Violenza privata: è sufficiente il dolo generico
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Cassazione penale sez. V, 24/10/2022, n.2220

Ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare, che costituisce l'antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale.

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza emessa il 2 novembre 2021, riformava parzialmente, riconoscendo la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p., la sentenza del Tribunale milanese, che aveva accertato la responsabilità penale di C.M., riqualificando l'originaria condotta di violenza privata aggravata in tentativo di violenza privata, con esclusione dell'aggravante dell'arma.

In particolare l'originaria contestazione, rilevante al fine dell'esame dei motivi di ricorso, risultava così formulata: "del delitto p. e p. dagli artt. 610 e 339 c.p. perché, con violenza e minaccia, anche estraendo la pistola marca Glock, regolarmente detenuta - costringeva M.H.O. a chiedere scusa a V.S. e P.V.. Più precisamente, dopo essere stato informato dalle donne delle molestie subite ad opera del M. di cui al capo 1, si dirigeva, seguito dalle stesse, in piazza (Omissis) all'ingresso della Stazione Centrale di (Omissis) e, riconosciuto l'uomo, inizialmente l'aggrediva afferrandolo per il collo e gettandolo a terra, colpendolo con calci a corpo; dopo di che, nonostante non vi fosse stata alcuna reazione da parte del M., estraeva la pistola impugnandola di fronte all'uomo, urlando frasi del tipo "ti ammazzo chiedi scusa...mettiti in ginocchio e chiedi scusa", poi una volta riposta l'arma nella tasca dei suoi pantaloni lo colpiva con uno schiaffo al volto, tentando poi di aggredirlo nuovamente nonostante l'intervento delle guardie giurate e di altre persone presenti in stazione. Con l'aggravante di aver commesso il fatto con l'uso dell'arma. In (Omissis)".

2. Il ricorso per cassazione, proposto nell'interesse di C.M., consta di unico motivo, variamente articolato, enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p..

3. Il motivo deduce violazione degli artt. 610 e 43 c.p., nonché vizio di motivazione conseguente.

3.1 Lamenta il ricorrente che la Corte di appello non avrebbe tenuto conto del contenuto di una memoria difensiva depositata nel corso del giudizio, con la quale si prospettava che la volontà dell'imputato fosse quella di procedere all'arresto dello straniero, come emerso dalle dichiarazioni della V. e del teste D.C., oltre che da quelle dello stesso imputato, riportate in ricorso.

3.2 Il motivo di ricorso rappresenta inoltre come la Corte di appello abbia anche errato, in quanto non avrebbe valutato che, almeno putativamente, l'imputato avesse ritenuto sussistenti le condizioni per l'arresto dai parte del privato ex art. 383 c.p.p., cosicché il dolo avrebbe avuto ad oggetto la volontà di procedere all'arresto e non di costringere la persona offesa a fare alcunché. Tale volontà, disconosciuta dalla Corte ai fini della scriminante della condotta, sarebbe stata poi richiamata contraddittoriamente a proposito della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p..

Anche la condotta materiale, come accertata dalla Corte di appello, risulterebbe poi monca dell'elemento ulteriore rispetto alla violenza in sé, richiesto dall'art. 610 c.p., rispetto al quale la Corte territoriale non avrebbe preso atto degli esiti dell'istruttoria dibattimentale.

3.3 Il motivo, infine, deduce nullità della sentenza, non rilevata dalla Corte di appello nonostante apposita censura, per difetto di correlazione fra imputazione e decisione, lamentando che i Giudici del merito avrebbero ritenuto la responsabilità dell'imputato per un fatto diverso rispetto a quello contestato, in ragione del venir meno dell'uso della pistola come elemento caratterizzante la condotta di violenza privata contestata, con violazione del diritto di difesa.

4. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte - ai sensi del D.L. n. 127 del 2020, art. 23, comma 8, - in data 3 ottobre 2022, con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, per un verso rappresentando come i motivi di ricorso reiterino in sede di legittimità le analoghe censure già sottoposte al vaglio dei giudici di merito e rigettate dagli stessi con motivazione congrua e priva di vizi logici, inoltre prospettando soltanto una diversa valutazione dei fatti; per altro verso, risultando manifestamente infondata la censura quanto alla nullità della sentenza per violazione dell'art. 522 c.p.p..

5. In data 10 ottobre 2022 in replica alla requisitoria del Procuratore generale la difesa del ricorrente depositava memoria con la quale, confutando le argomentazioni del Pubblico ministero, chiedeva accogliersi il ricorso.

6. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto del D.L. n. 105 del 2021, art. 7, comma 1.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.

2. Va premesso che pacifico è l'orientamento per il quale sussiste l'interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza che esclude la punibilità di un reato in applicazione dell'art. 131-bis c.p., trattandosi di pronuncia che ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nonché per essere la sentenza soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale, ostando la pronuncia emessa per altro alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi del comma 3 della medesima disposizione (Sez. 1, Sentenza n. 459 del 02/12/2020, dep. 2021, De Venuto, Rv. 280226 - 01; Sez. 6, n. 44627 del 03/10/2019, Di Pasquale, Rv. 277215 - 01): deve tuttavia essere indicato in modo specifico nel ricorso il concreto svantaggio processuale da rimuovere e le ragioni che avrebbero dovuto portare il giudice ad una decisione ampiamente liberatoria (Sez. 5, n. 44118 del 10/10/2019, P., Rv. 277847 - 01).

Tale ultima condizione, rappresentativa di un interesse concreto e delle censure quanto all'iter motivazionale, nel caso in esame si verifica ampiamente, in quanto il ricorrente ha chiarito le ragioni di ricorso per le quali richiede un proscioglimento nel merito.

3. Tanto premesso, in ordine logico va trattata la questione della dedotta nullità della sentenza, per violazione dell'art. 522 c.p.p..

A riguardo rileva questa Corte come assolutamente corretta e condivisibile sia la motivazione impugnata, che sul punto chiarisce come l'esclusione della circostanza aggravante dell'uso dell'arma e la riqualificazione nella forma tentata della condotta di reato, contestata originariamente come consumata, non determinino un mutamento del fatto tale da integrare la "diversità" da quello in origine contestato.

Nel caso di specie, come osservato dalla Corte territoriale, si verte nell'ambito di una contestazione più grave che "contiene" quella ritenuta meno grave.

Va premesso che dall'esame delle sentenze di merito emerge come la pistola fosse stata detenuta da C. e impugnata, a fronte del pericolo della reazione del M. con un coltello, verso il basso, pronta all'uso nel solo caso di necessità, ma non utilizzata per la minaccia contestata.

A riguardo questo Collegio rileva come la Corte di merito abbia fatto buon governo dei principi in materia.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, sicché l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. Un. 36551 del 15/07/2010, Carelli, rv 248051; nello stesso senso: Sez. Un. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, rv 205620).

Nel caso in esame, la tesi sostenuta dal ricorrente, che il venir meno dell'uso dell'arma avrebbe mutato il fatto contestato, si fonda su un assunto errato: che nella contestazione sia rinvenibile una prima parte della condotta senza arma e una seconda, nella quale vi è l'intimazione alla persona offesa di "chiedere scusa e di inginocchiarsi", che verrebbe travolta dall'assenza dell'arma.

In vero l'imputazione, come hanno rilevato l'Giudici di merito, è caratterizzata dalla condotta di violenza commessa con l'aggressione, la presa al collo, la spinta a terra, i colpi con i calci al corpo, e poi un ulteriore schiaffo al volto e il tentativo di aggressione ulteriore, rispetto al quale, come in esordio l'imputazione riporta, la condotta di violenza e minaccia viene compiuta "anche estraendo la pistola marca Glock", con il ché è evidente che il fatto storico contestato resta immutato e che il venire meno dell'aggravante ex art. 339 c.p. non lo muta radicalmente, essendo una circostanza aggravante elemento non essenziale della condotta.

Pertanto, la rilevata insussistenza della violazione del principio di correlazione e la riconducibilità della qualificazione del fatto ne novero dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (Sez. 6, n. 11956 del 15/02/2017, B, Rv. 269655), priva di consistenza la violazione dedotta con riguardo alla mancata instaurazione del contraddittorio.

Il motivo è inammissibile perché manifestamente infondato, oltre che meramente reiterativo di quello formulato in appello.

4. Quanto alle censure indicate ai punti 3.1 e 3.2 vanno trattate unitariamente, per evidente connessione e risultano manifestamente infondate.

4.1 A ben vedere, seppur nell'ambito della sentenza impugnata non vi è menzione della memoria depositata, è anche vero che la memoria è riprodotta solo in parte nel ricorso, senza allegazione della stessa o prova della indicazione alla cancelleria del giudice a quo ai sensi dell'art. 165 disp. att. c.p.p., comma 2.

Pertanto la censura relativa alla omessa valutazione della memoria difensiva sul punto è inammissibile, in quanto lo è il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione e, pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze, dandosi così luogo ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p. (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419 - 01; Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, Sentenza n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. 3, Sentenza n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994 Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale, Rv. 256723).

E comunque la doglianza, veicolata attraverso la memoria e riprodotta in ricorso, trova adeguata risposta nella sentenza impugnata, in quanto la tesi propugnata dal ricorrente, che la volontà di C. fosse quella di procedere all'arresto del M., che aveva palpeggiato e infastidito la compagna e la figlia, viene nettamente esclusa dalla Corte di appello, che condivide la valutazione del Tribunale.

A tale esito la Corte territoriale giunge grazie ai filmati, dai quali emergeva che C., senza alcun indugio e senza dire alcunché, correndo incontro al M., lo ebbe immediatamente ad aggredire, spingendolo a terra e prendendolo a calci, indicando la compagna e la figlia di lei e dicendo qualcosa, cioè invitando il predetto a chiedere scusa alle due donne.

In sostanza la Corte di merito evidenzia come tale condotta appaia del tutto incompatibile con la versione difensiva della finalità di arresto, anche alla luce della testimonianza della V., la cui deposizione viene richiamata dai Giudici dell'appello, avendo ella riferito che l'imputato aveva intimato, urlando al M., di mettersi in ginocchio e chiedere scusa, come per altro lo stesso C. aveva confessato (cfr. fol. 6 della sentenza impugnata).

La dinamica, come ricostruita, esclude che la finalità dell'arresto fosse quella immediatamente perseguita da C., risultando invece l'azione violenta funzionale a ottenere e a costringere M. alle scuse per la compagna e la figlia.

4.2 A fronte di ciò il ricorso deduce travisamento delle prove, inserendo brani delle dichiarazioni dei predetti nel ricorso medesimo.

Proprio per il predetto principio di autosufficienza, per un verso, andava allegata l'intera deposizione, non solo singoli brani, e comunque, per altro verso, difetta il motivo di decisività, in quanto pur venendo meno le fonti di prova orale "resistono" quelle documentali come i filmati richiamati, che hanno ripreso la scena. Non a caso è lo stesso Tribunale di Milano, nella sentenza di primo grado, che indica come "decisiva" la visione dei filmati operata in udienza.

Infatti, quanto al primo profilo, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l'onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolare alcuni brani ovvero a sintetizzare il contenuto, giacche così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l'effettiva portata del vizio dedotto (Sez. 3, n. 19957 del 21/09/2016 - dep. 27/04/2017, Saccomanno, Rv. 2698010; Sez. 4 n. 37982 del.26 giugno 2008, Buzi, rv 241023).

Per altro, quanto al secondo profilo, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato (Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, 5., Rv. 277758).

E bene nel caso in esame, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre senza dubbio la cd. "doppia conforme", poiché la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218). Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, S., Rv. 277758; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774 - 01; Sez. 4 n. 19710 del 3 febbraio 2009, Buraschi, Rv 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207 - 01). Il che nel caso in esame non e'.

4.3 Pertanto il motivo di ricorso, inammissibile la censura per travisamento, al più chiede una rivalutazione dell'interpretazione delle dichiarazioni testimoniali, una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito, il che non è consentito alla Corte di legittimità.

Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell'apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito.

In altri termini, ai giudice di legittimità resta tuttora preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto. Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

Ne consegue l'inammissibilità sul punto del motivo.

4.4 Quanto poi alla ritenuta contraddizione, rinvenibile nella sentenza impugnata, in merito al richiamo ai motivi che hanno spinto a intervenire C., vale a dire l'intenzione di procedere all'arresto ai sensi dell'art. 383 c.p.p., richiamati per giustificare il riconoscimento della causa di non punibilità per tenuità particolare del fatto, questa Corte non rinviene alcuna aporia logica fra tale affermazione e la ritenuta sussistenza del dolo del delitto di violenza privata.

Per un verso quella dei motivi di assicurare alla giustizia l'aggressore delle congiunte viene indicata come una delle concause giustificative della ritenuta tenuità (fol. 6 della sentenza impugnata), non l'unica, rilevando a tal proposito anche l'occasionalità dell'episodio, l'incensuratezza dell'imputato, l'assenza di danni alla persona offesa.

D'altro canto, il richiamo alla volontà di assicurare alle forze dell'ordine il M., costituisce elemento non in grado di scalfire l'intera ricostruzione probatoria emergente dai dati oggettivi, sia quanto alla condotta materiale sia anche quanto a quella verbale, che certamente era tesa a ottenere le scuse e a far inginocchiare il M. e non certamente all'arresto, come si evince dal complesso della motivazione della sentenza di appello, in uno a quella di primo grado.

Tanto più che della "tesi" dell'arresto del privato non vi è traccia nella sentenza di primo grado, evidentemente non riferita dallo stesso imputato in sede di esame e non presa in considerazione, quindi, da parte del giudice.

Dalla ricostruzione operata, i Giudici di merito hanno ritenuto comprovato il dolo richiesto dalla norma incriminatrice, che consiste, ai fini della configurazione del reato di violenza privata, nella necessaria e sufficiente coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare: il dolo e', pertanto, generico (Sez. 5, n. 40488 del 28/05/2018, Burzomì, Rv. 273873 - 01; Sez. 5, n. 4526 del 03/11/2010, dep. 2011, Picheca, Rv. 249247 - 01; contra, sostenendo la natura di dolo specifico, Sez. 1, n. 11525 del 28/05/1987, Giardino, Rv. 176995 - 01).

A questo orientamento prevalente aderisce il Collegio, in quanto il dolo specifico richiede un fine ulteriore, che deve essere tipizzato dalla norma incriminatrice, e nel caso in esame non lo e', che sta al di là del fatto che integra il delitto, che nel caso in esame è reato di evento, ove l'evento è proprio consistente nella ottenuta omissione o commissione, alla quale era finalizzata la costrizione della persona offesa, prodotta con la minaccia o la violenza.

Difatti l'elemento oggettivo del reato di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, diversa e ulteriore rispetto al fatto in cui si esprime la violenza, sicché il delitto di cui all'art. 610 c.p. non è configurabile qualora gli atti di violenza e di natura intimidatoria integrino, essi stessi, l'evento naturalistico del reato, ossia il "pati" cui la persona offesa sia costretta (Sez. 5, n. 6208 del 14/12/2020, dep. 2021, Milan, Rv. 280507 - 01: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il reato di violenza privata nella condotta di un gruppo di manifestanti che, dopo aver fatto irruzione nella sala di un convegno, avevano minacciato il relatore, così da costringere questi ed i partecipanti a subire, per un apprezzabile lasso temporale, l'interruzione dell'attività scientifica in atto; massime conformi: n. 47575 del 2016 rv. 268405 01, n. 1215 del 2015 rv. 261743 - 01, n. 10132 del 2018 rv. 272796 - 01).

In sostanza occorre che il costringimento si verifichi a causa della violenza e della minaccia e che sussista il dolo generico avente ad oggetto tale evento di costrizione come conseguenza della propria condotta.

Infatti, il delitto di violenza privata tende a garantire non la libertà fisica o di movimento, bensì la libertà psichica dell'individuo e perciò si realizza quando l'agente, col suo comportamento violento o intimidatorio, eserciti una coartazione, diretta o indiretta, sulla libertà di volere o di agire del soggetto passivo, così da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione. Presupposto essenziale del delitto è dunque la preesistenza di una libertà di determinazione e di azione di chi subisce la condotta criminosa. Questo effetto è quello che l'agente si propone di realizzare e si identifica pertanto, anche nella prospettiva psicologica, con lo scopo di costringere altri a tenere un determinato comportamento, senza che abbiano rilievo rispetto a quello immediatamente perseguito, fini ulteriori o mediati e tanto meno i particolari motivi dell'azione (Sez. 5, n. 4554 del 14/01/1987, Amore, Rv. 175659 - 01).

E quindi, irrilevante è il motivo della condotta posta in essere, anche a voler ritenere che l'ulteriore movente di C. fosse quello dell'arresto da parte del privato.

L'irrilevanza dei motivi rispetto alla sussistenza del delitto di violenza privata è stata anche ritenuta in caso di fine di scherzo: tale finalità è idonea ad escludere il dolo del reato solo qualora non venga posta in essere con la volontà, o l'accettazione del rischio, di determinare la lesione tipica, configurandosi, altrimenti, come mero movente dell'agire, di per sé ininfluente ai fini della rilevanza penale del fatto (Sez.5, n. 40488 del 28/05/2018, Burzomì, Rv. 273873 - 01; Sez. 5, n. 2539 del 12/12/1984, dep. 1985, Fioretti, Rv. 168345 - 01).

Ne' è necessario che la condotta dell'agente sia diretta a conseguire un fine illecito, infatti, per il reato di violenza privata il dolo consiste nella sola coscienza e volontà di costringere altri, mediante violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che occorra il concorso di un fine particolare, né tantomeno illecito (Sez. 5, n. 70 del 14/11/1980, dep. 1981, Pasqua, Rv. 147220 - 01).

Ne consegue pertanto che quand'anche fosse provato il movente dell'arresto da parte del privato, come è ritenuto nella prospettazione difensiva, il che non è per la ricostruzione operata in sede di merito, lo stesso resta al di fuori del fuoco del dolo di violenza privata, risultando un fine ulteriore che non esclude il dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice, in questo caso la volontà di costringere la persona offesa a chiedere scusa: si ripropone, quindi, la distinzione fra il movente e il dolo, essendo indifferente il secondo rispetto al primo, ben potendo trattarsi di una finalità ulteriore, che però non annulla, né sostituisce, né neutralizza la coscienza e volontà del costringere a commettere alcunché con violenza o minaccia.

4.5 Va, pertanto, affermato il principio per cui il delitto di violenza privata, reato di evento, richiede soltanto il dolo generico, ossia la coscienza e volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un ulteriore fine particolare, che costituisce un antecedente psichico della condotta del tutto irrilevante, vale a dire il mero movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale.

Ne consegue, pertanto, l'inammissibilità dei motivi esaminati perché manifestamente infondati.

5. All'inammissibilità complessiva del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. 13/6/2000 n. 186).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2023

Violenza privata: è sufficiente il dolo generico

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