Tribunale Lecce sez. I, 09/05/2024, n.1374
Principio di diritto
In tema di diffamazione aggravata mediante Facebook, integra il delitto previsto dall'art. 595, comma 3, c.p. la pubblicazione di un post contenente espressioni offensive e denigratorie, accessibili ad una moltitudine indeterminata di utenti, poiché l'uso del social network costituisce una modalità di pubblicità aggravata. La portata diffamatoria è aggravata dall'assenza di verità e continenza delle espressioni, che non possono essere scriminate dal diritto di critica se si trasformano in un attacco personale privo di riscontri oggettivi e finalità di pubblico interesse.
Sintesi della decisione
Il Tribunale di Lecce ha dichiarato l’imputato, Ca.Ro., responsabile del reato di diffamazione aggravata a mezzo Facebook per aver definito il sindaco e il comune di Porto Cesareo "mafiosi" in un post pubblico. La condotta è stata giudicata diffamatoria per l'intrinseca offensività delle espressioni utilizzate, la mancanza di riscontri oggettivi e l'assenza di elementi che giustificassero l’esercizio del diritto di critica.
Condanna:
Pena: multa di € 1.000, ridotta per il rito abbreviato, con sospensione condizionale della pena.
Risarcimento danni: € 2.500 a ciascuna parte civile (sindaco e Comune), oltre interessi legali.
Spese legali: € 1.797,00, oltre accessori di legge.
La decisione ribadisce che la pubblicazione su piattaforme social di contenuti lesivi della reputazione, privi di un pubblico interesse e di continenza, rappresenta una grave violazione della dignità e onorabilità dei soggetti coinvolti.
Svolgimento del processo
1. Con decreto di citazione diretta a giudizio a seguito di ordinanza del Gip emesso il 04.03.2022, Ca.Ro. veniva tratta a giudizio per rispondere dell'imputazione innanzi compiutamente indicata.
Dopo due rinvii interlocutori, all'udienza del 07.09.2023, ammessa la costituzione della parte civile Al.Sa. e del Comune di Porto Cesareo, in persona del sindaco p.t., il difensore dell'imputato, munito di procura speciale, chiedeva definirsi il giudizio nelle forme del rito abbreviato. Il giudice ammetteva il rito, accettato dalla parte civile, e rinviava il processo ad altra data per la discussione.
All'odierna udienza, il Tribunale invitava le parti a rassegnare le conclusioni e, all'esito della decisione in Camera di Consiglio, pronunciava dispositivo di sentenza con contestuali motivi.
Motivi della decisione
2. Si ritiene che il compendio probatorio disponibile - costituito dalla denuncia querela della persona offesa, dal post diffamatorio costituente corpo del reato proveniente dal profilo Facebook dello stesso Ca., nonché dai verbali degli atti di indagine compiuti - pienamente utilizzabile in ragione del rito prescelto, consenta di giungere all'affermazione della penale responsabilità dell'odierno imputato.
Ca.Ro. è imputato del reato di diffamazione a mezzo stampa in danno di Al.Sa., in qualità di sindaco del Comune di Porto Cesareo, nonché del medesimo Comune di Porto Cesareo, per aver offeso la reputazione delle pp.oo. pubblicando sul proprio profilo Facebook la seguente frase: "Porto Cesareo paese mafioso!!! Con un sindaco mafioso".
In punto di diritto, si osserva che l'oggetto giuridico tutelato dall'art. 595 c.p. è rappresentato dalla reputazione, che costituisce secondo opinione diffusa, il profilo esteriore dell'onore, inteso come bene giuridico costituzionalmente orientato, riconosciuto nell'art. 3 della Costituzione, che ascrive a tuti i cittadini pari dignità sociale. Ne deriva che l'onore è attributo originario della persona umana come tale ed in quanto tale, costituendo un valore intrinseco della stessa in forza della propria dignità di persona umana e, pertanto, tutelato obiettivamente. Dunque, pur essendo "necessario fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa è stata pronunciata, esistono, tuttavia, limiti invalicabili, posti dall'art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate loci causa" - Cass. Art., sez. V, 22.3.2013, n. 25563).
La condotta, per essere penalmente rilevante, deve integrare i seguenti requisiti: - l'assenza dell'offeso, che si deduce dall'inciso "fuori dei casi indicati dall'articolo precedente" con cui si apre l'art. 595 c.p. e consiste nell'impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l'addebito diffamatorio, o che si verifichino quei fatti che la legge equipara alla presenza, quali la comunicazione telegrafica o telefonica o gli scritti o i disegni diretti alla persona offesa; - l'offesa alla reputazione di una persona, intesa come uso di parole o di atti destinati a ledere l'onore e quindi provocanti una lesione a tale bene; - la comunicazione con due o più persone, che siano in grado di percepire l'offesa e di comprenderne il significato.
In particolare, nella condotta perpetrata mediante l'utilizzo della rete internet, la Suprema Corte ha affermato che quando una notizia venga immessa sui cc.dd. media, ovvero sui mezzi di comunicazione di massa, la diffusione della stessa deve presumersi fino a prova contraria, "secondo un criterio che la nozione stessa di "pubblicazione" impone", costituendo quest'ultima un'ipotesi di offerta in incertam personam che implica la fruibilità delle notizie da parte di un numero indeterminabile di utenti. Per quanto concerne la diffamazione perpetrata attraverso la pubblicazione sulla bacheca del social network FB, come nel caso di specie, giova richiamare Cass. Pen., Sez. I, 16.4.14, n. 16712, in cui si ritiene integrata l'aggravante dell'utilizzo del mezzo di pubblicità di cui all'art. 595 co. 3 c.p. "tenuto conto che la pubblicazione della frase indicata nell'imputazione sul profilo del social network Facebook rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network ed anche per le notizie riservate agli "amici" ad una cerchia ampia di soggetti" non potendo tuttavia equipararsi al mezzo della stampa, non essendo i social network destinati ad un'attività di informazione professionale diretta al pubblico (Cass. Pen., Sez. V, 14.11.16, n. 4873).
Ferme le considerazioni che precedono, nessun dubbio sussiste nel caso di specie circa la individuazione del soggetto passivo del reato, essendo stato quest'ultimo precisamente individuato, anche attraverso la qualifica professionale nel post corpo del reato.
Allo stesso modo, alcuna incertezza può ravvisarsi quanto alla individuazione dell'autore del post diffamatorio, dovendosi in tal senso certamente disattendere l'eccezione della difesa circa il mancato accertamento dell'indirizzo IP da cui sarebbe stato scritto il post oggetto dell'editto accusatorio.
Alla luce della documentazione disponibile, infatti, risulta che il profilo sul quale furono pubblicate le frasi offensive era intestato a Ca.Ro.; del pari, stando a quanto attestato dai Carabinieri di Porto Cesareo nell'annotazione del 21.09.2019, è emerso che sullo stesso vi erano delle foto che ritraevano l'imputo medesimo. Infine, va poi rimarcato, come correttamente rilevato dal Gip nell'ordinanza del 17.02.2020, che l'imputato aveva precisi motivi per opporsi alla realizzazione dell'impianto di depurazione fognaria, costituente oggetto del post Facebook su cui vennero pubblicate le frasi diffamatorie, avuto riguardo alla prossimità dell'opera rispetto alla sua abitazione; né, d'altro canto, risultano denunce all'A.G. da parte del Ca. inerenti all'abusiva apertura o utilizzo di un post Facebook intestato a suo nome.
Gli elementi testé evidenziati, portano tutti a individuare nel Ca. l'autore materiale della condotta delittuosa per cui è processo; e ciò, tenuto altresì conto dell'insegnamento della Corte di Cassazione che, in un suo recente arresto, ha avuto modo di chiarire che "ai fini dell'affermazione della responsabilità per il delitto di diffamazione, l'accertamento tecnico in ordine alla titolarità dell'indirizzo IP da cui risultano spediti i messaggi offensivi non è necessario, a condizione che il profilo "facebook" sia attribuibile all'imputato sulla base di elementi logici, desumibili dalla convergenza di plurimi e precisi dati indiziari quali il movente, l'argomento del "forum" sul quale i messaggi sono pubblicati, il rapporto tra le parti, la provenienza del "post" dalla bacheca virtuale dell'imputato con utilizzo del suo "nickname"". Cass., Sez. 5 Sentenza n. 38755 del 14/07/2023 Ud. (dep. 22/09/2023) Rv. 285077 - 01.
Tanto osservato, indiscussa appare altresì la portata diffamatoria del "post", dal momento che definisce le pp.oo. come "mafiose": tale offesa, peraltro, acquista carica diffamatoria ancor maggiore poiché riferita non ad un comune cittadino, ma al sindaco e all'intera cittadina da questi amministrata. E' evidente quindi che nel caso di specie sono stati platealmente superati i limiti della verità e della continenza sottesi all'esercizio del diritto di critica, tali espressioni essendosi trasformate in accuse personali pungenti, ma prive di oggettività e di riscontri concreti trascendendo in un attacco personale, diretto a colpire sul piano personale, senza alcuna finalità di pubblico interesse. Inoltre, la Cassazione ha affermato che "La parola "mafioso" assume carattere offensivo e infamante e, laddove comunicata a più persone per definire il comportamento di taluno, in assenza di qualsiasi elemento che ne suffraghi la veridicità, integra il delitto di diffamazione, sostanziandosi nella mera aggressione verbale del soggetto criticato. (Fattispecie relativa al commento critico, pubblicato su "facebook" dall'ex-sindaco di un comune siciliano, del comportamento tenuto dal sindaco in carica nella designazione dei candidati per le elezioni locali, comportamento definito dal ricorrente come "imposizione o agire mafioso")", (Cass Sez. 5, Sentenza n. 39047 del 29/05/2019 Ud. (dep. 24/09/2019) Rv. 276855). Cosicché, alla luce di quanto detto, l'imputato non può invocare a sua discolpa le scriminati dei diritti di cronaca e di critica, riconducibili alla causa di giustificazione prevista dall'art. 51 c.p.
Evidente appare, inoltre, l'elemento soggettivo costituito, come ormai da univoca giurisprudenza di legittimità, dalla coscienza e volontà di comunicare a più persone l'espressione della quale si conosce (o della quale non può disconoscersi) la valenza lesiva, senza che sia necessaria la prova della sussistenza di un animus diffamandi ("In tema di delitti contro l'onore, non è richiesta la presenza di un animus iniuriandi vel diffamandi ma appare sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto basta che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente. Nella fattispecie, la Corte ha ravvisato gli estremi dell'ingiuria nelle affermazioni di un professore universitario che aveva definito un suo collega come un individuo di scarsa personalità, accusandolo inoltre di aver "partecipato ad un raggiro": Cassazione penale, sez. V, 11 maggio 1999, n. 7597). Non vi è chi non veda che l'imputato sicuramente era consapevole della portata diffamatoria del proprio "post", dal momento che indubbia è la valenza negativa dell'espressione "mafioso".
3. Venendo alla dosimetria del trattamento sanzionatorio, il Tribunale non ravvisa alcun elemento in relazione al quale poter riconoscere all'imputato le circostanze attenuanti generiche, sicché si stima congruo applicare, considerando l'aggravante di cui al comma 3 dell'art. 595 c.p., la pena di euro 1000,00 di multa (p.b., euro 1.500,00 di multa, ridotta a quella finale per la diminuente per il rito), sulla scorta degli indici di cui all'art. 133 c.p., ed in particolare dell'intensità del dolo e del danno arrecato alle pp.oo.
Tale danno, per le stesse motivazioni appena illustrate può essere equitativamente stimato in Euro 2.500, ciascuno, sull'ammontare della qual somma vanno calcolati gli interessi dal dovuto al soddisfo.
All'imputato può essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, confidando nel fatto che la presente esperienza giudiziaria gli consigli di astenersi dal compiere ulteriori reati. Infine, l'imputato va condannata alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza in giudizio sostenute dalla parte civile, che si liquidano, ex DM 55/14, in Euro 1.797,00 oltre al 15 per cento per spese, ed oltre IVA e CPA come per legge.
P.Q.M.
Letti gli articoli 533 e 535 c.p.p.,
dichiara Ca.Ro. responsabile del reato a lui ascritto e, in concorso con la diminuente per il rito, lo condanna alla pena di Euro 1000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.
Letti gli artt. 538 e ss. c.p.p., condanna altresì Ca.Ro. al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, quantificato equitativamente in Euro 2.500, ciascuno, oltre interessi dal dovuto al soddisfo, nonché alla refusione delle spese legali dalla stessa sostenute, liquidate in Euro 1.797,00 oltre al 15 per cento per spese forfetarie, IVA e CPA come per legge. Pena sospesa. Motivazione contestuale.
Così deciso in Lecce il 9 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2024.