Tribunale Lecce sez. I, 08/07/2024, n.2035
Le dichiarazioni della persona offesa, specialmente quando costituitasi parte civile, devono essere sottoposte a un rigoroso vaglio di credibilità soggettiva e oggettiva e, in assenza di riscontri esterni univoci e coerenti, non possono da sole fondare un'affermazione di responsabilità penale.
Svolgimento del processo
1. Con decreto ex art. 429 c.p.p. del 20.05.2021, il Gup in sede disponeva il rinvio a giudizio a carico di Tu.Do., in ordine ai reati allo stesso ascritti in epigrafe.
All'udienza dell'11.11.2021, presente l'imputato, veniva ammessa la costituzione della parte civile Ci.Ma. e, all'esito, il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento, invitando le parti ad articolare le rispettive richieste istruttorie, ammesse con ordinanza.
All'udienza del 22.09.2022, la prima tenuta dallo scrivente magistrato, le parti si riportavano alle richieste di prova già avanzate, avuto riguardo al mutamento della persona fisica del giudicante; di seguito, si dava corso all'istruttoria dibattimentale mediante l'esame della persona offesa Ci.Ma. e della teste Sa.Cl., nonché attraverso la concorde acquisizione della CNR del 27.08.2019, in relazione alla quale le parti rinunciavano all'esame dei testi di P.G.
All'udienza del 09.01.2023 aveva nuovamente luogo l'esame della p.o., nonché l'escussione dei testi Be.Si. ed altri (…).
Dopo un mero rinvio, all'udienza dell'11.12.2023, si procedeva con l'esame dell'imputato e con l'ascolto del teste Lu.An., in seguito al quale veniva dichiarata chiusa l'istruttoria dibattimentale.
All'udienza odierna, il Tribunale invitava le parti alla discussione, cosicché esse formulavano le rispettive richieste come da verbale in atti e, all'esito della decisione in Camera di Consiglio, veniva dava lettura, in udienza, del dispositivo della sentenza.
Motivi della decisione
2. Ritiene il Tribunale che la compiuta istruttoria dibattimentale non ha consentito di ritenere raggiunta, al di là di ogni ragionevole dubbio, la prova della penale responsabilità dell'imputato per i reati ascrittigli.
Tale decisione si fonda sulla completa valutazione del materiale probatorio acquisito ed utilizzabile, costituito dalle dichiarazioni rese in dibattimento dalla persona offesa, dai testimoni escussi, e dagli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento.
Appare, quindi, opportuno esporre preliminarmente le dichiarazioni rese dalla persona offesa e successivamente procedere alla verifica della coerenza delle stesse nonché al confronto di tali dichiarazioni con le ulteriori risultanze processuali.
La giurisprudenza, come noto, è prudente nel valutare la testimonianza della persona offesa dal reato, si da ritenere che è necessario vagliare le sue dichiarazioni con ogni opportuna cautela, cioè compiere un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso la necessaria conferma di altri elementi probatori, talché essa può essere assunta, da sola, come fonte di prova, unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva.
Nel solco di queste considerazioni, si osserva che le dichiarazioni testimoniai i della p.o., Ci.Ma., che, in quanto costituitasi parte civile, devono essere valutate con maggior rigore in questa sede(1), non hanno trovato un pieno riscontro, nel corso dell'istruttoria dibattimentale.
Sentita in dibattimento, la p.o. ha dichiarato di essere stata legata sentimentalmente all'imputato per circa tre anni. Tale relazione era poi terminata dopo che la medesima aveva scoperto che l'imputato aveva installato sulla sua vettura un dispositivo GPS con il quale era riuscito a monitorare i suoi spostamenti.
Al riguardo, ha riferito che nel mese di agosto 2019 ella era andata a cena in compagnia delle figlie e di una loro amica presso un ristorante di (…), e che nel corso della serata aveva ricevuto un messaggio dell'imputato con il quale lo stesso le aveva augurato "buon appetito".
Incuriosita per quel messaggio, la Ci. aveva quindi deciso di "tirare un trabocchetto" all'imputato scrivendogli che si trovava "in dolce compagnia", ma con suo maggior stupore l'imputato le aveva risposto che ciò non era vero perché la stessa si trovava in compagnia delle figlie.
Avendo inteso che il Tu. era riuscito a sapere dove si trovasse e con chi era andata a cena, il giorno seguente la donna aveva chiesto spiegazioni all'imputato e questi le aveva risposto che la stessa era stata vista da una sua amica che poi glielo aveva riferito.
Proseguendo nel racconto, la Ci. ha raccontato che alcuni giorni dopo sua figlia Cl. era stata convocata presso la Stazione dei Carabinieri di Muro Leccese per essere sentita in qualità di persona informata in merito ad alcune indagini inerenti a fatti di appropriazione indebita. Ha dichiarato che in quella circostanza la figlia aveva preso la sua macchina, e poiché la stessa era rimasta senza mezzo di trasporto, aveva chiesto all'imputato di darle un passaggio. Cosicché, una volta incontratisi, l'imputato, con suo enorme stupore, le aveva chiesto che cosa ci facesse la sua macchina presso la Stazione dei Carabinieri di Muro Leccese, e quando la Ci. gli aveva raccontato il perché la figlia si trovasse dai Carabinieri, il Tu. le aveva risposto che ella non doveva preoccuparsi, perché l'interrogatorio stava andando bene e la figlia era assistita da un bravo avvocato.
A quel punto la Ci., intendendo che sulla sua macchina fosse stato installato qualche dispositivo atto a controllarne gli spostamenti, aveva deciso di portare il veicolo presso un elettrauto aveva in effetti venne rinvenuto, occultato all'interno della plancia, vicino alle casse della radio, un dispositivo GPS.
Ritenendo che tanto fosse opera del Tu., la p.o. aveva deciso di troncare immediatamente la relazione con l'imputato, ma questi, non accettando la sua decisione, aveva preso a pedinarla e a mandarle messaggi con i quali le riferiva di essere disperato e di essere pronto a gesti estremi.
In termini, la Ci. ha raccontato di due episodi nei quali, girando per strada con i figli, si era accorta della presenza dell'imputato e, temendo per la sua incolumità, aveva deciso di chiamare i Carabinieri per indurlo ad allontanarsi.
Rispondendo alle domande del difensore dell'imputato, la Ci. ha precisato che nel corso della relazione con l'imputato ella non era mai andata a convivere con lui, e che la stessa era stata destinataria di molti regali da parte del Tu., alcuni anche di ingente valore. Ha dichiarato che il l'imputato le aveva regalato l'auto sul quale era stato rinvenuto il GPS, e gliene aveva intestata un'altra di grossa cilindrata. Di poi, ha saggi unto che pochi giorni dopo aver sporto denuncia querela nei suoi riguardi, gli stessi sarebbero dovuti partire per una crociera (cfr., documentazione in atti, udienza dell'11.12.2023), non mancando poi di riferire che anche dopo la fine della relazione la stessa era andata a cena con l'imputato, anche se sempre in compagnia di alcune sue amiche. Infine, ha raccontato che nel corso del fidanzamento ella aveva ricevuto diversi prestiti in denaro da parte del Tu., che non era mai riuscita a restituire.
Sa.Cl., figlia della p.o., di cui su accordo delle parti è stata acquisita la denuncia querela del 22.08.2019, ha riferito che in seguito all'interrogatorio presso la Stazione dei Carabinieri di Muro Leccese, la madre le aveva raccontato che inspiegabilmente l'imputato aveva saputo dove ella si trovasse e le modalità con le quali si era svolto l'interrogatorio, sottolineando che, per approntare una giustificazione, il Tu. le aveva riferito che tanto gli era stato raccontato da un suo amico, di nome Fr., anch'egli Carabiniere, che si trovava in servizio presso la medesima Stazione.
Nel corso del suo esame, la teste ha dichiarato che quando si era recata presso la Stazione dei Carabinieri aveva parcheggiato la macchina in corrispondenza dell'edificio e che le finestre erano rimaste aperte.
Di poi, su domanda del difensore dell'imputato, ha precisato che a seguito del ritrovamento del GPS, circostanza che aveva provocato in lei un grave turbamento, tanto da costringerla a rivolgersi alle cure di uno psicologo, la madre aveva interrotto bruscamente la relazione con il Tu., senza dare spiegazioni.
Be.Si., all'epoca dei fatti fidanzato di Sa.Cl., ha riferito che nel periodo in contestazione egli si trovava a Milano per sottoporsi ad un ciclo di cure fisioterapiche conseguenti ad un grave incidente subito.
Ha riferito che a seguito della vicenda in questione la fidanzata aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti, dimostrandosi fredda e preoccupata oltreché non più disponibile al dialogo.
Mentre, con riguardo alla condizione della Ci., il teste ha riferito di non aver mai affrontato con la donna il discorso inerente alla relazione con il Tu.
Così compendiate le dichiarazioni rese dai principali testi della Pubblica Accusa, ritiene il Tribunale che non possa ritenersi provata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell'imputato per i reati allo stesso ascritti nel capo di imputazione.
Come noto, la norma punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta tal uno modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Si tratta di quella che gli psichiatri chiamano "sindrome delle molestie assillanti" e che per gli anglosassoni, che hanno mutuato il termine dal mondo della caccia, é, più semplicemente, "stalking" (da "to stalk", che significa "fare la posta" alla preda) ed è un qualcosa di molto più grave della molestia o del disturbo alle persone, sanzionati dal nostro codice penale con arresto fino a sei mesi. Lo stalking è una persecuzione asfissiante che finisce per sconvolgere l'esistenza della vittima costringendola a rimanere per lunghi periodi, spesso per anni, in uno stato di perenne allerta. La donna di manifestazione sono le più disparate: appostamenti davanti a casa o al posto di lavoro, ossessivo invio di lettere, ripetute telefonate, sms, e-mail che intasano la casella di posta elettronica, continue provocazioni in ufficio, atti vandalici contro l'auto o il cane della vittima.
Perché vi siano degli atti persecutori occorre in primo luogo, secondo il dato letterale della norma, che vi siano delle condotte di minaccia o molestia.
Tali condotte devono essere "reiterate" e non va trascurato, peraltro, il dictum della Suprema Corte secondo cui "il termine reiterare denota una ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza" per cui "se ne deve evincere che anche due condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto" (così Cass. Sez. 5, 21.1-17.2.2010, sent. n. 6417, Ced. Cass. 245881).
La norma sul reato di "atti persecutori" è stata inserita nel nostro ordinamento a tutela della libertà morale della persona e ha ad oggetto condotte reiterate di minaccia e molestia che determinano nella vittima, alternativamente: a) un perdurante e grave stato di ansia o paura; b) un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persona comunque affettivamente legata, c) la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita (cfr. Cass. Sez. 5, ord. N. 11945 del 12.1-26.3.2010, Ced. Cass. 246545). Pacificamente, inoltre, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, è sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti dall'art. 612 bis cod. peno (Sez. 5, sentenza n. 43085 deI24/09/2015, P.M. in proc. A, Rv. 265231).
In altri termini, dal comportamento reiteratamente minaccioso o comunque molesto dell'agente deve derivare, quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d'ansia o di paura della persona offesa, oppure un fondato timore della stessa per l'incolumità propria o di soggetti vicini, oppure ancora il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita.
La Cassazione ha sgombrato il campo da ogni possibile dubbio sul fatto che il delitto di atti persecutori è "reato ad evento di danno e si distingue sotto tale profilo dal reato di minacce, che è reato di pericolo" (Cass. Sez. 5 sent. 17698 del 5.2-7.5.2010, Ced. Cass. 247225).
Trattandosi, specificatamente, di reato di "condotta a forma libera", si è precisato che anche "comportamenti altrimenti neutri", qualora siano realizzati in particolari contesti e con singolari modalità di attuazione e reiterazione, possono assumere un tale carattere.
L'orientamento più recente della Suprema Corte, inoltre, ha confermato i precedenti approdi giurisprudenziali in materia: in particolare, i giudici di legittimità ritengono configurabile il reato quando il comportamento minaccioso o molesto, posto in essere con condotte reiterate, abbia cagionato un grave e perdurante stato di turbamento emotivo, "essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità, dell'equilibrio psicologico della vittima"; evento che, nella fattispecie, si è ritenuto sussistente riguardo a ripetuti atti di violenza rivolti contro l'incolumità fisica delle vittime.
Quanto alla prova dell'evento del delitto, la causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 6, sentenza n. 50746 del 14/1 0/2014, P.C. e G., Rv. 26153; Sez. 5, sentenza n. 16864 del 10/01/2011, c., Rv. 250158).
La Suprema Corte, inoltre, ha precisato che "non deve confondersi un fatto con la sua prova" (fumus, in sede cautelare). La prova di un evento psichico, qual è il turbamento dell'equilibrio mentale di una persona, non può che essere ancorata alla ricerca di fatti sintomatici del turbamento stesso atteso che non può diversamente scandagliarsi "il foro interno" della persona offesa.
Assumono allora importanza tanto le dichiarazioni della predetta persona offesa quanto le sue condotte, conseguenti e successive all'operato dell'agente, quanto - infine - la condotta stessa di quest'ultimo, che ovviamente va valutata tanto in astratto (dunque sotto il profilo della sua idoneità a causare l'evento), quanto in concreto, vale a dire con riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui essa si è manifestata" (Cass., 14 aprile 2012, n. 14391).
Orbene, pare evidente che nel caso in esame gli elementi costitutivi della norma incriminatrice non si possono ritenere integrati in quanto non è emersa la prova certa che tutti gli atti descritti in querela compiuti ai danni della Ci. si siano in effetti verificati.
Ed invero, è emerso che anche dopo la fine della relazione la Ci. (titubante quanto al fatto di voler ritornare con l'imputato - cfr., dichiarazioni della teste Tr.Lo.) continuò a vedere l'imputato e ad andarci a cena insieme, anche se in compagnia di altre persone.
Alla luce delle considerazioni che precedono, non può quindi revocarsi in dubbio che, anche dopo la fine della relazione, la p.o. abbia continuato ad avere contatti con l'imputato. E considerando le modalità con le quali la Ci. decise di troncare la relazione con l'imputato - bruscamente, senza dare alcuna spiegazione, così come riferito dalla teste Sa. - non può escludersi che i tentativi - per vero assai esigui - dell'imputato di avvicinare la p.o. fossero destinati a comprendere le ragioni di quella decisione o, quantomeno, per cercare di spiegare il motivo della installazione del dispositivo GPS nell'auto.
Ed invero, proprio in relazione al suesposto episodio, l'imputato, nel corso del suo esame, ha chiarito che lo stesso seguitò ad installare il GPS su indicazione della propria compagnia assicurativa, dopo l'acquisto dell'auto, verosimilmente per la copertura dal rischio furti.
Ora, in tale stato di cose, non v'è chi non veda che se la Ci. avesse realmente temuto per la propria incolumità, giammai avrebbe acconsentito di rivedere l'imputato e, tantomeno, di recarsi in crociera con lui.
D'altronde, alla luce dell'istruttoria svolta, neppure può sostenersi con assoluta certezza che i comportamenti del Tu. abbiano provocato nella Ci. e nella figlia quel grave stato di ansia e paura richiesto dalla fattispecie contestata.
Il teste Be. ha infatti riferito di non aver mai affrontato l'argomento con la Ci., mentre con riguardo alla condizione psicologica della fidanzata, non si comprende se i comportamenti freddi e introversi della Sa. fossero invero riconducibili al ritrovamento del GPS nell'auto della madre, o più che altro a problemi relazionali inerenti alla relazione con il Be. medesimo che, peraltro, nel corso dell'esame, ha dichiarato di essere in una situazione di standby con riguardo al rapporto sentimentale avuto con la Sa.
Orbene, alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra che la Ci. vivesse un perdurante e grave stato d'ansia o paura dell'imputato.
In conclusione, non può che sussistere il ragionevole dubbio della sussistenza di condotte persecutorie perpetrate dall'imputato, parimenti avvertite come tali da parte delle presunte persone offese, laddove invece sembrano trasparire situazioni di conflittualità dovute alla brusca interruzione del rapporto di fidanzamento.
Pur nella notevole ampiezza delle condotte di minaccia e di molestia astrattamente idonee a integrare la condotta penalmente rilevante ai sensi dell'art. 612-bis c.p. e tenendo sempre presente la necessità che tali condotte debbano essere reiterate (secondo la giurisprudenza di legittimità, peraltro, come già evidenziato anche due sole condotte di minaccia o molestia integrano il delitto di atti persecutori; cfr. in tal senso: C. Casso sez. V, pen., 17 febbraio 2010 n. 6417 e 2 marzo 2010 n. 25527) per assurgere al canone di "persecutorietà" richiesto dalla fattispecie incriminatrice in argomento, non può che escludersi che le condotte perpetrate da Turrisi nei riguardi della Ci. siano idonee ad integrare il contestato delitto di atti persecutori di cui alla norma innanzi citata.
Le considerazioni che precedono, inducono a ritenere insussistente anche il contestato reato di cui all'art. 617 bis C.p., dimostrandosi verosimile l'ipotesi che l'installazione del dispositivo GPS sull'auto in uso alla Ci., fosse riconducibile al contratto di copertura assicurativa stipulato dal Tu. dopo l'acquisto del veicolo.
P.Q.M.
letto l'art. 530 cpv c.p.p.,
assolve Tu.Do. dai reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste.
Motivi contestuali.
Così deciso in Lecce l'8 luglio 2024.
Depositata in Cancelleria l'8 luglio 2024.
(1) (cfr. Casso sez. 1, sent. n. 29372 del 24/06/2010 secondo cui "la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi").