RITENUTO IN FATTO
1. E' impugnata la sentenza in data 1 febbraio 2021 con la quale la Corte di appello di Roma - in riforma di quella emessa in data 28 aprile 2017 dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale della medesima città che aveva condannato l'imputato, con la diminuente del rito, in relazione ai reati ascrittigli, fatta eccezione per il delitto di sequestro di persona per il quale lo assolveva perché il fatto non sussiste, alla pena di anni tre e mesi dieci di reclusione - ha assolto P.M. dai delitti contestati ai capi 1) e 3) perché il fatto non costituisce reato ed, escluse le aggravanti contestate sub 4) e 5), ha rideterminato la pena in sei mesi di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, revocando la pena accessoria e le statuizioni civili.
Al ricorrente sono stati contestati, per quanto ancora interessa, i seguenti reati:
(capo 1) di cui all'art. 61 c.p., n. 11, art. 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., art. 609-ter c.p., comma 1, n. 2), perché - dopo avere condotto la vittima all'interno del magazzino posto nel piano seminterrato del pub e averle offerto alcool e droga - la costringeva con violenza e minaccia, prendendola per le spalle e spingendole il viso contro il muro, quindi abbassandole con forza i pantaloni, a subire reiterati rapporti sessuali vaginali, anali e orali cagionandole le lesioni di cui al capo 3). Con le aggravanti di avere commesso il fatto con l'uso di sostanze alcooliche e stupefacenti e di avere commesso il fatto con abuso di autorità essendo il datore di lavoro della persona offesa;
(capo 3) di cui all'art. 61 c.p., n. 2, artt. 582,585 c.p. perché, al fine di commettere il delitto di cui al capo 1), cagionava alla persona offesa lesioni personali consistite in ecchimosi sul corpo come da referto in atti giudicate guaribili in giorni tre;
(capo 4) di cui all'art. 61 c.p., n. 2 e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, perché, al fine di commettere il delitto di cui al capo 1), offriva e cedeva a R.F. una quantità imprecisata di sostanza stupefacente del tipo cocaina;
(capo 5) di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, perché offriva e cedeva a Pa.Sa. sostanza stupefacente del tipo cocaina al fine ottenere dalla stessa prestazioni sessuali.
2. Ricorrono per la cassazione dell'impugnata sentenza il Procuratore generale, la parte civile e l'imputato presentando i motivi di seguito indicati nei limiti indispensabili per la stesura della motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Il Procuratore generale impugna articolando tre motivi di gravame.
2.1.1. Con il primo motivo il Procuratore generale denuncia la contraddittorietà e l'illogicità manifesta della motivazione, con riferimento all'art. 47 c.p., comma 1, sul dissenso della persona offesa al rapporto sessuale nonché sulla formula assolutoria adottata e sull'onere di prova.
Sostiene che la sentenza impugnata, ribaltando l'esito al quale era pervenuto il G.U.P. del Tribunale di Roma, in sede di giudizio abbreviato, ha assolto l'imputato dal reato di violenza sessuale aggravata in danno della persona offesa (e da quello di lesioni), sul rilievo che gli elementi di prova valorizzati dal giudice di prime cure non fossero riusciti a superare quel ragionevole dubbio che rappresenta il confine invalicabile oltre il quale non è possibile fondare una pronuncia di condanna, omettendo, tuttavia, di chiarire adeguatamente sulla base di quale elemento la Corte di merito avesse ritenuto di ravvisare il "ragionevole dubbio".
Osserva il ricorrente che la Corte d'appello, da un lato, sembra ritenere plausibile che l'imputato potesse aver frainteso l'atteggiamento della vittima presumendo che la ragazza acconsentisse ad avere rapporti sessuali con l'imputato stesso, così escludendo la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, come confermato dalla formula assolutoria adottata ("...il fatto non costituisce reato"). Dall'altro, la Corte capitolina parrebbe dubitare dell'esistenza stessa del dissenso e dunque - essendo questo pacificamente elemento costitutivo del reato - parrebbe dubitare della sussistenza stessa del fatto.
Dunque, ad avviso del ricorrente, nel sostenere la circostanza che l'imputato avesse frainteso l'atteggiamento della vittima circa il dissenso dalla stessa manifestato, la Corte di merito, per giungere all'assoluzione, avrebbe ipotizzato che l'imputato fosse caduto in errore su un elemento costitutivo del reato, appunto il dissenso; avrebbe ipotizzato, cioè, l'errore di fatto di cui all'art. 47 c.p., comma 1, errore che incide sul dolo, escludendolo.
Obietta il ricorrente come l'errore in parola, tuttavia, rilevi soltanto ove risultasse pienamente provato, e non se fosse solo meramente "plausibile", con l'ulteriore conseguenza che l'onere di provare l'errore stesso incombeva sull'imputato, cosicché la Corte territoriale avrebbe errato in diritto nell'affermare che - in presenza di elementi che rendevano (solo) "plausibile" che l'imputato avesse "frainteso" l'atteggiamento della vittima, presumendo che la ragazza acconsentisse ad avere rapporti sessuali - la necessità di proscioglimento discendesse dall'impossibilità per il giudice stesso di utilizzare argomenti tali da tradursi, per fondare una condanna per violenza sessuale, in una sostanziale inversione dell'onere della prova ai danni dell'imputato.
Difatti, il "dubbio" dell'imputato sul "dissenso della persona offesa" costituiva circostanza da provarsi da parte del medesimo e, soprattutto, "pienamente", e quindi non in termini di mera "plausibilità", ovvero, addirittura, di "dubbio".
2.1.2. Con il secondo motivo il Procuratore generale lamenta la contraddittorietà e l'illogicità manifesta della motivazione, in relazione al senso da attribuire al testo dei messaggi "WhatsApp" scambiati successivamente al fatto tra l'imputato e la persona offesa con conseguente travisamento della prova documentale.
Osserva che, nella prospettiva di dimostrare come "plausibile" che l'imputato non avesse percepito il dissenso della persona offesa a consumare rapporti sessuali con lui, la Corte territoriale ha dato rilievo ai messaggi scambiati tra la persona offesa e l'imputato e cancellati dalla vittima immediatamente dopo averli scambiati, perché la sorella gemella non li vedesse.
Ad avviso del ricorrente il travisamento operato dalla Corte territoriale sul significato di detti messaggi sarebbe evidente e clamoroso sotto un duplice profilo.
In primo luogo, sarebbe sufficiente visionare il testo dei messaggi per avere conferma della natura non consenziente dei rapporti sessuali. La vittima inviava all'imputato il primo messaggio, in cui gli comunicava: "Per quel che è successo io non verrò più al lavoro max non è stata una cosa bella"; alla domanda dell'imputato "come fai a dire che ho sbagliato io", la persona offesa rispondeva seccamente: "perché ti avevo detto di fermarti", così come all'espressione dell'imputato "ti ricordi male", la vittima replicava: "Max te l'ho detto e ridetto", per poi aggiungere: "Se ti ricordi bene lo mi sono spostata più e più volte fermandoti", nonché, ancora, "me ne sarei dovuta andare dall'inizio da quando ti ho fermato la prima volta. Sono rimasta lì"... "ti avevo detto che non era giusto che ti dovevi fermar(ti) altrimenti io non sarei stata capace di guardarti...".
Argomenta il ricorrente come fosse evidente, dal tenore dei messaggi, che l'imputato - compreso il pericolo che quella conversazione scritta potesse lasciare "traccia" della perpetrata violenza - avesse affermato, con scopi dissimulatori, "non è successo niente", aggiungendo, con la stessa finalità, la frase "ma fermato cosa", nel tentativo di mostrare che non aveva percepito opposizione alcuna, tanto che la persona offesa gli chiese se si ricordasse cosa fosse successo, per cui, a fronte dei messaggi dall'inequivoco tenore - che corroboravano senza dubbio le dichiarazioni della persona offesa - e in presenza di considerazioni tanto solide espresse nella prima sentenza (che avrebbero richiesto una confutazione specifica e completa volta a disarticolare l'intero ragionamento probatorio della decisione del giudice di prime cure), la Corte di appello - dopo aver apoditticamente affermato che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il tenore di tali messaggi non riscontrava la credibilità della persona offesa - avrebbe svolto una ulteriore considerazione costituente il secondo clamoroso vizio motivazionale, per travisamento della prova, nel quale la Corte di merito sarebbe incorsa, laddove affermava che la vittima aveva spiegato al GIP di aver cancellato tutti i messaggi intercorsi con l'imputato per non farli leggere alla sorella, mentre i messaggi intercorsi con il P. risultavano pacificamente scambiati il (OMISSIS) quando la vittima aveva già raccontato alla sorella e all'amica di aver subito violenza sessuale da parte dell'imputato; tant'e' che accedeva al pronto soccorso accompagnata proprio dalla sorella.
Secondo la Corte capitolina si trattava di un elemento che minava radicalmente la credibilità della persona offesa.
Al contrario, obietta il ricorrente come la vittima avesse dichiarato di aver cancellato i messaggi dal proprio telefono immediatamente dopo averli ricevuti, perché la sorella non li vedesse, emergendo dagli atti che essi erano stati scambiati nella prima parte della mattina del (OMISSIS), mentre la vittima aveva raccontato i fatti subiti alla sorella solo nel tardo pomeriggio del (OMISSIS), intorno alle 18.30, venendo immediatamente accompagnata (dalla sorella e dall'amica) al Pronto Soccorso intorno alle 19.15.
2.1.3. Con il terzo motivo, il Procuratore generale deduce la contraddittorietà e l'illogicità manifesta della motivazione, sul contenuto delle testimonianze con conseguente travisamento della prova.
Osserva che, dal provvedimento impugnato, emerge un articolato insieme di elementi che, per come rappresentati dalla Corte territoriale, porterebbero a dubitare della credibilità della persona offesa ovvero consentirebbero di dubitare del dissenso manifestato. In realtà, essi, sarebbero il frutto di veri e propri travisamenti della prova.
Ad avviso della Corte territoriale i dubbi sulla credibilità della persona offesa scaturirebbero dalla contraddittorietà degli elementi probatori di riscontro versati in atti, con particolare riferimento al fatto incontroverso secondo il quale, quando l'imputato e la persona offesa scesero per la seconda volta nel seminterrato, dove poi iniziarono le violenze, nel locale vi fossero alcuni dipendenti e che, nel frattempo, fosse ivi passato anche il fidanzato della vittima, aggiungendo, però, che nessuna di queste persone aveva riferito di aver udito lamenti o grida provenire dal seminterrato.
Obietta il ricorrente, facendo espresso riferimento ad atti del processo specificamente indicati, che, invece, l'analisi attenta di tutto il corredo probatorio avrebbe consentito di far emergere che quando iniziarono le avances (ancor prima degli approcci fisici, dunque) nel locale non vi fosse più nessuno e che, conseguentemente, il fidanzato della vittima si era "affacciato" dalle scale che conducevano al seminterrato in un momento precedente rispetto a quello della chiusura del locale e, quindi, prima dell'inizio delle avances.
Inoltre, emergeva che il locale fosse già in chiusura quando l'imputato e la persona offesa risalirono al piano superiore dopo la prima discesa nello scantinato (per parlare), chiamati da un dipendente per fare il conto dell'ultimo tavolo. I due ridiscendono nel seminterrato - sempre su iniziativa dell'imputato - per finire di parlare.
Analoghe censure, relativamente al profilo del travisamento della prova, il ricorrente svolge, riportando il contenuto di specifici atti, con riferimento ai messaggi "WhatsApp" scambiati la notte delle violenze tra la persona offesa e la sorella gemella nonché con riferimento alla circostanza che la vittima, dopo la prima discesa nel seminterrato allorquando era già stata "insidiata", avrebbe potuto astenersi dal seguire nuovamente l'imputato, essendosi trattenuta, invece, ancora con lui, consumando, senza alcuna costrizione e nella piena capacità di intendere e volere (come riferito dalla stessa in sede di accesso al pronto soccorso), cocaina e vino sia nella prima che nella seconda fase della discesa nel seminterrato.
2.2. Il ricorso della parte civile è articolato in quattro motivi.
2.2.1. Il primo, il secondo e il quarto motivo sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli presentati dal Procuratore generale e in precedenza riassunti.
2.2.2. Con il terzo motivo la parte civile eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione per aver la Corte di appello omesso di confrontarsi con le ragioni addotte dal primo giudice a sostegno della propria decisione, deducendo che il giudice d'appello non avrebbe adempiuto all'obbligo, su di esso incombente in caso di riforma della sentenza di primo grado, di offrire una motivazione rafforzata, idonea a giustificare ragionevolmente la difforme conclusione rispetto all'esito del primo giudizio.
2.3. Il ricorso dell'imputato è articolato con due motivi.
2.3.1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge e il vizio della motivazione, in relazione all'art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, e art. 533 c.p.p., nonché in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, sottolineando come la Corte territoriale avesse reso, in relazione ai fatti commessi in violazione della legge sugli stupefacenti e per i quali aveva confermato la sentenza di primo grado, una motivazione manifestamente contraddittoria poiché, nonostante i dubbi che il giudice di secondo grado aveva ravvisato sull'attendibilità della persona offesa in relazione ai capi d'imputazione relativi alla ritenuta cessione delle sostanze stupefacenti, lo stesso aveva poi fondato la responsabilità penale dell'imputato, per tali capi, unicamente sulle dichiarazioni di quest'ultima.
2.3.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 131-bis c.p., e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5.
Sostiene che la Corte d'appello non ha espresso alcuna motivazione in relazione al diniego di applicazione dell'art. 131-bis c.p., reclamato con le conclusioni rassegnate nel giudizio di secondo grado, nonostante il fatto fosse di particolare tenuità.
2.4. Il Procuratore generale ha concluso, con ampia motivazione, per l'accoglimento di tutti i ricorsi e, pertanto, con l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuovo giudizio.
2.5. L'imputato ha presentato memoria con allegati con la quale ha replicato puntualmente ai motivi di gravame presentati dal Procuratore generale e dalla parte civile, ribadendo le ragioni esposte con il proprio atto d'impugnazione.
2.6. Anche la parte civile ha presentato memoria con la quale ha replicato ai motivi di impugnazione dell'imputato, svolgendo ulteriori considerazioni sull'attendibilità della persona offesa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi del Procuratore generale e della parte civile sono fondati nei limiti di seguito precisati.
E' invece inammissibile il ricorso proposto nell'interesse di P.M..
2. I motivi proposti dal Procuratore generale e dalla parte civile, essendo tra loro strettamente collegati, possono essere congiuntamente esaminati.
2.1. Entrambi i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte d'appello, anche travisando la prova, avrebbe dubitato dell'attendibilità della persona offesa, la quale non avrebbe manifestato un dissenso esplicito al compimento dell'atto sessuale, così da indurre l'imputato a ritenere che la vittima avesse consentito ad intrattenere il rapporto intimo. In particolare, evidenziando l'errore di diritto compiuto in proposito, si sostiene che, secondo da quanto emerge dal testo della sentenza impugnata, sarebbe residuato, dal compendio probatorio in atti, "il dubbio che il dedotto dissenso della persona offesa non fosse stato così esplicito e, quindi, possa essere stato mal interpretato dall'imputato". Infine, i ricorrenti deducono che la sentenza impugnata non si sarebbe compiutamente confrontata con quella di primo grado non contenendo, nel pervenire al diverso esito, una motivazione rafforzata.
2.2. La Corte, in precedenti decisioni (v. Sez. 3, n. 52835 del 19/06/2018, P., in motiv.), ha chiarito che, ai fini dell'integrazione del fatto di reato della violenza sessuale costrittiva, rileva il dissenso della vittima - ossia la contraria volontà, espressa o tacita, esplicita od implicita, della persona costretta a compiere o a subire atti sessuali - e il dissenso, quale requisito (essenziale) implicito di fattispecie, rappresenta perciò un elemento costitutivo del reato di violenza sessuale.
A questo proposito è stato ricordato come specialmente la dottrina, già sotto il vigore delle precedenti analoghe incriminazioni, abbia sottolineato che la norma sulla violenza sessuale non appartiene alla categoria di quelle (es. art. 614 c.p.) in cui il dissenso del soggetto passivo è espressamente indicato come elemento della fattispecie, bensì è di quelle (es. art. 610 c.p.), in cui l'interprete deve pervenire alla medesima conclusione, desumendola implicitamente dagli altri elementi espressamente richiesti per l'integrazione del fatto di reato, poiché la costrizione, in quanto attuazione del nesso eziologico tra la violenza o la minaccia e il compimento di atti sessuali, suppone necessariamente il dissenso di chi è costretto a compierli o a subirli. Ne consegue che il dissenso del soggetto passivo è un elemento costitutivo della fattispecie, necessario affinché esista la condotta tipica.
Se manca il dissenso, vale a dire se vi è il consenso, non viene meno l'antigiuridicità, bensì manca la tipicità, con la conseguenza che il fatto non sussiste.
Il dubbio sul dissenso è quindi dubbio sulla sussistenza del fatto, non sull'esistenza di una causa di esclusione dell'antigiuridicità.
E siccome la coscienza di costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali è anzitutto consapevolezza del dissenso della vittima, l'errore sull'atteggiarsi della volontà dell'altro soggetto (in particolare, l'errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza di costui) non è che un reato putativo per errore sul fatto che costituisce il reato, cioè causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell'antigiuridicità, come avverrebbe se il dissenso dell'offeso non fosse elemento costitutivo della fattispecie.
Logica conseguenza di ciò è poi che, nel caso di errore sul fatto costitutivo del reato (ossia sul dissenso), la circostanza che un soggetto abbia agito presupponendo una realtà diversa da quella effettiva non è rilevante se non risulta pienamente provata, e l'onere della prova o, quantomeno l'onere di allegazione atteso che nel processo penale non è predicabile un onere della prova a carico dell'imputato modellato sui principi propri del processo civile, incombe sull'imputato stesso, perché l'errore sul fatto, facendo venir meno il dolo, trasferisce a carico di chi ne assume la mancanza l'onere di comprovare il relativo assunto o di allegare elementi utili a desumere la mancata integrazione di tale essenziale requisito del reato, dovendo l'agente dare conto che un fatto, da lui percepito in un determinato modo, ha fatto sorgere in lui, nonostante l'uso della normale diligenza, la ragionevole certezza dell'esistenza del consenso.
Il quale perciò deve essere inequivocabile perché la sua esistenza dipende dalla (chiara) volontà dell'altra persona.
Invece, nel dubbio, l'agente deve astenersi dall'invadere la sfera sessuale altrui, potendo, come si è detto in precedenza, compiere atti sessuali solo in presenza della ragionevole certezza dell'esistenza del consenso.
Non rileva quindi il fatto che, secondo la tesi patrocinata dal giudice d'appello, non sia stato percepito un dissenso (pag. 9 sentenza impugnata) ma è necessario che si abbia la ragionevole certezza che vi sia un consenso pieno, iniziale e permanente, al compimento dell'atto sessuale.
Infatti, la manifestazione di dissenso avvenuta anche nel corso dell'atto sessuale esclude la liceità della condotta, integrando quindi l'ipotesi di violenza.
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all'art. 609-bis c.p., la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga "in itinere" una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi di una contraria volontà (Sez. 3, n. 15010 del 11/12/2018 dep. 2019. F., Rv. 275393 01).
Ne deriva che, quand'anche, in un momento iniziale, sia stato espresso il consenso e dunque le parti abbiano intrapreso un rapporto sessuale consensuale, qualora, nel prosieguo del rapporto stesso, a seguito della presa di posizione di uno dei partecipanti, il consenso venga ritirato, il successivo rapporto sessuale è da qualificarsi come non consensuale e, dunque, connotato da violenza.
Dalla motivazione della sentenza impugnata, e i ricorrenti di ciò si sono espressamente doluti, non emerge che tali questioni di diritto siano state considerate nell'impalcatura logica della pronuncia e dell'epilogo cui essa è pervenuta, con la conseguenza che la decisione è affetta dai vizi denunciati, spettando poi al giudice di merito stabilire, con adeguata e logica motivazione, quale rilievo attribuire ai messaggi "WhatsApp", dai quali testualmente la vittima aveva ricordato di aver esplicitamente detto al ricorrente di fermarsi e di non continuare nel compimento degli atti sessuali (v. allegato 2 del ricorso di parte civile), contegno invero incompatibile con una volontà diversa da quella che si poteva dedurre dalla terminologia all'uopo utilizzata.
Sotto tale profilo, assolutamente decisivo, occorreva allora valutare, circostanza che, nella specie, è stata del tutto pretermessa, se il convincimento circa l'esistenza di una situazione non corrispondente alla realtà fosse frutto di un ragionevole errore nel quale era caduto l'agente oppure se quest'ultimo versasse in uno stato di incertezza determinato dal dubbio oppure fosse stato addirittura insensibile alle richieste di interruzione, potendo, nel primo caso, invocarsi la causa di non punibilità ex art. 47 c.p., laddove il dubbio, ammettendo la possibilità di una differente valutazione, impediva, se non rimosso mediante uno sforzo di necessaria diligenza da parte dell'agente, il formarsi dell'erronea certezza richiesta dalla norma di favore. Infine, la richiesta inascoltata consentiva di ritenere pienamente integrato il reato contestato.
Va poi chiarito che il dubbio su una circostanza di fatto che costituisce elemento essenziale della fattispecie criminosa non è di per sé sufficiente ad escludere il dolo, in quanto chi agisce nel dubbio - il quale inevitabilmente suscita nella mente dell'agente un conflitto di giudizi, uno stato di incertezza, che, fin quando permane, impedisce il formarsi di quella convinzione soggettiva che è caratteristica dell'errore (Sez. 2, n. 9069 del 19/04/1982, Costa, Rv. 155528 - 01) - è consapevole di potersi esporre a violare la legge, cosicché il compimento dell'azione comporta l'accettazione del rischio nella causazione dell'evento, concretizzando in tal modo una forma di responsabilità a titolo di dolo eventuale (Sez. 3, n. 37837 del 06/05/2014, M., Rv. 260257 - 01).
Peraltro, nella formulazione del complessivo giudizio di attendibilità della persona offesa, la Corte di appello ha apoditticamente affermato - con specifico riferimento ad un dato processualmente rilevante, ossia in relazione al momento in cui la vittima cancellò i messaggi WhatsApp per evitare che, a suo dire, la sorella apprendesse della violenza subita - che ciò avvenne dopo che la vittima aveva già raccontato il fatto alla sorella e all'amica e tale elemento è stato ritenuto centrale per pervenire alla conclusione che tali messaggi, contrariamente da quanto ritenuto dal Tribunale, non costituissero riscontro alle dichiarazioni della persona offesa (pag. 9 della sentenza impugnata), sul fondamentale rilievo che se la sorella già sapeva della violenza, allora la cancellazione dei messaggi non risultava compatibile con la spiegazione fornita in merito alla loro eliminazione.
Sennonché, dagli atti allegati alla memoria dell'imputato e al ricorso della parte civile nonché da quelli specificamente indicati da quest'ultima nel gravame, risulta che lo scambio dei messaggi WhatsApp tra la persona offesa e l'imputato avvenne, in data (OMISSIS), dalle 10:00,02 alle 10:00,53. In quello stesso giorno la vittima si licenziò e, verso le 19:00, fu accompagnata all'ospedale dalla sorella e dall'amica, avendo confidato loro della subita violenza nel pomeriggio dello stesso giorno (pagina 5 del verbale riassuntivo dell'incidente probatorio allegato alla memoria dell'imputato nonché sommarie informazioni testimoniali e incidente probatorio della vittima).
Essendo incontestato che la persona offesa cancellò i messaggi WhatsApp subito dopo averli ricevuti (cioè subito dopo le ore 10:00,53), il narrato di costei deve allora ritenersi coerente, salvo diversa spiegazione o contrarie risultanze che non emergono dal testo della sentenza impugnata, del tutto assertiva sul punto, perché la vittima rivelò l'accadimento alla sorella dopo e non prima la cancellazione dei predetti messaggi.
Le medesime considerazioni valgono poi anche per il capo della sentenza gravata relativo al reato di lesioni.
In conclusione, la sentenza impugnata, in primo luogo, fornisce una motivazione apparente su un punto decisivo per il giudizio con specifico riferimento al momento in cui la persona offesa rivelò alla sorella di aver subito la violenza sessuale da parte del suo datore di lavoro e, al contempo, si rileva intrinsecamente contraddittoria (se la persona offesa non era attendibile perché aveva prestato il consenso, allora l'imputato non era in dubbio al riguardo e doveva essere assolto perché il fatto non sussiste; se, invece, la persona offesa era attendibile ed aveva detto all'imputato di fermarsi, occorreva spiegare per quale ragione - se provata, allegata e giustificabile - costui non si era astenuto dal porre in essere la condotta); in secondo luogo, non contiene, rispetto alla prima sentenza, una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata circa il giudizio di attendibilità, ritenuto dal Tribunale ed escluso dalla Corte d'appello e, vertendosi in un caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, il secondo giudice, pur non essendo obbligato alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che avevano reso dichiarazioni ritenute decisive, doveva offrire una motivazione puntuale e adeguata, tale da fornire una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018) Rv. 272430 - 01).
3. Sulla base delle precedenti ragioni, la sentenza impugnata va pertanto annullata in parte qua con rinvio per nuovo giudizio sul punto.
Il Giudice di rinvio, pur potendo giungere, sulla base di una diversa e compiuta motivazione, alle medesime conclusioni cui è pervenuto il giudice della sentenza cassata, si atterrà ai principi di diritto in precedenza indicati, provvedendo, se necessario, a rimodulare il trattamento sanzionatorio definito dalla sentenza annullata.
4. Il ricorso dell'imputato e', invece, inammissibile.
4.1. Passando all'esame del primo motivo, con il quale il ricorrente lamenta che la Corte di merito, stabilita l'inattendibilità della persona offesa, avrebbe dovuto utilizzare il medesimo parametro valutativo anche con riferimento all'accusa di cessione delle sostanze stupefacenti negando la credibilità della persona offesa anche in parte qua, osserva il Collegio come la Corte territoriale, con logica e adeguata motivazione, ha ritenuto la penale responsabilità del ricorrente sul rilievo che entrambe le persone offese avessero concordemente riferito che l'imputato aveva loro ceduto della cocaina: il (OMISSIS) alla R., come riferito dalla medesima in sede di denuncia e d'incidente probatorio e come riscontrato documentalmente dalla cartella clinica di pronto soccorso, ove si dava atto della presenza di tracce di cocaina nelle urine; il (OMISSIS) alla Pa., la quale, in sede di s.i.t., riferiva credibilmente che l'imputato, nell'occasione, le aveva offerto una dose di cocaina.
Al cospetto di ciò, le doglianze del ricorrente si risolvono in obiezioni manifestamente infondate, essendo stata la prova desunta anche dalla convergenza delle dichiarazioni delle ragazze e da riscontri oggettivi, ovvero si risolvono in censure non consentite in sede di controllo di legittimità. Dette censure, infatti, investono il merito della valutazione giudiziale e pertanto fuoriescono, in presenza, come nella specie, di una adeguata motivazione priva di vizi di manifesta illogicità, dal perimetro riservato al sindacato devoluto alla Corte di cassazione.
4.2. Anche il secondo motivo è inammissibile perché non consentito e manifestamente infondato.
In primo luogo, non risulta, dall'epigrafe dell'impugnata sentenza nella parte riservate alle conclusioni, che l'imputato, formulando le richieste rassegnate nel giudizio di appello, avesse rivendicato l'applicazione del fatto di particolare tenuità ex art. 131-bis c.p. ed era suo onere dimostrare l'assunto dedotto con il ricorso al fine di reclamare il vizio di omessa motivazione rimproverato alla Corte d'appello.
In secondo luogo, occorre ricordare che il vizio di omessa motivazione non ricorre quando il motivo di appello non sia suscettibile di accoglimento, con la conseguenza che deve escludersi che sussista l'obbligo di motivare il diniego di ciò che non è concedibile per il difetto di ogni presupposto, sicché, in tal caso, l'assenza della motivazione non comporta l'annullamento della sentenza impugnata.
Nel caso in esame, la condotta del ricorrente è stata reiterata e ciò esclude, in partenza, la concedibilità dell'invocata causa di non punibilità.
Va anche ricordato che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita, evenienza che si verifica anche nel caso, come nella specie sussistente, in cui il giudice abbia ritenuto di determinare la pena base in misura superiore (nove mesi) al minimo edittale (sei mesi), e quindi con aumento pari alla metà del minimo edittale (Sez. 5, n. 15658 del 14/12/2018, dep. 2019, D., Rv. 275635 - 02; Sez. 3, n. 48317 del 11/10/2016, Scopazzo, Rv. 268499 - 01).
4.3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso dell'imputato debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
5. Le spese processuali tra le parti, in ordine al presente giudizio di legittimità, dovranno essere regolate in sede di esito definitivo della regiudicanda sui reati di violenza sessuale e di lesioni.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente ai capi 1) e 3), con rinvio per nuovo giudizio sui capi ad altra sezione della Corte di appello di Roma.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto da P.M., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 25 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2022