RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 4.10.2017 la Corte di Appello di Lecce ha integralmente confermato la condanna, pronunciata all'esito del primo grado di giudizio con rito abbreviato dal Tribunale della stessa città, di R.F. alla pena di due anni e due mesi di reclusione in quanto ritenuto responsabile dei reati di cui all'art. 572 c.p. e art. 609 bis c.p., u.c. nei confronti della moglie convivente.
2. Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo deduce di aver, a seguito dell'emissione del decreto di giudizio immediato, formulato richiesta di patteggiamento assentita dal PM ma rigettata dal Gip e di averla riformulata previo nuovo assenso del PM nell'udienza preliminare, avendo in subordine richiesto il rito abbreviato, in cui veniva invece dichiarata inammissibile per intempestività. Lamenta che il processo, dopo che alla successiva udienza del 23.7.2014, sentita la p.o., era stato contestato all'imputato in via suppletiva dall'organo dell'accusa il reato ex art. 609 bis c.p., quantunque tutti gli elementi per la contestazione fossero presenti ab inizio, fosse proseguito nelle forme del giudizio abbreviato precludendogli definitivamente di accedere all'applicazione della pena su richiesta delle parti malgrado l'inequivoca manifestazione di volontà esplicitata anch'essa sin dall'inizio del processo. Eccepisce, pertanto, l'illegittimità costituzionale dell'art. 441-bis c.p.p., comma, nella parte in cui non consente all'imputato successivamente alla contestazione suppletiva di optare per l'applicazione della pena su richiesta delle parti, imponendogli una restrizione che nè le ragioni di economia processuale, nè di altra natura giustificano, tanto più che la Corte Costituzionale ha già dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di richiedere il patteggiamento relativamente al fatto diverso o concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione riguarda un fatto già risultante dagli atti di indagine ovvero quando l'imputato ne aveva già tempestivamente formulato richiesta con riferimento alle originarie imputazioni. Chiede pertanto l'annullamento della sentenza impugnata, attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma indicata che rinvii al giudice competente per rimettere in termini l'imputato in ordine alla richiesta ex art. 444 c.p.p., o in subordine, che venga promosso il giudizio di illegittimità costituzionale.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 572 c.p. e al vizio motivazionale, l'illogicità della sentenza impugnata che dopo aver dato atto di un clima estremamente conflittuale all'interno della coppia, dovuto per lo più all'abuso di alcool da parte dell'imputato e a motivazioni di ordine economiche avendo costui perso il lavoro, conclude apoditticamente ritenendo sussistente il reato di maltrattamenti. Evidenzia che invece proprio l'esasperazione e la progressiva lacerazione dei rapporti coniugali, tanto da essere sfociati in una separazione giudiziale precludeva la configurabilità della fattispecie criminosa, venendo meno la prevaricazione e anche con riferimento all'elemento soggettivo, la volontà e la consapevolezza di umiliare la vittima.
2.3. Con il terzo motivo contesta, in relazione al vizio motivazionale, la consapevolezza in capo all'imputato del dissenso opposto dalla moglie all'intrattenimento di rapporti sessuali a fronte delle condotte ambigue tenute da costei a fronte delle richieste del marito, desumibile dalle sue stesse dichiarazioni quando ammette di essere stata accondiscendente ai suoi approcci, nonchè dagli atteggiamenti pretestuosi dai quali non era comunque evincibile un rifiuto. A ciò si aggiunge ad avviso della difesa l'assenza di riscontri al riguardo, risultando dalle dichiarazioni rese tanto dall'assistente sociale che la aveva successivamente presa in carico, quanto dal medico di famiglia che mai la donna avesse riferito di violenze sessuali subite da parte del marito.
2.4. Con il quarto motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 62 bis c.p. e al vizio motivazionale, che il diniego da parte della Corte di Appello delle attenuanti generiche si fondava sugli stessi elementi presi in esame per la determinazione del trattamento sanzionatorio dal primo giudice e che comunque nessuna motivazione era stata resa in relazione ai fattori positivi evidenziati dalla difesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il primo motivo è manifestamente infondato.
Risulta dagli atti processuali ai quali questa Corte ha accesso in ragione della natura processuale della doglianza svolta, che l'iniziale richiesta di patteggiamento, formulata dalla difesa a seguito del decreto di giudizio immediato con un'imputazione riferita esclusivamente al reato di cui all'art. 572 c.p., sia stata rigettata dal GIP avendo constatato la sussistenza dei presupposti per la ravvisabilità anche della concorrente ipotesi delittuosa riconducibile all'art. 609-bis c.p.; stante la richiesta svolta in via subordinata di giudizio abbreviato, alla successiva udienza la richiesta di patteggiamento riformulata dalla difesa è stata dichiarata inammissibile per intempestività; avendo il PM proceduto all'udienza del marzo 2014, subito dopo l'audizione della p.o., alla contestazione suppletiva del delitto di violenza sessuale, la difesa dopo aver chiesto ed ottenuto un rinvio per valutare le proprie strategie, all'udienza del 10.4.2014 ha espressamente richiesto il giudizio abbreviato, senza che risulti essere stata formulata alcuna contestazione in ordine alla contestazione suppletiva. La definitiva ed esplicita opzione proveniente dal difensore ed in concomitanza dal suo stesso assistito per il rito abbreviato rende conseguentemente irrilevante l'eccepita questione di costituzionalità riferita all'art. 441 bis c.p.p., comma 1 che nel procedimento in esame non ha mai trovato applicazione.
2. Il secondo motivo si compendia di censure che, lungi dall'individuare vizi logici o giuridici determinati, si appuntano esclusivamente sul giudizio valutativo delle prove, sollecitando questa Corte ad uno scrutinio inammissibile in sede di legittimità. Deve ancora una volta essere ricordato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, può riferirsi esclusivamente alla mera correttezza del discorso giustificativo della decisione, e non al suo contenuto valutativo, dovendo perciò essere unicamente riscontrato tra le diverse proposizioni contenute nella motivazione, ovverosia sulla congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo dello stesso provvedimento dovendo la sentenza essere logica solo rispetto a se stessa. Il controllo di logicità deve, in altri termini, rimanere all'interno del provvedimento impugnato senza che, in ragione del circoscritto orizzonte cui è confinato il giudizio di legittimità, sia possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti nè opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996 - dep. 22/10/1996, Di Francesco, Rv. 205621).
La natura vessatoria delle condotte poste in essere dall'imputato nei confronti della moglie non vengono infatti scalfite dalle censure difensive che si sviluppano sul ben diverso, e perciò inammissibile, profilo dell'apprezzamento delle prove facendo ricorso ad argomentazioni che, seppur logiche, esulano integralmente dalla motivazione della sentenza impugnata. Il controllo di legittimità, invero, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non già il rapporto tra prova e decisione; sicchè il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria ad essa sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione.
Non basta evocare il clima di aperta conflittualità all'interno della coppia coniugale per elidere la connotazione molesta e persecutoria della condotta tipica che presuppone una chiara prevaricazione posta in essere dall'aggressore nei confronti della vittima all'interno del consesso familiare, che proprio perchè sistematica - da qui l'abitualità richiesta dalla norma incriminatrice - va a ledere l'integrità psichica, prima ancora che fisica, del soggetto passivo traducendosi in un sistema di vita che, in ragione delle continue umiliazioni, violenze, atti offensivi della dignità e della libertà della persona e del clima di paura conseguentemente instauratosi, rende dolorosa la stessa relazione familiare.
Tale condizione risulta essere stata compiutamente accertata dai giudici di merito attraverso le dichiarazioni rese dalla p.o., sottoposta a rigoroso vaglio di attendibilità, corroborato anche da una pluralità di riscontri esterni, quali le deposizioni della madre, della sorella e persino del medico curante che comunque ha riferito di essere a conoscenza del disagio della famiglia e della condizione di grave prostrazione della p.o., nonchè la circostanza particolarmente significativa della collocazione, su iniziativa dell'assistente sociale che sin dal 2010 aveva preso in carico il nucleo familiare, della donna insieme ai due figli all'interno di una comunità protetta nel luglio 2013, così ponendo definitivamente termine ad ogni ulteriore protrazione dell'illecito. La circostanza che l'imputato fosse dedito all'alcool, come ammesso dal medesimo e comunque constatato in più di un'occasione dalle assistenti sociali, non funge certo da scriminante, avvalorando al contrario la presunzione dell'incapacità di controllo dei suoi istinti più biechi, quali di norma caratterizzano le condotte di chi fa uso smodato di sostanze alcoliche, a riprova delle violenze sia fisiche che verbali dettagliatamente riferite dalla vittima, scatenatesi per lo più proprio quando l'uomo, privo di attività lavorativa, pretendeva dalla moglie il denaro da destinare all'acquisto di alcool.
3. La stessa sorte segue anche il terzo motivo.
Con riferimento alla mancanza di dissenso da parte della vittima occorre rilevare che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, integra il reato di cui all'art. 609-bis c.p. nella forma cd. "per costrizione" disciplinata dal comma 1 qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull'altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l'intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l'esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all'interno di detto rapporto un diritto all'amplesso, nè conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner (Sez. 3, n. 14789 del 04/02/2004 - dep. 26/03/2004, Riggio, Rv. 228448). Il concetto di intimidazione psicologica rimanda necessariamente al peculiare contesto spazio temporale nel quale si svolge l'azione, assumendo rilievo le contingenze specifiche che oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l'espressione di volontà: non vale ai fini del perfezionamento del delitto neppure l'espressione manifesta del consenso della vittima allorquando la sua volontà venga coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi scaturirebbero dal rifiuto esplicito all'atto sessuale impostole, quale forma di violenza indiretta, dall'agente.
A fronte del quadro delineato, con stringente e lineare motivazione, dalla sentenza impugnata in ordine al contesto in cui si è consumato il reato, in un clima caratterizzato da costante sopraffazione da parte del marito sulla moglie, del tutto inconsistenti risultano le doglianze della difesa dirette a rimarcare l'implicito consenso al rapporto sessuale desumibile dalla accondiscendenza finale della donna. Al riguardo è sufficiente ribadire, in conformità a quanto già affermato da questa Corte, che ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, non ha, invero, valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca "quando è provato che l'autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali (cfr. Cass. sez. 3 n. 16292 del 7.3.2006; Sez. 3, n. 29725 del 23/05/2013 - dep. 11/07/2013, M, Rv. 256823; Sez. 3, n. 39865 del 17/02/2015 - dep. 05/10/2015, 5, Rv. 264788).
4. In ordine al quarto motivo va rilevato, oltre alla genericità delle doglianze che neppure evidenziano quali fossero i fattori positivi addotti dalla difesa a supporto della richiesta di cui all'art. 62 bis c.p., che la concessione delle attenuanti generiche non è un diritto automatico dell'imputato che si possa escludere in caso di elementi negativi di valutazione, ma al contrario presuppone il riconoscimento, in positivo, di elementi tali da giustificare la diminuzione della pena rispetto all'arco edittale. Rientrando tuttavia nella discrezionalità del giudicante la valutazione dei presupposti per l'applicabilità del beneficio, ne deriva che nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014 - dep. 03/07/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017 - dep. 22/09/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Trattandosi di giudizio di fatto che purchè congruo e non contraddittorio, non può essere sindacato in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato, la sentenza impugnata, che ha valorizzato ai fini della gravità della condotta la sua sistematica reiterazione, il considerevole arco temporale in cui si è protratta e le ricadute psicologiche sulla vittima, ha adeguatamente assolto all'onere motivazionale a suo carico.
Nè è passibile di alcuna censura l'utilizzo ai fini del diniego del beneficio in esame degli stessi elementi esaminati ai fini della determinazione della pena atteso che al contrario sono proprio i fattori, tra quelli enucleati dall'art. 133 c.p., in forza dei quali si è ritenuto di pervenire ad una determinata quantificazione del trattamento sanzionatorio, che consentono di escludere l'applicabilità della diminuzione consentita dall'art. 62 bis c.p., tenuto conto che tale norma codifica la possibilità di un trattamento di speciale benevolenza in favore dell'imputato in presenza di peculiari e non codificabili connotazioni in termini positivi tanto del fatto quanto della persona che di esso si è reso responsabile, volto in ultima analisi ad incidere sul trattamento sanzionatorio.
Il ricorso deve in conclusione essere dichiarato inammissibile. Segue a tale esito la condanna del ricorrente a norma dell'art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2019