.c.), mentre va ricondotto allo schema dell'indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) il diritto alla restituzione delle somme pagate anche in esecuzione di contratto nullo, in quanto viziato, tra l'altro, da motivo illecito, unico ed esclusivo.
Alla luce di questo principio, quindi, si è affermato che non costituisce preclusione alla condanna del pubblico ufficiale alla restituzione della somma versatagli dal privato, diritto il cui esercizio non è incompatibile con la qualità di imputato che, in conseguenza del contratto illecito, possa assumere colui che ha indebitamente pagato, poichè il titolo alla restituzione risiede nel fatto oggettivo dell'eseguito pagamento "non dovuto" (cfr., Cass. Pen., 6, 13.3.1993 n. 5.226, Di Tommaso, resa in una fattispecie relativa al reato di cui all'art. 319 c.p.).
Il medesimo principio è stato affermato anche in tema di (concorso in) truffa, in cui si è sottolineato che la natura illecita del patto intercorso con la persona offesa non impedisce la condanna dell'imputato alla restituzione della somma di denaro versatagli dalla vittima, poichè unica eccezione alla ripetibilità dell'indebito è data dalla prestazione contraria al buon costume (art. 2035 c.c.), mentre va ricondotto allo schema dell'indebito oggettivo (art. 2033 c.c.) il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di contratto nullo per illiceità della causa perchè contraria all'ordine pubblico (cfr., Cass. Pen., 2, 17.9.2010 n. 35.352, resa in un caso in cui la Corte ha respinto il ricorso di un funzionario delle Poste Italiane condannato per truffa aggravata per aver falsamente promesso a dei genitori l'assunzione delle figlie in cambio di denaro, affermando che "il traffico di posti di lavoro, anche al di fuori di ipotesi riconducibili al delitto di corruzione o di millantato credito, costituisce comunque causa illecita perchè contraria non tanto al buon costume (concetto che evoca, più propriamente, le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza), quanto all'ordine pubblico" e, per l'appunto, dichiarando inammissibile l'impugnazione del funzionario che aveva impugnato la sentenza della Corte d'Appello "per essere stata ammessa la costituzione di parte civile delle persone offese nonostante che l'accordo fra costoro e il ricorrente fosse lato sensu corruttivo, moralmente riprovevole e comunque caratterizzato da causa contraria al buon costume e non da una mera illiceità legale (come invece affermato dalla Corte territoriale), il che ex art. 2035 c.c. escludeva l'azionabilità della pretesa restitutoria"; la Corte ha ritenuto infondata la tesi del ricorrente, precisando che "nel caso in esame la norma di riferimento non è l'art. 2035 c.c., bensì l'art. 2033 c.c., che sancisce la ripetibilità dell'indebito oggettivo, compreso quello derivante - come nella vicenda in discorso - da nullità del contratto per illiceità della relativa causa ai sensi del combinato disposto dell'art. 1343 c.c. e dell'art. 1418 c.c., comma 2 in quanto contraria all'ordine pubblico").
Analogamente, in tema di millantato credito, sì è chiarito che il millantatore è tenuto a restituire alla parte offesa quanto abbia da questa ricevuto, quale prezzo della propria mediazione o del favore del pubblico ufficiale, nonostante l'illiceità penale dell'accordo il quale, di per sè, non costituisce offesa al buon costume, giacchè l'art. 185 c.p., rinviando alla disciplina delle norme del diritto civile, esclude la ripetizione dell'indebito oggettivo, ossia della prestazione fornita in esecuzione di un reato, solo nel caso in cui esso sia corrispettivo di una prestazione il cui scopo è contrario al buon costume (cfr., Cass. Pen., 6, 22.5.2003 n. 39.089, Maggio).
In generale, il principio era stato posto dalle SS.UU. "Serafino" de 1995 (Cass. SS.UU. 27.9.1995 n. 10.372) che aveva giudicato inammissibile per difetto di interesse dell'imputato, il quale aveva concordato la pena per il delitto di cessione di sostanza stupefacente, il ricorso con cui era stata impugnata la statuizione accessoria di confisca della somma ricevuta in pagamento dall'acquirente e sequestrata al momento dell'arresto in fragranza di reato; nell'occasione le SS.UU. hanno sottolineato che negozio di cessione a fine di consumo di sostanza stupefacente è un atto contrario a norme imperative, ma non anche al buon costume, in quanto, mentre la contrarietà di un atto al buon costume, deve essere necessariamente bilaterale, nel negozio in questione è penalmente illecita solo la condotta di chi vende, non anche quella di chi acquista per uso personale; da questa premessa, hanno tratto a conseguenza per cui non può applicarsi il principio "in pari causa me(ior est condicio possidentis" che è proprio dei negozi contrari al buon costume, onde lo spacciatore non ha diritto di ritenzione delle somme ottenute dalla cessione.
In definitiva, quindi, l'argomento utilizzato dalla difesa per sostenere la propria ricostruzione giuridica della vicenda non coglie nel segno perchè la giurisprudenza di questa Corte in materia di indebito oggettivo e di atti contrari al buon costume consente di concludere ne senso opposto, ovvero nel senso che la partecipazione alle operazioni truffaldine (come detto, peraltro, ideate ed orchestrate dai "mediatori") nei confronti degli istituti bancari non comporta la incompatibilità di costoro con la assunzione della veste di "persona offesa" nel (peraltro diverso e distinto, sia sul piano della condotta materiale che sul piano cronologico) reato di "mediazione usuraria".
7. Si deve concludere, dunque, per la infondatezza del ricorso proposto nell'interesse di B.R..
Il difensore, in sede di discussione, ha sollecitato la Corte a vagliare la eventuale maturazione del termine di prescrizione dei reati.
Ebbene, il fatto di cui capo c) è stato contestato come commesso in (OMISSIS) "alla fine dell'anno (OMISSIS)" sicchè il termine massimo di prescrizione (pari, ex art. 161 c.p., comma 2, è pari ad anni 12 e mesi 6) è pertanto maturato entro il mese di (OMISSIS).
La ammissibilità del ricorso impone, di conseguenza, di prendere atto della intervenuta estinzione del delitto di cui al capo c) della rubrica (maturata, come si è appena segnalato, in data successiva alla sentenza di secondo grado) ben potendo, in questa sede, ed ai sensi dell'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), procedersi alla eliminazione della pena che era stata irrogata per quella ipotesi di reato e, in particolare, nell'aumento per la continuazione sul delitto di cui al capo (pari a mesi 2 di reclusione ed Euro 1.000 di multa), con conseguente rideterminazione della pena finale in quella di anni 2 e mesi 4 di reclusione ed Euro 7.000 di multa.
Il fatto di cui al capo d), invece, è stato contestato come commesso in (OMISSIS) e, sempre considerando il termine massimo di 12 anni e 6 mesi, la causa estintiva sarebbe maturata alla fine del mese di (OMISSIS) qualora non fosse intervenuta la sospensione prevista dal D.L. 18 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 4 convertito, con modificazioni, con la L. 24 aprile 2020, n. 27, a sua volta modificata dal D.L. 30 aprile 2020, art. 3, comma 1, lett. h), convertito con la L. 25 giugno 2020, n. 70 (cfr., sulla compatibilità dell'intervento normativo emergenziale con il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole di cui all'art. 25 Cost., comma 2, Cass. Pen., 3, 2.7.2020, in proc. De Marco).
I fatti contestati al capo f) risalgono a loro volta al (OMISSIS) per cui il termine massimo di cui sopra scadrà soltanto nel (OMISSIS) mentre quelli contestati nel procedimento riunito (in danno di D.M.F. e A.C.), risalgono al (OMISSIS) per cui il termine massimo maturerà nel (OMISSIS).
P.Q.M.
annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo c) perchè estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi 2 di reclusione ed Euro 1.000 di multa.
Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena in anni 2 e mesi 4 di reclusione ed Euro 7.000 di multa.
Così deciso in Roma, il 13 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2020