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Violenza sessuale: sulla configurabilità dell'abuso della condizione di inferiorità psico-fisica della vittima

Violenza sessuale

Cassazione penale sez. III, 12/01/2021, n.16348

In tema di violenza sessuale, ai fini della configurabilità dell'abuso delle condizioni di inferiorità psico-fisica della persona offesa al momento del fatto, di cui all'art. 609-bis, comma 2, n. 1, c.p., non è necessario che la vittima sia minacciata al fine di compiere o subire atti sessuali, essendo la minaccia richiamata dalla norma esclusivamente nell'ipotesi del comma 1.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 18 novembre 2019, la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza del Gup del Tribunale di Trapani - resa all'esito di giudizio abbreviato - con la quale A.A. é stato condannato alla pena di anni 12 e mesi 6 di reclusione in ordine ai seguenti capi di imputazione: a) art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p., comma 1 e comma 2, n. 1), art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5), art. 609-septies c.p., comma 4, nn. 1) e 2), per aver costretto la figlia minorenne a compiere e subire atti sessuali consistiti in ripetuti rapporti anali, vaginali e orali, minacciandola di non farla uscire da casa in caso di rifiuto e abusando delle condizioni di inferiorità psichica della stessa al momento del fatto; b) art. 81 c.p., comma 2, art. 56 c.p., art. 610 c.p., comma 2, art. 612 c.p., comma 2, per avere posto in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere il figlio ad allontanarsi da casa, brandendo nei suoi riguardi un coltello e minacciandolo gravemente alla presenza del personale del Commissariato di Alcamo; d): art. 81 c.p., comma 2, art. 609-octies c.p., commi 1, 2 e 3, in relazione all'art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5), perché , in diverse occasioni, commetteva con la coniuge atti di violenza sessuale di gruppo nei confronti della figlia consistiti in rapporti anali e vaginali. Con la stessa sentenza, P.M.F. é stata condannata alla pena di anni 10 di reclusione, oltre che per il reato di cui al capo d) commesso in concorso con A.A., anche per il reato di cui al capo c) dell'imputazione (art. 40 c.p., comma 2, art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p., commi 1 e comma 2, n. 1), art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5), art. 609-septies c.p., comma 4, nn. 1) e 2), perché , venuta a conoscenza del fatto che il coniuge poneva in essere le condotte abusive di cui al capo a), non impediva l'evento delittuoso che, in qualità di madre della minorenne, aveva l'obbligo giuridico di impedire. 2. Avverso la sentenza entrambi gli imputati, tramite i rispettivi difensori, hanno proposto separati ricorsi per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. Con un primo motivo di doglianza, la difesa di A.A. deduce la violazione dell'art. 192 c.p.p. e vizi di motivazione della sentenza, sul rilievo che il giudice di secondo grado avrebbe fondato la condanna unicamente sulle dichiarazioni della persona offesa costituitasi parte civile, senza confrontarsi con le argomentazioni difensive rappresentate con l'atto di appello e volte a evidenziare diversi profili di inattendibilità soggettiva e oggettiva della minore. In particolare, il giudice non avrebbe tenuto in considerazione le risultanze della consulenza del perito S., il quale aveva constatato un leggero ritardo nell'apprendimento della minore e aveva rappresentato una situazione familiare gravemente compromessa e di traumaticità derivante dalla malattia della madre e dall'aggressività del padre nei confronti dei membri della famiglia, che aveva suscitato nella minore un sentimento di apprensione nei confronti della figura materna e di rancore verso quella paterna potenzialmente idonei ad indurla a mentire. Del pari, non sarebbero state valutate la discordanza e l'inconciliabilità delle versioni rilasciate dalla vittima nelle diverse fasi processuali, sia in merito alla manifestazione del consenso al compimento degli atti sessuali, sia in relazione al tipo di rapporti intrattenuti con l'imputato, dal momento che la minore aveva narrato agli inquirenti unicamente dei rapporti anali, riportando quelli orali solo in sede di incidente probatorio, e mai aveva riferito di avere intrattenuto anche rapporti vaginali, la cui presenza nelle refertazioni sanitarie valutate dal giudice quale elemento a supporto dell'impianto accusatorio si giustificherebbe, per la difesa, in ragione dei rapporti di tal tipo successivamente intrattenuti dalla minore con il proprio fidanzato. Si prospetta, inoltre, l'erronea qualificazione giuridica della condotta contestata al capo a) dell'imputazione, che sarebbe sussumibile sotto il diverso paradigma dell'art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2), difettando tanto la minaccia e l'abuso di autorità di cui all'art. 609-bis c.p., comma 1 quanto l'abuso delle condizioni di inferiorità di cui al comma 2, n. 1) stessa norma. Sotto un primo profilo, si argomenta che la versione resa dalla minore nel corso dell'incidente probatorio, secondo cui nel (OMISSIS) l'imputato aveva iniziato a usare violenza fisica nei suoi confronti e ad abusare sessualmente di lei, minacciandola che in caso di rifiuto le avrebbe impedito di uscire di casa, colliderebbe con quanto rappresentato dalla stessa al pubblico ministero, al quale aveva riferito che non vi era stata alcuna minaccia diretta rivoltale dal padre per il compimento degli atti sessuali, avendo lei stessa maturato autonomamente la convinzione che il padre le avrebbe impedito di uscire di casa in caso di rifiuto delle iniziative sessuali. Analogamente, il giudice, non avrebbe tenuto conto dell'orientamento giurisprudenziale tendente ad escludere la sussistenza del requisito dell'abuso di autorità ex art. 609-bis c.p., comma 1, nelle ipotesi di violenza sessuale commessa dal genitore ai danni dei figli; sul presupposto che tale concetto di abuso presupponga una posizione autoritativa di tipo formale o pubblicistico e l'affidamento del soggetto passivo all'ufficio ricoperto dall'agente. Sotto un secondo profilo, la Corte d'appello non avrebbe considerato che tanto la fattispecie di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), quanto quella di cui all'art. 609-quater c.p., presuppongono il consenso della vittima all'atto sessuale, che tuttavia nel primo caso é viziato dalla condizione di inferiorità della stessa, mentre nel secondo caso - che sarebbe quello di specie - é viziato unicamente dalla relazione di parentela, affidamento o convivenza. Si deduce altresì l'impossibilità di qualificare la condotta descritta al capo d) dell'imputazione quale violenza sessuale di gruppo, sul rilievo che, per la configurabilità di tale fattispecie, é necessario che gli agenti siano in numero superiore a due e compiano tutti attivamente e simultaneamente più condotte requisiti insussistenti nel caso di specie, che vede coinvolti solo i genitori della minore e la madre in qualità di mera spettatrice passiva degli atti sessuali e che sarebbero esclusi dall'ambito applicativo della norma in esame gli atti sessuali per i quali sia stato manifestato il consenso da parte del minore, che rientrerebbero piuttosto nell'ipotesi di atti sessuali con minore ex art. 609-quater c.p., commessi in concorso, con applicazione delle aggravanti ex art. 609-ter c.p., comma 1, nn. 1) e 5). 2.2. In secondo luogo, si lamentano la violazione dell'art. 62-bis c.p. e vizi di motivazione del provvedimento, in quanto il giudice avrebbe escluso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con motivazione apodittica, sebbene le dichiarazioni confessorie dell'imputato, da cui ha tratto origine il procedimento, costituissero un elemento positivamente valutabile. 2.3. Con un terzo motivo di ricorso, riferito al trattamento sanzionatorio, si lamentano violazioni di legge e vizi di motivazione, sul rilievo che la pena applicata dal primo giudice sarebbe eccessiva perché calibrata sul reato di cui al capo d) dell'imputazione, erroneamente qualificato per le ragioni rappresentate nei precedenti motivi, e perché ancorata al massimo edittale di anni dodici di reclusione, sebbene le dichiarazioni autoaccusatorie dell'imputato avrebbero dovuto essere valutate ai fini della mitigazione del trattamento sanzionatorio. In ogni caso, si deduce il difetto di congrua motivazione, richiamando giurisprudenza di legittimità secondo la quale grava in capo al giudice un onere motivazionale tanto più rigoroso quanto più la pena si allontana dal minimo edittale, non essendo sufficiente in siffatte ipotesi il generico richiamo alla entità del fatto e alla personalità dell'imputato. 3. Il ricorso di P. si articola su tre motivi analoghi nella forma e nella sostanza a quelli formulati nel ricorso del coimputato A.A., con l'unica peculiarità costituita dal fatto che nel primo motivo di ricorso, dopo aver censurato in generale l'inattendibilità della persona offesa, la difesa si sofferma sulle discrasie emerse nei racconti della medesima con specifico riferimento al reato di cui al capo c) della rubrica, contestato solo alla ricorrente. Si argomenta, in particolare, che la minore avrebbe ripetutamente cambiato versione in ordine al coinvolgimento della madre nelle condotte abusive perpetrate dal coniuge, prima negandolo e poi affermandolo su domande sollecitatorie degli organi inquirenti e che difetterebbero, in ogni caso, gli elementi costitutivi della condotta contestata, identificati dalla giurisprudenza di legittimità nella conoscenza o conoscibilità dell'evento, nella conoscenza dell'azione doverosa incombente sul titolare della posizione di garanzia, nonché nella possibilità oggettiva di impedire l'evento. Secondo la difesa, infatti, il grave deficit cognitivo che affligge l'imputata, la quale é soggetto affetto da epilessia e costante assuntore di farmaci, le avrebbe impedito di avere conoscenza degli abusi subiti dalla figlia; e la condizione di debolezza e remissività che caratterizza i suoi rapporti con il coniuge, accertata anche dai periti psichiatrici nel corso del giudizio, l'avrebbe resa in ogni caso del tutto incapace di impedire efficacemente le condotte violente perpetrate dallo stesso. 4. Con requisitoria scritta del 17 dicembre 2020, il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione ha concluso nel senso del rigetto di entrambi i ricorsi in quanto aventi ad oggetto censure di merito rispetto alle quali i giudici competenti si sono pronunciati con conformi, coerenti e logiche valutazioni. 5. Con memoria scritta del 29 dicembre 2020, il difensore dell'avv. Maria Lenglet, tutrice provvisoria della minore persona offesa, ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi, condividendo la tesi formulata dal Procuratore Generale; ha altresì presentato nota spese. Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Entrambi i ricorsi sono inammissibili perché diretti ad ottenere una rivalutazione di elementi già presi adeguatamente in considerazione, con conforme esito, dai giudici di primo e secondo grado, riducendosi ad una mera contestazione delle risultanze emerse dalla motivazione, senza la prospettazione di elementi puntuali, precisi e di immediata valenza esplicativa tali da dimostrare un'effettiva carenza motivazionale su punti decisivi del gravame (ex plurimis, Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, Rv. 276566; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). 1.1. Il primo motivo del ricorso proposto da A.A. é inammissibile. Le doglianze formulate della difesa, dirette a contestare la presunta inattendibilità soggettiva della persona offesa e l'omessa valutazione da parte del giudice di secondo grado delle discrasie emerse nelle dichiarazioni della medesima, non si confrontano con la motivazione fornita dal giudice d'appello, il quale (pag. 51) ha espresso un giudizio di piena attendibilità soggettiva e oggettiva della minore, richiamando, quanto al primo profilo, le conclusioni della consulenza svolta in data 7 maggio 2018 dal perito S., il quale ha constatato l'idoneità a testimoniare della vittima, quale soggetto perfettamente in grado di ricostruire con esattezza le vicende occorse nonostante la realtà di degrado in cui é stata cresciuta, i gravi traumi subiti e il lieve deficit nell'apprendimento, ed evidenziando, quanto al secondo profilo, che le poche discrasie riscontrate nelle dichiarazioni della minore attenevano ad aspetti del tutto marginali e irrilevanti, mentre le dichiarazioni della stessa risultavano nei punti fondamentali intrinsecamente lineari e coerenti, oltre che connotate da spontaneità, naturalezza, logica sequenzialità e precisione. Come adeguatamente messo in luce dal giudice di secondo grado (pag. 64), inoltre, le narrazioni della parte offesa risultavano suffragate dalle deposizioni di altri testimoni escussi in dibattimento ( A.S., A.G., C., Pa.), dall'esito della visita ginecologica compiuta sulla minore, attestante diversi rapporti sessuali non riconducibili a quelli intrattenuti con il fidanzato, nonché , seppure in maniera non decisiva, dalle dichiarazioni confessorie degli stessi imputati, i quali hanno però rilasciato versioni tra loro discordanti e intrinsecamente contraddittorie al fine di alleggerire la propria posizione processuale. In ogni caso, con specifico riguardo alle contestazioni mosse dalla difesa relativamente al capo a) dell'imputazione, deve rilevarsi che la sussunzione della condotta posta in essere dall'imputato sotto l'alveo dell'art. 609-bis c.p. risulta immune dai denunciati vizi. Innanzitutto, é priva di pregio l'argomentazione difensiva diretta a sostenere l'insussistenza dell'abuso di autorità di cui al comma 1, per l'assenza di una posizione autoritativa di tipo formale o pubblicistica rivestita dall'imputato, dal momento che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che tale nozione di abuso prescinde dalla qualifica rivestita dal soggetto agente (Sez. U, n. 27326 del 16/07/2020, Rv. 279520). Inoltre, la tesi difensiva che si appunta sull'assenza della condotta minacciosa posta in essere dal ricorrente ai danni della vittima e sull'assenza di abuso delle condizioni di inferiorità della stessa, sul rilievo che la minore avrebbe acconsentito agli abusi per l'autoconvinzione di subire ripercussioni negative in caso di rifiuto, é per un verso pretestuosa, trovando piena smentita - come evidenziato dalla Corte d'appello a pag. 48 della sentenza - nelle dichiarazioni della minore, la quale ha riferito che i rapporti sessuali avvenivano dietro minaccia di non poter uscire più di casa e di non poter utilizzare il telefono in caso di rifiuto, per altro verso del tutto priva di pregio, dal momento che quand'anche tale prospettazione fosse veritiera, il fatto che la minore avesse maturato una simile convinzione in ragione del tipo di intrattenuti con il padre é di per sé manifestazione dei gravissimi effetti che la condotta abusante dell'imputato ha causato sulla personalità della stessa ed é indice inequivocabile del fatto che la violenza sia stata sia stata accompagnata da un abuso che ha determinato nella minore una compromissione della libertà di autodeterminazione tale da assecondare, come se fossero normali e dovute, le richieste del padre. Ed invero, in plurimi passaggi del provvedimento impugnato (pagg. 31, 47 e 57) viene bene evidenziato che il consenso della minore al compimento degli atti sessuali é stato frutto della strumentalizzazione esercitata su di lei dall'imputato, il quale ha approfittato del generale clima di sopraffazione e della condizione di inferiorità psichica dalla minore stessa, dovuta al contesto socio-familiare di forte degrado, all'incompleto sviluppo emotivo, culturale e morale e alla giovane età, ponendo in essere condotte violente e minacciose volte a farle credere che, se non lo avesse accontentato in ogni richiesta, avrebbe patito gravi conseguenze. La conclusione cui é pervenuta la Corte d'appello risulta, inoltre, perfettamente in linea con gli orientamenti giurisprudenziali in materia, secondo i quali, per escludere la configurabilità del reato di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa é necessario accertare che il consenso eventualmente prestato dalla vittima non si configuri quale conseguenza della strumentalizzazione della inferiorità della stessa parte dell'autore del fatto, che abbia sfruttato le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell'atto da parte del soggetto passivo - che possono dipendere sia dal limitato processo evolutivo mentale e culturale sia dalla minore età accompagnata da una compromessa situazione individuale per indurla a subire atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (ex plurimis, Sez. 3, n. 52041 del 11/10/2016, Rv. 268615; Sez. 3, n. 17383 del 16/12/2014, dep. 27/04/2015, Rv. 263350; Sez. 3, n. 20766 del 14/04/2010, Rv. 247654). E la formulazione letterale dell'art. 609-bis c.p. rende evidente che, per configurare l'abuso delle condizioni di inferiorità della persona offesa di cui al comma 2, n. 1), non é necessario che questa sia minacciata al fine di compiere o subire atti sessuali, perché la minaccia é richiamata dalla disposizione esclusivamente ai fini della fattispecie del precedente comma 1. La Corte d'appello si é adeguatamente pronunciata anche sui rilievi difensivi concernenti l'erronea, qualificazione giuridica del reato di violenza sessuale di gruppo di cui al capo d) dell'imputazione chiarendo, attraverso il richiamo di orientamenti giurisprudenziali in materia (pag. 50; cfr. per tutte, Sez. 3, n. 16037 del 20/02/2018, Rv. 272699), che ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 609-octies c.p., non é necessario gli agenti siano in numero superiore a due, né che i compartecipi compiano tutti materialmente atti di violenza sessuale, essendo sufficiente un contributo causale, materiale o morale, alla commissione del reato, tale da rafforzare il proposito criminoso. Di talché il giudice ha ritenuto pienamente perfezionata nel caso di specie la condotta tipica descritta dalla norma, dal momento che dalle dichiarazioni della minore - di cui si riportano in motivazione i passaggi più significativi (pagg. 40 ss.; pag. 75) - era emerso che la madre aveva assistito agli atti sessuali commessi dal coniuge ai danni della figlia e vi aveva anche partecipato attivamente in plurime occasioni. 1.2. Il secondo motivo di ricorso, con il quale si contesta l'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, é parimenti inammissibile. Infatti, ai fini del diniego di dette circostanze, il giudice può valorizzare anche un singolo dato negativo, oggettivo o soggettivo, che consideri prevalente rispetto agli altri, come la gravità del fatto, la serialità dei comportamenti ed i precedenti penali dell'imputato, così da formulare, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità (ex plurimis, sez. 2, n. 15970 del 27/03/2020). Inoltre, il giudice di merito può escludere la valenza della confessione ai fini dell'attenuazione della pena comminata per il reato quando essa sia contrastata da altri specifici elementi di disvalore emergenti dagli atti o sia volta esclusivamente all'utilitaristica attesa della riduzione della pena ovvero sia inerte o neutra sotto il profilo probatorio, nel senso che non abbia agevolato il giudizio di responsabilità di coimputati, per essere questi già confessi o per altro plausibile motivo (Sez. 1, n. 42208 del 21/03/2017, Rv. 271224). In linea con tali orientamenti giurisprudenziali, nel caso di specie, il giudice d'appello (pagg. 78 ss.) ha escluso il riconoscimento delle richieste circostanze in. ragione della personalità dell'imputato, caratterizzata da un'elevata propensione a delinquere e dall'assenza di qualunque forma di resipiscenza o di ravvedimento per le azioni compiute, nonché delle modalità spregiudicate di commissione dei reati, della loro reiterazione nel tempo, dell'intensità del dolo e del grave nocumento arrecato alla sfera di libertà sessuale e alla personalità della minore. Viceversa, non sono suscettibili di positiva valutazione, ai fini di tale giudizio, le dichiarazioni confessorie dell'imputato, essendo la loro rilevanza sminuita dai giudici di merito, in considerazione della loro contraddittorietà, nonché vanificata dalla stessa prospettazione difensiva, tesa a mettere in dubbio in. radice l'attendibilità della persona offesa e i possibili riscontri alla stessa. 1.3. Analoghe considerazioni possono estendersi al terzo motivo di doglianza, con il quale si censura l'eccessività della pena inflitta, avendo il giudice evidenziato (pag. 79) - attraverso il richiamo ai criteri di commisurazione della pena ex art. 133 c.p. - che l'estrema gravità dei fatti commessi e la capacità a delinquere del reo lo rendevano immeritevole di trattamenti di maggior favore sotto il profilo sanzionatorio. Tale considerazione risulta immune da vizi logici o giuridici, tenuto conto della corretta qualificazione del reato di cui al capo d) dell'imputazione e del fatto che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa - la quale omette di considerare l'aumento di pena previsto dal dall'art. 609-octies c.p., comma 3, nel caso in cui siano presenti alcune delle aggravanti descritte dall'art. 609-ter c.p. - la pena complessivamente applicata all'imputato appare ben lontana dal massimo edittale e, anzi, più prossima al minimo, essendo stata contestata e riconosciuta l'aggravante di cui all'art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5), relativa all'aver commesso il fatto nei confronti della figlia minorenne. 2. Parimenti inammissibile é il ricorso di P.M.F., per la quale valgono le medesime considerazioni svolte per A.A. circa la qualificazione giuridica del reato ex art. 609-octies c.p., contestato al capo d) dell'imputazione, nonché relativamente all'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla lamentata eccessività della pena inflitta. Priva di pregio risulta, altresì, la censura articolata nel primo motivo, relativa alla presunta inattendibilità della persona offesa in ordine al reato di violenza sessuale mediante omissione, contestato all'imputata al capo c) dell'imputazione, dal momento che la Corte d'appello ha spiegato, richiamando le risultanze delle consulenze peritali, che le contraddizioni nelle dichiarazioni della minore e l'iniziale reticenza della stessa nel riferire del coinvolgimento della madre si giustificavano in ragione del senso di protezione nutrito dalla minore nei confronti della figura materna per la malattia da cui era affetta e del timore di rimanere priva di qualunque riferimento genitoriale. Prescindendo da tali considerazioni circa l'attendibilità soggettiva della minore, il giudice di secondo grado ha ampiamente argomentato i profili alla luce dei quali ha ritenuto integrati i requisiti della fattispecie, mettendo in rilievo la piena capacità di intendere e di volere dell'imputata, ritenuta dai periti perfettamente in grado di comprendere la gravità delle condotte criminose e di intervenire ai fini della loro interruzione nonostante il deficit cognitivo che la affliggeva, nonché la circostanza che la stessa, nonostante la conoscenza degli abusi sessuali posti in essere dal coniuge, non fosse efficacemente intervenuta in difesa della figlia al fine di impedire la reiterazione delle condotte perpetrate dal coniuge, venendo così meno, in plurime occasioni e per un considerevole lasso di tempo, agli obblighi di protezione su di lei gravanti, ai sensi dell'art. 147 c.c., che prevede l'obbligo di tutelare la vita, l'incolumità e la moralità sessuale dei figli minori contro eventi naturali o altrui aggressioni. Del resto, la tesi difensiva omette di considerare che costituiscono prova della consapevolezza, da parte dell'imputata, degli abusi subiti dalla figlia le dichiarazioni confessorie rilasciate dalla medesima nell'immediatezza dei fatti, a nulla rilevando la circostanza le stesse siano state oggetto di ritrattazione successivamente, unitamente all'aver taciuto il proprio coinvolgimento attivo nelle violenze, al fine di alleggerire la propria posizione in ordine al reato di violenza sessuale di gruppo contestato al capo d) dell'imputazione (pagg. 46, 58, 74, 75, 76, 77 ss. della sentenza). 3. I ricorsi, per tali motivi, devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 3.000,00 ciascuno. Gli imputati devono anche essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Palermo con separato decreto di pagamento, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 con pagamento in favore dello Stato. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Palermo con separato decreto di pagamento, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 disponendo il pagamento in favore dello Stato. Si dà atto che, ai sensi dell'art. 546 c.p.p., comma 2, conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 - recante "Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del D.L. n. 137 del 2020" - la presente ordinanza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell'estensore. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021. Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2021
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