Violenza privata: per la configurabilità del tentativo non è necessario che la minaccia abbia intimorito il soggetto passivo
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Cassazione penale sez. V, 06/05/2019, n.34124

Ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, non è necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorché improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall'agente. (Nella specie, la Corte ha ritenuto configurabile il tentativo di violenza privata nella condotta della moglie separata che, per costringere il marito a non chiedere la modifica delle condizioni della separazione, aveva minacciato di impedirgli gli incontri con il figlio).

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Lecce ha riformato la sentenza del 30 settembre 2014 del Tribunale di Brindisi, che ha condannato C.S. per il delitto di tentata violenza privata commesso rivolgendo al marito, che aveva presentato ai sensi dell'art. 710 c.p.c. domanda per la modifica delle condizioni della separazione, la seguente frase: "Sei andato dagli avvocati, quei soldi te li potevi risparmiare... tanto non ti servirà a niente e ti conviene andare da loro e ritirare immediatamente tutto, altrimenti non ti farò vedere mai più tuo figlio...".

In particolare, la Corte di appello ha assolto l'imputata ai sensi dell'art. 131-bis c.p..

2. Ricorre per cassazione C.S., a mezzo del suo difensore, chiedendo l'annullamento della sentenza ed affidandosi a due motivi.

2.1. Con il primo motivo lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) e d), violazione della legge penale, delle norme processuali e mancata assunzione di una prova decisiva in riferimento all'art. 468 c.p.p., comma 4 e art. 495 c.p.p., comma 2.

Sostiene la ricorrente che la sua richiesta di ammissione di prova testimoniale contraria è stata dichiarata inammissibile dal Tribunale per non avere il suo difensore depositato la sua lista testimoniale.

Nell'atto di appello era stato dedotta la nullità dell'ordinanza che aveva dichiarato inammissibile l'istanza istruttoria, evidenziando che secondo la giurisprudenza di legittimità la prova contraria poteva essere richiesta anche qualora la parte non avesse depositato la sua lista testi.

La Corte di appello, pur concordando con il rilievo dell'appellante, aveva tuttavia confermato l'inammissibilità dell'istanza, sostenendo che era comunque necessario che la parte formulasse specifica richiesta di prova contraria sui fatti oggetto delle prove a carico, non essendo sufficiente un generico riferimento alle prove a discarico contenute nella lista depositata; a tal fine richiamava un precedente di legittimità (Sez. 6, n. 26048 del 17/05/2016, Gandini, Rv. 26697601).

In realtà la richiesta di ammissione di prova contraria, sostiene la ricorrente, era stata formulata correttamente e nel rispetto dei principi affermati nel precedente di legittimità richiamato dalla Corte di appello, cosicchè la richiesta non poteva ritenersi generica.

Sosteneva la ricorrente che la prova testimoniale non ammessa doveva ritenersi decisiva, considerato che l'unica prova assunta era la testimonianza della persona offesa.

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), violazione di norme processuali e omessa motivazione in relazione all'art. 597 c.p.p..

Nello specifico sostiene che dalla deposizione della persona offesa emergeva, per la genericità e la formulazione "probabilistica" della risposta alla domanda suggestiva del giudice di primo grado, che la frase attribuita alla C. - proprio perchè da questa già più volte pronunciata in altre occasioni, senza che ad essa fosse mai seguita la sua attuazione - aveva perso la sua efficacia intimidatoria e quindi era inidonea ad eliminare o ridurre la libertà di autodeterminarsi del soggetto passivo. Il fatto doveva semmai essere riqualificato come minaccia semplice, reato da dichiararsi estinto per effetto della remissione di querela.

La questione aveva costituito oggetto di un motivo di gravame sul quale la Corte di appello non si era pronunciata.

CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

La doglianza relativa alla mancata ammissione di prova decisiva non può prescindere - in ossequio al principio dell'autosufficienza del ricorso dall'assolvimento dell'onere di specificazione volto ad indicare il coefficiente di decisività della prova pretermessa, ossia la sua potenziale capacità, ove ammessa, di contrastare efficacemente le prove a carico sì da scardinare la tenuta logica del costrutto giustificativo della sentenza impugnata e da ribaltare il giudizio di colpevolezza.

Nel caso di specie, l'onere dell'allegazione non può dirsi assolto, avendo la ricorrente omesso di indicare le ragioni per le quali la prova non ammessa sarebbe stata capace di disarticolare il percorso logico-giuridico seguito del giudice a quo, valendo a dimostrare la reclamata innocenza dell'imputata, odierna ricorrente, non potendo ritenersi a tal fine sufficiente l'affermazione che l'accusa si basa esclusivamente sulle dichiarazioni accusatorie della persona offesa.

3. Il secondo motivo è infondato.

Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico-giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 25759501).

Il Tribunale ha affermato che "la minaccia utilizzata dalla C. era sicuramente idonea ad incutere timore ed a costringere il destinatario a tenere la condotta voluta dall'agente, atteso che è dato di comune esperienza quello per cui, in caso di ostruzionismo di uno dei genitori all'altrui diritto di visita, non v'è modo di obbligare all'adempimento del provvedimento emanato dal Tribunale in materia di affidamento del minore il genitore riottoso...".

La Corte di appello ha motivato per relationem, affermando che il Tribunale "ha ricostruito i fatti di causa in modo aderente alle risultanze probatorie e ha valutato correttamente l'unica prova orale, l'esame della persona offesa".

La motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: 1) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; 3) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione (Sez. 2, n. 55199 del 29/05/2018, Salcini, Rv. 27425201).

Nel caso di specie la Corte di appello ha motivato adeguatamente, evidenziando anche che la C. ha prospettato al marito un male ingiusto, ossia l'impossibilità per lo stesso di vedere suo figlio causata da comportamenti che sarebbero stati attuati dalla stessa odierna ricorrente, laddove egli non avesse rinunciato alla azione giudiziaria intrapresa nei di lei confronti. La Corte di appello ha dato prova di avere preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e di averle meditate e ritenute coerenti con la sua decisione.

Peraltro gli argomenti addotti dall'odierna ricorrente a sostegno della inidoneità della minaccia sono privi di consistenza.

La configurabilità del tentativo di violenza privata (artt. 56 e 610 c.p.) non esige che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, anche se improduttiva del risultato perseguito, essendo sufficiente che si tratti di minaccia idonea ad incutere timore e diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall'agente (Sez. 5, n. 40782 del 11/07/2013, C, Rv. 25720101; Sez. 5, n. 15977 del 04/03/2005, Colangelo, Rv. 23212901).

E' peraltro illogico sostenere che il costante uso della frase minacciosa da parte della C. avrebbe fatto perdere alla stessa la sua efficacia intimidatoria in quanto il soggetto passivo avrebbe sviluppato una sorta di assuefazione che lo avrebbe reso insensibile a tale forma di intimidazione.

Nè, trattandosi di tentativo, può rilevare la circostanza che il marito della ricorrente non abbia tenuto il comportamento al quale la C. voleva costringerlo.

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2019

Violenza privata: per la configurabilità del tentativo non è necessario che la minaccia abbia intimorito il soggetto passivo

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