Corte appello Trento, 06/05/2024, n.58
Il reato di tentata truffa e sostituzione di persona si configura quando il soggetto agente, mediante artifizi e raggiri, utilizza identità altrui e strumenti di pagamento intestati a sé per indurre in errore la vittima e tentare di ottenere un ingiusto profitto. La mancata corrispondenza tra il nome del beneficiario e l'intestatario della carta può impedire il completamento della truffa, ma non esclude la responsabilità penale dell'agente. In tali casi, la credibilità delle dichiarazioni della parte offesa, corroborate da elementi probatori oggettivi, costituisce prova sufficiente della responsabilità.
Svolgimento del processo
Con sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario in data 7 aprile 2022 dal Tribunale di Rovereto, in composizione monocratica, Za.Ma., nato (…), veniva condannato alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 200,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, in quanto ritenuto penalmente responsabile dei reati, unificati sotto il vincolo della continuazione, di cui agli artt. 494 e 61 n. 2) c.p., a lui ascritto al capo 1), perché, al fine di procurare a sé un vantaggio consistito nell'assicurarsi, nell'ambito della trattativa di compravendita in corso, la fiducia della p.o., induceva in errore quest'ultima attribuendosi il falso nome di Ga.Ma., inviandole copia di un documento di identità appartenente al vero Ga., a sua volta vittima di raggiro che lo aveva portato a spedire a ignoto tale copia al fine di acquistare beni su internet. Con l'aggravante di aver commesso il reato per eseguire quello di cui al capo 2). In Nomi (TN), in data (…), e di cui agli artt. 56 e 640 c.p., a lui ascritto al capo 2), perché compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a truffare la p.o, Zo.Se., mediante artifìci e raggiri consistiti nell'accreditarsi e pubblicare sul sito internet "(…)" un annuncio nel quale proponeva in vendita un drone "(…)" ad un prezzo conveniente di Euro 670,00, nel condurre la trattativa finalizzata a detta compravendita tramite contatti telefonici, e più precisamente messaggi dell'applicativo "WhatsApp" nei quali rassicurava la p.o. sulla sua serietà e sulla sicurezza del pagamento tramite bonifico, inducendo in errore Zo.Se., facendosi cosi versar la somma di Euro 680,00 (prezzo del bene più costi di spedizione) tramite bonifico su carta ricaricabile a lui intestata. Reato non giunto a consumazione per cause indipendenti dalla sua volontà, non essendo andato a buon fine il pagamento esclusivamente per la riscontrata mancanza di corrispondenza tra il nominativo del beneficiario fornito alla banca della p.o. (Ga.Ma. - vedasi reato sub "1"), e quello dell'effettivo titolare della carta (l'odierno imputato). In Nomi (TN), in data 30 agosto 2018. Con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale.
Il giudice di primo grado fondava il proprio convincimento sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla parte offesa, di quanto rappresentato nella c.n.r. (acquisita al fascicolo per il dibattimento su consenso delle parti), delle fotografie dell'annuncio di vendita del drone "(…)", degli accertamenti anagrafici sulla carta ricaricabile utilizzata per il versamento, dell'elenco dei movimenti della carta stessa, nonché della querela sporta da Ga.Ma..
Zo.Se. aveva dichiarato come, nel corso delle trattative finalizzate all'acquisto del drone, posto in vendita sul sito "(…)" e coltivate tramite Whatsapp, l'interlocutore gli avesse fornito i dati di un conto bancario e la copia di un documento di identità intestato a Ga.Ma. e si fosse presentato sotto tale nome.
In data 30 agosto 2018 Zo. era andato in banca ed aveva effettuato il bonifico; quindi, il giorno successivo, aveva contattato il venditore (che riteneva fosse Ga.Ma.), per chiedergli di spedire il pacco, ma aveva colto in lui un accento diverso (Ga. risultava persona di Pinerolo, mentre l'accento dell'interlocutore era meridionale); aveva contattato tale Ga.Ma., dopo aver rinvenuto su internet il numero telefonico e la figlia dell'uomo gli aveva riferito come anche loro avessero subito una truffa e, in quella circostanza, il loro interlocutore aveva inviato loro una copia del documento intestato a Za.Ma..
Zo. aveva quindi cercato di bloccare il bonifico, ma era troppo tardi, in quanto erano già passate 24 ore.
Il lunedì, però, lo aveva contattato la banca, dicendogli che il pagamento non era andato a buon fine a causa della rilevata mancata corrispondenza tra il nominativo dell'intestatario del conto e Ga.Ma.. Il venditore, che inizialmente lo aveva rassicurato della spedizione, non si era reso più rintracciabile.
Tali dichiarazioni avrebbero trovato riscontro negli altri elementi probatori in premessa indicati.
Sarebbe emerso come Ga.Ma. avesse precedentemente subito un raggiro per l'acquisto di un tagliaerba da un soggetto che aveva utilizzato la stessa utenza (intestata a tale Tr.An. di Crotone) e la medesima carta ricaricabile impiegate dal soggetto che aveva coltivato le trattative con lo Zo.; al Ga., però, l'interlocutore aveva inviato copia del documento di identità riconducibile a Za.Ma. Tale documento era stato utilizzato, in data 14 agosto 2018, per l'attivazione della carta ricaricabile, presso una rivendita sita in Crotone. Tale carta era stata utilizzata per vari movimenti dal 24 agosto 2018 al 31 agosto 2018, data del blocco.
Il giudice di primo grado ha considerato come, nel caso di specie, non si potesse ipotizzare la sussistenza di un mero illecito civilistico, ma si dovesse ritenere la sussistenza del reato di tentata truffa.
Za.Ma. sarebbe stato, infatti, il soggetto che il 14 agosto 2018, si era recato presso un punto vendita di Crotone ed aveva attivato la carta "(…)" con Iban (…) utilizzando il proprio documento di identità, corrispondente a quello rilasciatogli dal Comune di Isola Capo Rizzuto.
Tale carta era stata indicata a Ga.Ma., tra il 21 ed il 23 agosto 2018, in occasione di una vendita on line di un tagliaerba mai consegnato; nella circostanza il venditore, qualificatosi per Za.Ma., aveva effettivamente inviato la copia del proprio documento di identità (lo stesso utilizzato al momento della attivazione della carta).
L'imputato, quindi, sarebbe stato il soggetto che aveva coltivato le trattative sia con il Ga. (per la vendita di un tagliaerba), che con lo Zo. (per la vendita del drone).
Mentre la prima operazione era andata a buon fine, la seconda era fallita in quanto Ze. aveva utilizzato l'identità della vittima della prima operazione, non corrispondente alla identità del titolare della carta, con la conseguenza che il bonifico era stato bloccato.
Il fatto che il numero di telefono utilizzato per le trattative inerenti alla vendita del drone fosse intestato ad altri (Tr.An.) avrebbe rappresentato, per il primo giudice, circostanza plausibile in quanto espressiva dell'intenzione dello Ze. di ricorrere ad un'utenza di comodo. Il Tribunale di Rovereto ha ritenuto come fossero integrati nel caso di specie gli estremi del reato di sostituzione di persona, in quanto l'imputato, otre ad utilizzare copia del documento di Ga.Ma., si era attribuito la sua identità (nel corso delle trattative aveva dichiarato a Zo.Se.: … sono Ga.Ma. …).
Avverso la suddetta sentenza, nell'interesse dell'imputato, veniva proposto appello, con il quale se ne chiedeva la riforma, con conseguente assoluzione dello stesso dai reati a lui ascritti perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso, quantomeno ai sensi dell'art. 530 comma 2 c.p.p. In subordine si chiedeva il riconoscimento della ipotesi di cui all'art. 131 bis c.p.
In via ulteriormente gradata, la rideterminazione e la riduzione della pena inflitta, previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4) c.p., da ritenersi prevalente sulle contestate aggravanti e la disapplicazione della contestata e ritenuta recidiva.
Veniva preliminarmente evidenziato come il giudice di primo grado avesse acquisito al fascicolo per il dibattimento, prima che le parti formulassero le loro richieste, la dichiarazione scritta ed inviata da Zo.Se. alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rovereto; foto ritraenti le chat scambiate tra Zo. stesso e l'inserzionista; il contratto prodotto dalla Società Caritas S.p.A. in merito alla scheda ricaricabile utilizzata nella vicenda; la denuncia-querela sporta da Ga.Ma. ed il dettaglio del numero di cellulare utilizzato nella trattativa.
Il giudice di primo grado avrebbe quindi acquisito agli atti anche il resto della c.n.r., invece di procedere all'esame del verbalizzante Lo., non comparso all'udienza fissata per il relativo espletamento.
Veniva inoltre eccepito come, nel caso di specie, non potesse rilevarsi la condizione di procedibilità, in quanto la parte offesa avrebbe sporto querela contro ignoti e non già nei confronti dell'imputato.
Dalle dichiarazioni rese da Zo.Se. (contattato telefonicamente il giorno dell'udienza fissata per il suo esame, in cui inizialmente non era comparso e alla quale sarebbe poi intervenuto, in quanto "impaurito"), si sarebbe rilevato come tra lo stesso e l'interlocutore non fosse intercorsa alcuna telefonata, ma solo una serie di messaggi tramite WhtasApp. Le foto dell'annuncio commerciale e gli screenshot delle chat non si sarebbero rivelate probanti, in quanti non riportanti il numero identificativi da quale utenza provenissero.
Non sarebbe poi certa la paternità della carta ricaricabile, in quanto lo Ze. non avrebbe sottoscritto alcun contratto di attivazione e la stessa non è stata rinvenuta nella sua disponibilità.
Irrilevante, in quanto - tra l'altro - acquisita irritualmente, si sarebbe dimostrata la denuncia-querela sporta da Ga.Ma., siccome relativa ad un procedimento definito con decreto di archiviazione. Non vi sarebbe prova a chi facesse capo l'inserzione comparsa sul sito (…) e chi fosse l'effettivo interlocutore di Zo..
Per quanto concerne, più specificatamente, il reato di sostituzione di persona, veniva osservato come la parte offesa avesse ricevuto, da parte del negoziatore, a mezzo WhatsApp, copia di una carta di identità appartenente ad altra persona; la scheda telefonica dalla quale sarebbe stato inviato tale documento apparteneva a Tr.An. e non già all'imputato. Non sarebbe stata svolta alcuna indagine, anche fonica, al fine di accertare la reale identità di colui il quale aveva parlato con Zo.. L'imputato, di umili origini, non in possesso di titoli di studio, nullatenente ed indigente, non avrebbe avuto inoltre alcuna dimestichezza con i dispositivi tecnologici.
Sarebbero risultati carenti, a parere della difesa, gli elementi costitutivi del reato di truffa in quanto, comunque, Zo.Se., avrebbe posto in essere un comportamento imprudente, privo di buon senso e di qualsivoglia scaltrezza (il prezzo di mercato del drone sarebbe stato notevolmente superiore rispetto a quello indicato nell'annuncio); non sarebbe stato posto in essere alcun artificio o raggiro.
Motivi della decisione
L'appello è infondato e, pertanto, deve essere rigettato con conseguente conferma della impugnata sentenza, per le ragioni che fra breve illustreranno. In riferimento alle questioni preliminari sollevate nell'atto di appello in relazione alla ordinanza istruttoria dell'11 novembre 2021 pronunciata dal giudice di primo grado, deve considerarsi come sia fondata l'eccezione concernente la acquisizione della querela sporta il 29 agosto 2018 da Ga.Ma. e della successiva integrazione del 31 agosto 2018. Ne consegue come tali atti vadano espunti dal fascicolo per il dibattimento. Gli ulteriori atti, attesa la relativa natura documentale, e considerata la loro irripetibilità, sono stati acquisiti ritualmente.
Ciononostante la questione relativa alla querela sporta il 29 agosto 2018 da Ga.Ma. ed alla successiva integrazione del 31 agosto 2018 non riveste concreto rilievo; infatti all'udienza del 7 aprile 2022 le parti hanno manifestato il consenso alla acquisizione della integrale c.n.r. al fascicolo per il dibattimento.
I documenti acquisiti alla prima udienza (tra i quali, appunto, la suddetta querela e la successiva integrazione) rappresentano, infatti, allegati alla c.n.r.; il contenuto delle suddette querele del 29 agosto 2018 e del 31 agosto 2018 è riprodotto a pag. 3 della stessa c.n.r. e, per tale motivo, utilizzabile ai fini decisori.
Quanto poi alla condizione di procedibilità, va osservato come la persona offesa abbia manifestato la propria volontà di presentare espressa istanza di punizione nei confronti dell'autore del reato, risultando irrilevante la circostanza secondo al quale non sia stato indicato il nominativo dello stesso. Nel merito va considerato come, in tema di valutazione della prova, nel vigente sistema le persone offese o danneggiate dal reato assumono, anche allorquando (non come nel caso di specie) invochino in sede penale l'accertamento del fatto costitutivo del loro diritto al risarcimento o alle restituzioni, la qualità di testimoni con modalità e contenuti che non si differenziano dal ruolo delle deposizioni rese da persone estranee agli interessi coinvolti nel processo penale.
Nel vigore del codice di rito, ispirato al sistema del libero convincimento del giudice, è affermato il principio che alla formazione di tale convincimento possono concorrere anche le testimonianze delle persone offese ancorché costituite parti civili, essendo sufficiente che il giudice ne dimostri la credibilità, ponendo in relazione tali testimonianze con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali.
Ma finanche in mancanza di altri elementi di riscontro può attribuirsi piena efficacia probatoria alla testimonianza della persona offesa dal reato, qualora ne sia accertata l'intrinseca coerenza logica; non è applicabile al caso di specie, infatti, il canone di valutazione stabilito dal comma 3 dell'art. 192 c.p.p. Le dichiarazioni della parte offesa dal reato sono, infatti - indipendentemente dalla eventuale concorrente qualifica di coindagato in procedimenti connessi o collegati del soggetto che le rende - assimilabili alla testimonianza, che il legislatore considera un mezzo di prova, attribuendole, ai fini della affermazione della responsabilità, una presunzione di attendibilità maggiore della semplice chiamata in correità o reità, la quale pur costituendo un "elemento" di prova, esige la concomitanza di altri elementi di eguale valenza, che la corroborino.
Nel caso di specie le dichiarazioni rese dalla parte offesa Zo.Se., ribadite davanti al Tribunale di Rovereto, presso il quale si sarebbe dovuto obbligatoriamente presentare (in tal senso non rileva che sia stato telefonicamente diffidato) appaiono dotate di una intrinseca attendibilità e si rivelano estremamente rigorose, siccome collegabili e collegate ad uno "snodo" dei fatti storici, cosi come narrati ed illustrati, plausibile e concretamente realizzabile.
Le dichiarazioni stesse, come si dirà, sono state confortate da ulteriori elementi di prova.
Basti pensare ai puntuali riferimenti alle date ed alle specifiche circostanze delle condotte riferite, al richiamo alle modalità con le quali le stesse si sono realizzate nonché, soprattutto, agli artifici e raggiri posti in essere dall'agente al fine di cercare di impossessarsi della somma di Euro 680,00, con il pretesto di vendere un oggetto di cui non aveva disponibilità o che comunque non aveva intenzione di cedere.
Nel corso delle trattative finalizzate all'acquisto del drone, posto in vendita sul sito "(…)" e coltivate tramite WhatsApp, l'interlocutore del Zo. aveva allo stesso fornito i dati di un conto bancario e la copia di un documento di identità intestato a Ga.Ma.; si era quindi presentato sotto tale nome. In data 30 agosto 2018 Zo. era andato in banca ed aveva effettuato il bonifico; quindi, il giorno successivo, aveva contattato il venditore {che riteneva fosse Ga.Ma.), per chiedergli di spedire il pacco, ma aveva colto in lui un accento diverso (Ga. risultava persona di Pinerolo, mentre l'accento dell'interlocutore era meridionale); aveva contattato tale Ga.Ma., dopo aver rinvenuto su internet il numero telefonico e la figlia dell'uomo gli aveva riferito come anche loro avessero subito una truffa
e, in quella circostanza, il loro interlocutore aveva inviato loro una copia del documento intestato a Za.Ma..
Il lunedì lo aveva contattato la banca, dicendogli che il pagamento non era andato a buon fine a causa della rilevata mancata corrispondenza tra il nominativo dell'intestatario del conto e Ga.Ma.. Il venditore, che in un primo momento lo aveva rassicurato della spedizione, non si era reso più rintracciabile.
Dalla c.n.r. e dai relativi allegati, ritualmente acquisiti al fascicolo per il dibattimento per le ragioni dette, si rileva come Ga.Ma. avesse precedentemente subito un raggiro per l'acquisto di un tagliaerba da un soggetto che aveva utilizzato la stessa utenza (intestata a tale Tr.An. di Crotone), e la medesima carta ricaricabile utilizzate dal soggetto che aveva coltivato le trattative con lo Zo.; al Ga. l'interlocutore aveva inviato copia del documento di identità riconducibile a Za.Ma..
Tale documento era stato utilizzato, in data 14 agosto 2018, per l'attivazione della carta ricaricabile, presso una rivendita sita in Crotone. La carta era stata utilizzata per vari movimenti dal 24 agosto 2018 al 31 agosto 2018, data del blocco.
L'utilizzo di una carta ricaricabile intestata all'imputato costituisce elemento probante; il soggetto intestatario non l'avrebbe potuta attivare se non fosse stata certa la sua identità, corrispondente, quindi, a quella dell'imputato. La scansione temporale degli accadimenti (attivazione della carta, relativo utilizzo e blocco) evidenziano come la stessa fosse utilizzata da colui il quale aveva posto in vendita l'oggetto per il cui acquisito si era interessato lo Zo. e come lo stesso si dovesse identificare proprio in Za.Ma..
L'invio del documento di identità da parte di Ga.Ma. (con il cui nome si era presentato allo Zo. l'autore della tentata truffa, cosi realizzando anche il reato di sostituzione di persona) a colui il quale si era presentata con il nome dell'imputato (circostanza che si evince dalla c.n.r. più volte richiamata) rappresenta ulteriore elemento di prova.
Ne consegue come non possano sorgere ragionevoli dubbi circa la penale responsabilità dell'imputato per i reati a lui ascritti.
I fatti contestati non rivestono i caratteri di un inadempimento civilistico.
Nel caso di specie non si ravvisa la mera omessa consegna di un bene offerto in vendita, ma si rileva un "quid pluris", rappresentato da un malizioso comportamento dell'agente, nonché da fatti e circostanze (dianzi richiamati) idonei a determinare nella vittima un ragionevole affidamento sull'apparente onestà delle intenzioni del soggetto attivo e sulla effettiva consegna del bene medesimo.
Va rigettata la richiesta di riconoscimento della ipotesi di cui all'art. 131 bis c.p. alla luce delle specifiche modalità e circostanze del fatto commesso, sintomatiche di una particolare e non comune capacità di organizzare un'operazione truffaldina, ricorrendo anche alla sostituzione di persona, nonché della presenza di precedenti penali specifici e reiterati dell'imputato, incline alla commissione di reati della stessa natura di quello per cui si procede.
La pena in concreto inflitta dal giudice di primo grado si rivela congrua ed adeguata ai parametri di cui all'art. 133 c.p., segnatamente alle specifiche modalità e circostanze dell'azione, posta in essere con rara disinvoltura; all'elevata intensità del dolo, che ha sorretto una condotta articolata ed abilmente realizzata; al carattere del reo ed ai suoi precedenti reiterati e specifici.
La pena è stata determinata, tra l'altro, in misura contenuta (partendo da una pena base di mesi quattro di reclusione ed Euro 100,00 di muta), con inevitabile aumento per la contestata recidiva qualificata.
Non può essere riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 4) c.p.
Nei reati contro il patrimonio, infatti, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base a un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato portato a compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima; cfr. Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 2910 del 7 dicembre 2023 Ud. (dep. 23 gennaio 2024) Rv. 285845 - 01.
Nel caso di specie, se il reato si fosse consumato, certamente il pregiudizio che si sarebbe realizzato non avrebbe rivestito i caratteri della speciale tenuità. Come detto, non può essere accolta la richiesta di disapplicazione della contestata recidiva reiterata e specifica nel quinquennio. Con la sentenza n. 35738 del 5 ottobre 2010 le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno ribadito che è compito del giudice, quando la contestazione riguardi la recidiva di cui ai primi quattro commi dell'art 99 c.p., quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente tra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza.
La recidiva opera in tal caso come aggravante, deve essere obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero ed è facoltativa nell'applicazione, dovendo essere espressione di maggiore colpevolezza e pericolosità. Se la recidiva facoltativa è esclusa dal giudice, sono esclusi pure l'aumento della pena base e tutti gli ulteriori effetti commisurativi connessi all'aggravante (artt. 99,69 comma 4, 81 comma 4 c.p. e 444 comma 1 bis c.p.p.).
Za.Ma. è gravato da reiterati precedenti penali specifici e recenti.
La Corte ritiene che tali condanne assumano concreta incidenza nella quantificazione della pena, trattandosi di trasgressioni relative a beni giuridici del tutto omogenei rispetto a quello in discussione nel presente procedimento ed afferendo ad una condotta recenti, punite con pene detentive. Le circostanze attenuanti generiche non possono essere riconosciute. E' noto che la Suprema Corte, anche nella sentenza n. 44071/2014 della terza sezione penale, ha ripetutamente evidenziato che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell'art. 62 bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente nemmeno lo stato di incensuratezza dell'imputato.
Come costantemente sottolineato dalla Suprema Corte (v. da ultimo Cass. pen. sez. II n. 9299/2019), le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere del reo, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo.
Le stesse, quindi, presuppongono l'esistenza di elementi positivi, intendendo per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall'applicazione dell'art. 133 c.p.
Come è stato precisato, la ragion d'essere della previsione normativa recata dall'art. 62 bis c.p. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile.
Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30 maggio 2017 e SS.UU. n. 20808/2019); al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio.
Nel caso di specie non si ravvisa alcun elemento di segno positivo tale da poter essere valutato in favore dell'imputato; egli, tra l'altro, già gravato da precedenti reiterati, recenti e specifici, non ha manifestato alcun segno di ravvedimento o di sincera resipiscenza.
Il rigetto del proposto appello e la conferma dell'impugnata sentenza comportano la condanna dell'appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali ai sensi dell'art. 592 c.p.p.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Trento, visto l'art. 605 c.p.p., conferma l'impugnata sentenza e condanna Za.Ma. al pagamento delle ulteriori spese processuali.
Fissa il termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.
Così deciso in Trento il 13 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2024.