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Condanna per maltrattamenti in famiglia: rilevanza della continuità delle condotte e preclusione ai benefici penitenziari (Giudice Arnaldo Merola)

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Tribunale Nola, 11/01/2024, n.2057

La reiterazione di condotte vessatorie e violente, sia fisiche che morali, integra il delitto di maltrattamenti in famiglia, ai sensi dell'art. 572 c.p., quando gli atti sono abituali e caratterizzati dalla volontà di prevaricazione. La personalità deviante e recidiva dell'imputato costituisce motivo ostativo alla concessione di benefici come la sospensione condizionale della pena o la sostituzione della pena detentiva.

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La sentenza integrale

Svolgimento del processo
Con decreto che dispone il giudizio emesso dal GUP in sede in data 20 aprile 2022, Pa.En. veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati in epigrafe indicati.

All'udienza dei 9 settembre 2022, il giudice, accertata la regolare costituzione delle parti e disposto procedersi in assenza dell'imputato, ritualmente citato e non comparso, rinviava il processo su richiesta delle parti, che rappresentavano che fossero in corso trattative per un bonario componimento della vicenda (con conseguente sospensione del corso della prescrizione).

All'udienza dell'1 febbraio 2023, venivano acquisiti gli atti di remissione di querela e di relativa accettazione. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.

All'udienza del 12 maggio 2023, il giudice dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva i mezzi di prova orali e documentali richiesti dalle parti. Si procedeva, poi, all'escussione in qualità di teste della persona offesa, Ad.Ci.

Con il consenso delle parti, venivano acquisite le denunce sporte dalla Ad. e i verbali di sommarie informazioni rese dalla stessa. All'esito, il processo veniva rinviato in prosieguo.

All'udienza del 20 ottobre 2023, con il consenso delle parti si acquisivano i verbali di sommarie informazioni rese da Pa. ed altri (…), con rinuncia delle parti all'escussione dei residui testi di lista del PM. Il giudice, allora, revocava l'ordinanza ammissiva delle relative testimonianze e rinviava il processo in prosieguo. All'odierna udienza, il giudice dichiarava chiusa l'istruttoria dibattimentale e utilizzabili tutti gli atti processuali contenuti nel fascicolo dibattimentale e dava la parola alle parti, che rassegnavano le conclusioni in epigrafe riportate, sulla base delle quali pronunciava la presente sentenza, dando lettura del dispositivo in udienza. In quel frangente, il giudice non dava gli avvisi di cui all'art. 545-bis c.p.p., non ritenendo sussistenti, per le ragioni di cui si dirà in motivazione, le condizioni per sostituire la pena detentiva inflitta con una delle pene sostitutive di cui all'art. 53 1. 689/1981.

Diritto
Motivi della decisione
Osserva il giudicante che, alla luce degli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e dell'attività istruttoria espletata, vada affermata la penale responsabilità di Pa.En. in ordine al reato di cui all'art. 572 c.p.

Viceversa, va emessa nei confronti dell'odierno imputato sentenza di non doversi procedere nei in ordine all'ulteriore reato a lui ascritto in quanto estinto per intervenuta remissione di querela, debitamente accettata. Ed invero, alla stregua delle dichiarazioni di remissione e accettazione di querela ritualmente acquisite, si impone la declaratoria della suddetta causa di improcedibilità, non ravvisandosi gli estremi per una pronuncia assolutoria nel merito. Al riguardo la giurisprudenza di legittimità, senza oscillazioni, ha evidenziato che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, co. 2 c.p.p., soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l'esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell'imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di "constatazione" (percezione ictu oculi), che a quello di "apprezzamento", incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento; in altre parole, "l'evidenza" richiesta dall'art. 129, co. 2, c.p.p. presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia. Da qui il principio di diritto secondo cui "all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, cod. proc. pen. (Cass., Sez. U, 28 maggio 2009, n. 35490). In altri termini, la regola probatoria di cui all'art. 530, co. 2, c.p.p. - cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità - appare dettata esclusivamente per il normale esito del processo che sfocia in una sentenza emessa dal giudice al compimento dell'attività dibattimentale, a seguito di una approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito agli atti; tale regola, giova ribadirlo, non può trovare applicazione in presenza di una causa estintiva del reato: in una situazione del genere vale, invece, la regola di giudizio di cui all'art. 129 c.p.p. in base alla quale, intervenuta una causa estintiva del reato, può essere pronunciata sentenza di proscioglimento nel merito solo qualora emerga dagli atti processuali "positivamente" ("risulta evidente": art. 129, co. 2, c.p.p.), senza necessità di ulteriore approfondimento, l'estraneità dell'imputato a quanto contestatogli. Non essendosi integrata nel caso di specie tale eventualità, corre l'obbligo a questo giudicante di ritenere che il reato di cui all'art. 388 c.p. debba considerarsi estinto ai sensi dell'art. 152 c.p., per intervenuta remissione di querela, debitamente accettata dal querelato. Tanto premesso, l'affermazione di responsabilità del Pa. si fonda sulla valutazione complessiva degli elementi probatori acquisiti e in particolare sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, Ad.Ci., che hanno superato positivamente il rigido vaglio di credibilità e di attendibilità cui questo giudice le ha sottoposte.

L'Ad. sporgeva una denuncia/querela nei confronti dell'odierno imputato in data 23 gennaio 2020, nella quale rappresentava di essere stata vittima di minacce e di maltrattamenti in famiglia (cfr. querela orale sporta da Ad.Ci. in data 23 gennaio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di Pomigliano d'Arco, ritualmente acquisita agli atti con il consenso delle parti). In particolare, la donna precisava di essersi separata nel 2011 dall'ex marito, Pa.En., e di aver ottenuto, nell'ambito di tale procedura, l'assegnazione della casa familiare, sita in Pomigliano d'Arco, alla via (…); nonostante ciò, l'odierno imputato non si era mai veramente allontanato dall'abitazione coniugale, non avendo un altro luogo dove dimorare.

Fatta questa premessa, l'Ad. chiariva di essere stata sempre vittima di condotte violente e prevaricatrici poste in essere dal Pa. e di averlo già denunciato in data 14 giugno 2016. Tuttavia, la stessa aveva, poi, deciso di rimettere la querela sporta nella speranza che lo stesso potesse desistere dai suoi atteggiamenti.

Dopo tale avvenimento, per qualche mese, la situazione si tranquillizzava. Dall'anno, 2017, però, il Pa., con cadenza quasi giornaliera, riprendeva a tenere comportamenti ingiuriosi ("min si bon, si na chiavica", "puttana") e minacciosi nei suoi confronti, rivendicando il proprio ruolo di supremazia all'interno del manage familiare. Lo stesso, infatti, contestando per ragioni di gelosia alla donna le proprie frequentazioni, si adirava spesso, anche alla presenza dei figli, Francesco e Assunta, e in quei momenti non riusciva a contenersi, scagliandosi anche contro gli oggetti presenti in casa. In data 22 gennaio 2020, ad esempio, si svegliava e, dopo aver iniziato a urlare contro la Ad., ingiuriandola ("non ero buona a nulla"), scagliava un thermos contro una zanzariera e faceva cadere a terra la macchinetta del caffè. In preda alla rabbia, il Pa. incastrava la donna in un angolo della cucina e le puntava un coltello alla testa, insultandola e minacciandola di morte ("tu si na puttana", "i t'accir"). Sentita a sommarie informazioni in data 28 gennaio 2020, la Ad. confermava quanto riferito in sede di denuncia, fornendo ulteriori dettagli sull'episodio del 22 gennaio 2020. In tale frangente, inoltre, la donna chiariva di essere stata aggredita fisicamente dal Pa. solo in alcune occasioni, verificatesi prima della denuncia del 2016, nel corso delle quali la stessa veniva colpita con degli schiaffi al volto. In ragione di quanto raccontato, l'Ad. confermava di temere per la propria incolumità e invocava l'intervento delle forze dell'ordine affinché l'odierno imputato venisse allontanato dalla casa coniugale (cfr. verbale di sommarie informazioni rese da Ad.Ci. in data 28 gennaio 2020 presso la Procura della Repubblica di Nola, ritualmente acquisito in atti con il consenso delle parti).

Dopo avere sporto una nuova denuncia orale in data 22 maggio 2020, nella quale la donna riferiva che il Pa. continuava a non dare attuazione al provvedimento di separazione, permanendo nell'abitazione familiare e costringendo la stessa ad allontanarsi con il figlio Fr. (cfr. denuncia orale sporta da Ad.Ci. in data 22 maggio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di San Nicola La Strada, ritualmente acquisita agli atti con il consenso delle parti), la Ad. veniva nuovamente sentita in data 25 giugno 2020.

In tale frangente, la stessa confermava di essere stata vittima negli ultimi anni di coabitazione con il Pa. di atteggiamenti violenti e vessatori posti in essere dall'odierno imputato e chiedeva che lo stesso venisse punito per le sue condotte, che l'avevano profondamente colpita e l'avevano indotta a temere per la propria incolumità, attese le numerose minacce di morte ricevute (cfr. verbale di sommarie informazioni rese da Ad.Ci. in data 25 giugno 2020 presso la Procura della Repubblica di Nola, ritualmente acquisito agli atti con il consenso delle parti).

Di analogo tenore le dichiarazioni rese dalla donna nel corso della sua escussione dibattimentale, allorquando la stessa ha confermato che dopo la separazione l'uomo continuava a vivere presso l'abitazione familiare e, non accettando la fine della loro relazione, poneva in essere atteggiamenti prevaricatori nei suoi confronti, limitando la sua libertà, svilendola e minacciandola.

Il propalato della persona offesa ha trovato riscontro nelle dichiarazioni rese dalla figlia, Pa.As. ed altri (…). La prima ha confermato che dopo la separazione i genitori avevano continuato a vivere insieme e che il padre era sempre stato violento, aggressivo e prepotente nei confronti della madre, tanto da costringere lei e il fratello a prendere le sue difese. La stessa, inoltre, ha riferito che pur non vivendo insieme ai genitori, riceveva costantemente le confidenze della madre, la quale le riferiva anche dell'episodio del 22 gennaio 2020 nel corso del quale l'odierno imputato l'aveva minacciata, putandole un coltello alla gola (cfr. verbale di sommarie informazioni rese da Pa.As. in data 25 gennaio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di Gallarate, ritualmente acquisito agli atti con il consenso delle parti).

Analogamente, i fratelli dell'Ad. hanno chiarito di avere contatti telefonici giornalieri con la persona offesa, la quale confidava agli stessi gli atteggiamenti oppressivi e violenti posti in essere nei suoi confronti dal Pa., mostrando tutto il proprio disagio e la propria sofferenza (cfr. verbale di sommarie informazioni rese da Ad.Ra. in data 23 gennaio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di Modena, verbale di sommarie informazioni rese da Ad.Cl. in data 25 gennaio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di Piazzolla di Noia, verbale di sommarie informazioni rese da Ad.Gi. in data 26 gennaio 2020 presso la Stazione dei Carabinieri di Brusciano, ritualmente acquisiti agli atti con il consenso delle parti). Così ricostruite le emergenze processuali, a parere di questo giudice, l'ipotesi accusatoria relativa al reato di maltrattamenti in famiglia ha trovato pacifico conforto nelle sintetizzate risultanze istruttorie e per tale ragione va senza dubbio affermata la penale responsabilità dell'odierno imputato per il reato di cui all'art. 572 c.p.

Ed invero, le dichiarazioni rese dalla persona offesa hanno positivamente superato il vaglio di attendibilità intrinseca ed estrinseca, essendo risultate assolutamente genuine, credibili e coerenti e avendo trovato riscontro nelle dichiarazioni rese dagli altri soggetti, sentiti, i quali hanno riferito di aver ricevuto le confidenze della donna circa i comportamenti vessatori tenuti dall'odierno imputato.

Va in merito ricordato che è assolutamente consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui la testimonianza della persona offesa ben può costituire una fonte di convincimento, ancorché esclusiva, per il giudice, anche se, per essere posta a fondamento di un giudizio di colpevolezza, essa deve essere sottoposta ad un rigoroso vaglio critico della sua attendibilità, sia intrinseca che estrinseca, al fine di escludere che sia l'effetto di mire deviatrici (in tal senso, cfr. Cass., Sez. I, 24 settembre 1997, n. 8606). In sostanza, alla persona offesa è riconosciuta la capacità di testimoniare a condizione che la sua deposizione, non immune da sospetto per essere la stessa portatrice di interessi in posizione di antagonismo con quelli dell'imputato, sia ritenuta veridica, dovendosi a tal fine far ricorso all'utilizzazione ed all'analisi di qualsiasi elemento di riscontro o di controllo ricavabile dal processo (Cass., Sez. V, 3 novembre 1992, n. 839; Cass., Sez. II, 24 settembre 2015, n. 43278).

E', però, anche opportuno precisare che, non configurando il dettato normativo alcuna pregiudiziale di natura ontologica alla utilizzabilità della stessa deposizione quale prova ex se esaustiva per la affermazione della responsabilità penale, eventuali riscontri estrinseci, se acquisiti, non devono necessariamente presentare le connotazioni che si richiedono per la verifica della chiamata in correità (e cioè, in sintesi, la convergenza con altri elementi di natura indiziaria e la portata individualizzante o specifica del riscontro, che deve riguardare, nel caso di chiamata, sia la persona dell'incolpato, che le imputazioni a lui ascritte). D'altronde, risulta assolutamente plausibile la circostanza che la Pa. abbia atteso diversi anni prima di denunciare le condotte tenute dall'odierno imputato, avendo cercato sempre di mantenere unita la famiglia, circostanza che ancor più fa propendere per l'assenza di qualunque intento calunniatorio nei suoi confronti e che rafforza la sincerità del propalato della persona offesa.

Peraltro, l'imputato, a fronte delle suesposte risultanze probatorie, non ha fornito una diversa ricostruzione dei fatti e un'alternativa chiave di lettura al materiale probatorio raccolto, rispetto a quella fornita dalla prospettazione accusatoria, allo stato l'unica ipotizzabile. Il diritto dell'imputato di difendersi tacendo, in altri termini, non può tradursi in una limitazione legale della sfera del libero convincimento del giudice, che può legittimamente esercitarsi, com'è stato autorevolmente sostenuto, anche in merito al significato attribuibile al silenzio serbato dall'imputato "su circostanze su cui questi, potendo fornire indicazioni di dati che potrebbero scagionarlo e contribuire ali 'accertamento della verità, si rifiuti di farlo. In tal caso non può dirsi che il silenzio - garantito all'imputato come oggetto di un suo diritto processuale - venga utilizzato, in contrasto con tale garanzia, coma tacita confessione di colpevolezza, giacché il convincimento di reità del giudice viene a formarsi non sulla valorizzazione confessoria del silenzio, bensì sulla valorizzazione in senso probatorio di elementi già idonei a suffragare un giudizio di colpevolezza, in ordine ai quali il silenzio del soggetto viene ad assumere valore di mero riscontro obiettivo" (cfr. Cass. pen., sez. V, 21.12,1988, Pavoni). Sulla base, allora, delle indicate risultanze istruttorie risulta al di là di ogni ragionevole dubbio provata la penale responsabilità del Pa. per il delitto di maltrattamenti in famiglia. Costui, sin dai primi anni di matrimonio, ha sottoposto, in modo continuativo e abituale, la moglie a ripetuti atti di violenza morale e fisica, rendendo impossibile la convivenza all'interno del nucleo familiare. Ed invero, è emerso pacificamente che le liti, in molti casi, avvenivano in presenza dei figli, alcuni dei quali all'epoca dei fatti minorenni, fortemente traumatizzati da tali accadimenti.

La Pa. ha tracciato un quadro chiaro dei rapporti intrattenuti con l'odierno imputato, caratterizzati da continue aggressioni verbali e fisiche da parte dell'uomo, il quale, una volta perso il controllo, si scagliava contro la moglie per i più futili motivi, principalmente con insulti e minacce.

Non vi è ragione alcuna di dubitare del narrato della persona offesa, che descrive con linearità i comportamenti di cui è stata vittima. Le sue dichiarazioni mostrano un significativo equilibrio di coerenza interna e non offrono alcuno spunto che induca a considerare l'eventualità che la stessa sia animata da intenti calunniosi, come del resto si evince dalla rinuncia da parte sua alla costituzione di parte civile e dall'assenza di qualsiasi riluttanza a riferire anche elementi favorevoli per l'imputato.

Tutto ciò considerato, quindi, ritiene questo giudice che sussistono certamente i requisiti per l'integrazione del contestato reato di maltrattamenti in famiglia.

Tale delitto sussiste, infatti, quando l'agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori, delittuosi o meno (cfr. sul punto Cass. Pen., Sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13422), siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere in modo continuativo tali atti. Ne discende che, ai fini della sussistenza del delitto in parola, occorre dimostrare che tutti i comportamenti accertati siano tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che "integra il delitto maltrattamenti in famiglia, oltre che l'esercizio reiterato di minacce e restrizioni della libertà di movimento di una donna componente del gruppo familiare, anche la sostanziale privazione della sua funzione genitoriale, realizzata mediante l'avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della sua figura morale" (Cass., Sez. V, 25 marzo 2019, n. 21133).

Come chiarito, i comportamenti vessatori posti in essere dal Pa. si verificavano in modo abituale, ragion per cui si possono senza dubbio ritenere sussistenti i requisiti per l'integrazione del reato contestato.

E, infatti, sufficiente, ai fini della configurazione del delitto di cui all'art. 572 c.p., che i più atti fisicamente o moralmente violenti, delittuosi o meno, siano realizzati anche in momenti successivi, purché risultino collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze.

I fatti e le condotte che costituiscono maltrattamenti nel senso sopra indicato, infatti, sono atti, sia commissivi che omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili {ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), ma acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo (cfr. Cass., Sez. VI, 27 aprile 1995, n. 4636; Cass., Sez. VI, 12 settembre 1996, n. 8396).

Ed invero, l'elemento caratterizzante della condotta di maltrattamento è dato dalla abitualità o reiterazione nel tempo di tali atti: tale requisito non richiede che ci si trovi al cospetto di un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, ed essendo invece sufficiente che i singoli episodi siano unificati da un dolo unitario che abbraccia e fonde le diverse azioni, consistente nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte.

Secondo il consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, oltretutto, tale delitto sussiste quando l'agente sottoponga il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo che i singoli atti vessatori siano uniti tanto da un legame di abitualità, quanto dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere in modo continuativo tali atti. Ne discende che, ai fini della sussistenza del delitto in parola, occorre dimostrare che tutti i comportamenti accertati siano tra loro connessi e cementati in maniera inscindibile dalla volontà unitaria.

Il reato di maltrattamenti è, infatti, un "reato a condotta plurima", in quanto è tutta la condotta dell'imputato che deve essere considerata come caratterizzata da una serie o insiemi di azioni o omissioni finalizzate e da un comportamento assunto a sistema e distinto dal nesso di abitualità tra i vari fatti, con esclusione assoluta della mera occasionalità e del dolo d'impeto, isolato e frammentario.

Nel caso concreto, la molteplicità e continuatività dei comportamenti aggressivi e svilenti riferiti dalla persona offesa - e confermati dai suoi familiari - nell'arco temporale che va dai primi anni di matrimonio fino al 2020, unita al quotidiano regime di soggezione instaurato dal Pa. tra le mura domestiche, non possono che far ritenere integrati gli elementi oggettivi del reato contestato. L'atteggiamento prevaricatore e aggressivo quotidianamente assunto dall'imputato, infatti, di fatto privava la persona offesa della possibilità di fare e dire ciò che desiderasse, in quanto anche il più futile dei motivi costituiva, nell'ottica del Pa., l'occasione propizia per offenderla, minacciarla e vessarla.

Né vale ad escludere la responsabilità dell'odierno imputato l'assenza di un continuativo rapporto di coabitazione, atteso che la giurisprudenza di legittimità ha in più di un'occasione chiarito che "ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 cod. pen., deve considerarsi "famiglia" ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione. E' sufficiente un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà ed a strette relazioni, dovute a diversi motivi anche assistenziali" (Cass., Sez. Ili, 3 luglio 1997, n. 8953 - cfr. Cass., Sez. II, 5 luglio 2016, n. 39331; Cass. Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 23830; Cass., Sez. VI, 27 giugno 2008, n. 26571; Cass., Sez. VI, 22 settembre 2003, n. 49109).

Sul piano dell'elemento soggettivo, sussiste altresì il dolo generico richiesto dalla norma, inteso come consapevolezza e volontà di infliggere una serie di sofferenze alla vittima mediante una pluralità di atti vessatori. L'abitualità dei comportamenti aggressivi e il loro ripetersi in un determinato arco temporale denotano senza dubbio una consapevolezza nell'agente sulle sofferenze inflitte alla persona offesa, la quale era assolutamente succube delle violenze sia morali che fisiche e si era rassegnata a subirle.

Va, infatti, ricordato che nel reato abituale il dolo non richiede - a differenza che nel reato continuato - la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di. condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice (cfr. Cass. pen. Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 15146).

Su tali basi, va, quindi, affermata la penale responsabilità dell'odierno imputato in ordine al reato di maltrattamenti in famiglia a lui ascritto.

Tanto premesso, occorre passare alla determinazione del trattamento sanzionatorio da applicare nei confronti del Pa.

Appaiono sussistere nel caso di specie ragioni di meritevolezza tali da consentire il riconoscimento all'odierno imputato delle circostanze attenuanti generiche, dovendosi all'uopo valutare il corretto comportamento dello stesso, con conseguente evidente vantaggio in termini di economia processuale.

Quanto alla commisurazione della pena, valutati tutti i criteri di cui all'art 133 c.p. e avuto riguardo specialmente alle modalità dei fatti, si ritiene congruo condannare Pa.En. alla pena finale di anni due di reclusione, così determinata: pena base anni tre di reclusione, ridotta per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche alla pena inflitta. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

Non sussistono, alla luce dei plurimi precedenti da cui il Pa. risulta gravato, i presupposti formali e sostanziali per la concessione all'imputato dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna (cfr. risultanze del certificato del casellario giudiziale in atti).

Sul punto, va, inoltre, evidenziato che la personalità deviante e trasgressiva dell'odierno imputato costituisce, ai sensi dell'art. 53, L. 689/1981, fondato motivo ostativo alla sostituzione della pena detentiva inflitta nei suoi confronti. Lo stesso, infatti, autore di plurimi reati e puntualmente ritornato a delinquere dopo ogni condanna (anche dopo aver beneficiato della sospensione condizionale della pena), si è dimostrato incapace di assicurare l'adempimento delle prescrizioni connesse a un trattamento sanzionatorio diverso da quello tradizionale. Alla luce dei carichi di lavoro, si fissa in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione.

P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara Pa.En. colpevole del reato di cui all'art, 572 c.p. e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di anni due di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Letto l'art. 531 c.p.p., dichiara non doversi procedere nei confronti di Pa.En. in ordine al reato di cui all'art. 388 c.p. in quanto estinto per intervenuta remissione di querela, debitamente accettata.

Fissa in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Nola il 24 novembre 2023.

Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2024.

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