La massima
Il criterio distintivo tra il delitto di estorsione mediante minaccia e quello di truffa cd. vessatoria consiste nel diverso atteggiarsi del pericolo prospettato, sicché si ha truffa aggravata ai sensi dell' art. 640, comma 2, n. 2, c.p. quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall'agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all'azione od omissione versando in stato di errore, mentre ricorre il delitto di estorsione quando viene prospettata l'esistenza di un pericolo reale di un accadimento il cui verificarsi è attribuibile, direttamente o indirettamente, all'agente ed è tale da non indurre la persona offesa in errore, ma, piuttosto, nell'alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto dall'agente o di incorrere nel danno minacciato (Cassazione penale , sez. II , 17/07/2020 , n. 24624).
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La sentenza integrale
Cassazione penale , sez. II , 17/07/2020 , n. 24624
RITENUTO IN FATTO
La CORTE di APPELLO di ROMA, con sentenza del 21/3/2018, ha confermato la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di TIVOLI in data 26/10/2011, nei confronti di B.G. in relazione al reato di cui all'art. 629 c.p..
1. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato che, a mezzo del difensore, ha dedotto i seguenti motivi.
1.1. "Nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, ex art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost. e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c): inosservanza degli artt. 121,125,175,177 e 178 c.p.p. in relazione all'omessa pronuncia da parte della Corte d'appello su istanza di restituzione nei termini al fine di presentare motivi nuovi all'atto di appello, avanzata dalla difesa dell'imputato in data 13 giugno 2017". Nel primo motivo la difesa deduce la nullità della sentenza in quanto la Corte territoriale non avrebbe provveduto in relazione a una richiesta di restituzione nel termine avanzata dalla difesa per presentare i motivi nuovi. Tale omessa pronuncia, qualificata dalla difesa nei termini del "vizio di inattività", avrebbe determinato una violazione del diritto di difesa cui seguirebbe la nullità della sentenza poi pronunciata dalla Corte d'Appello.
1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione "per inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 629 c.p. e art. 640 c.p., comma 2, n. 2, nonchè mancanza e manifesta in logicità della motivazione, perchè il fatto contestato all'imputato deve essere correttamente qualificato nel reato di truffa aggravata, di cui all'art. 640 c.p., comma 2, n. 2 (punti tre, 4,5, 5.1 e 6 della sentenza impugnata)".
Nel secondo motivo la difesa, facendo riferimento all'interpretazione della giurisprudenza di legittimità sul punto, rileva la violazione di legge e il vizio di motivazione quanto alla qualificazione giuridica del reato ritenuto in sentenza. La condotta degli imputati, infatti, non sarebbe qualificabile in termini estorsivi in quanto le minacce sarebbero state del tutto immaginarie, tanto che le stesse avrebbero avuto effetto solo per la suggestione provocata nella persona offesa. Fondando la decisione su tale elemento, interiore e soggettivo, quindi, la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la più recente giurisprudenza, al fine di individuare l'elemento distintivo tra i due reati, impone di fare riferimento a dati oggettivi, ciò al mezzo utilizzato dal soggetto agente, piuttosto che a valutazioni relative all'atteggiamento psicologico della persona offesa.
1.3. "Nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e): mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alle argomentazioni svolte con il primo motivo di appello (punti 3, 4, 5, 5.1 e 6 della sentenza impugnata)".
Nel terzo motivo la difesa censura il ragionamento seguito dalla Corte territoriale evidenziando che la motivazione sarebbe apodittica e che dal testo della sentenza emergerebbero "gravi discrasie tra le dichiarazioni rese dalla persona offesa all'udienza del 18 luglio 2011 e le conclusioni" a cui è pervenuta la Corte in relazione alla responsabilità penale dell'imputato. In specifico la stessa persona offesa avrebbe riferito di non essere mai stata minacciata e che il proprio timore era fondato su "mere suggestioni, non avendo alcuna contezza di incorrere in un pericolo reale".
1.4. Violazione di legge e vizio di motivazione per "inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 3,27 e 111 Cost. e artt. 132133 c.p., nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione circa il trattamento sanzionatorio applicato all'imputato (punto 7 della sentenza impugnata)". Nel terzo motivo la difesa rileva che la Corte territoriale avrebbe violato i principi costituzionali in tema di funzione rieducativa della pena. La decisione, d'altro canto, considerato che la pena è stata quantificata in modo diverso ai due imputati, sarebbe irragionevole in quanto gli stessi giudici di merito, in specifico la Corte territoriale, hanno ritenuto sovrapponibili le posizioni dei due imputati.
1.5. Violazione di legge e vizio di motivazione per "inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 62 c.p., n. 4 e mancanza e manifesta illogicità della motivazione (punto 7 della sentenza impugnata)".
Nel quinto ed ultimo motivo la difesa rileva che la motivazione della Corte territoriale sarebbe manifestamente illogica in quanto non terrebbe conto che dall'istruttoria dibattimentale (testimonianza resa dalla persona offesa il 18 luglio 2011) sarebbe emerso che il timore cagionato alla persona offesa è "stato lieve e si è risolto in una lesione di una modestissima entità, oltre che limitata nel tempo".
2. In data 5 giugno 2020 è pervenuta in cancelleria la comunicazione con la quale la difesa ha richiesto che si proceda con la discussione orale del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1. Nel primo motivo la difesa rileva la nullità della sentenza in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi in ordine alla richiesta di restituzione nel termine per la presentazione dei motivi nuovi formulata allorchè il difensore aveva preso atto della "irrereperibilità" del fascicolo, documentata dalla cancelleria.
La doglianza è manifestamente infondata.
1.1. Come correttamente evidenziato nello stesso atto di impugnazione il difensore, nominato in data prossima alla celebrazione dell'udienza con revoca del precedente difensore che aveva redatto l'atto di appello, preso atto dell'irreperibilità del fascicolo, prima del 28 giugno 2017, data indicata nel decreto di citazione per il giudizio di appello, ha presentato due distinte richieste.
a. Con la prima, quella del 1 giugno 2017, ha chiesto il differimento dell'udienza e che la cancelleria venisse autorizzata a rilasciare attestazione circa l'irreperibilità del fascicolo.
b. Con la seconda, quella del 13 giugno 2017 (ottenuta in data 7 giungo l'attestazione che a quella data non era ancora possibile prendere visione ed estrarre copia del fascicolo) ha chiesto alla Corte territoriale di rinviare l'udienza e, una volta reperito o ricostituito il fascicolo, di restituire la difesa nei termini per presentare dei motivi nuovi.
A fronte delle istanze presentate la Corte ha rinviato la celebrazione del processo "per irreperibilità del fascicolo" all'udienza del giorno 13 dicembre 2017 (cfr. verbale udienza del giorno 28/6/2017).
Il 13 dicembre 2017, poi, preso atto della richiesta delle parti di un termine per prendere visione del fascicolo "recentemente reperito", la Corte territoriale ha sospeso i termini di prescrizione e rinviato all'udienza del giorno 21 marzo 2018 (cfr. verbale udienza del giorno 13/12/2017).
Solo in data 21 marzo 2018 si è proceduto alla discussione e la sentenza è stata pronunciata.
Nelle udienze tenute il 13 dicembre 2017 e il 21 marzo 2018 non è stata presentata alcuna istanza di restituzione del termine per la presentazione dei motivi nuovi, nè questi risultano essere stati depositati.
1.2. La successione cronologica di quanto accaduto impone di escludere che si sia verificata qualsivoglia lesione al diritto di difesa dell'imputato nè, d'altro canto, può ora essere oggetto di impugnazione l'omessa pronuncia in merito all'istanza di remissione in termini per la presentazione di eventuali motivi nuovi, violazione qualificata dalla difesa come "vizio di inattività".
1.2.1. Sotto un primo profilo deve rilevarsi che le istanze di rinvio che la difesa ha presentato al fine di avere piena conoscenza degli atti sono state tutte accolte.
La Corte territoriale, infatti, preso atto dell'irreperibilità del fascicolo, prima, e del "recente reperimento" dello stesso, poi, aderendo a quanto espressamente richiesto, ha rinviato la discussione per un tempo sicuramente congruo al corretto ed effettivo esercizio del diritto di difesa.
In tale contesto le scelte della difesa, anche quella di presentare o meno dei motivi nuovi, ovvero delle memorie, non sono state in alcun modo limitate, tanto che la difesa il 13 dicembre 2017 ha chiesto esclusivamente il rinvio della discussione, che ha ottenuto, e in sede di conclusioni, il 21 marzo 2018, si è riportata ai motivi di appello, senza nulla rilevare in ordine a diverse ed ulteriori richieste.
1.2.2. Sotto altro profilo, d'altro canto, deve rilevarsi che nessuna richiesta di restituzione in termine risulta essere stata ritualmente presentata.
L'istanza depositata il 13 giugno 2017, infatti, - testualmente: "di voler rinviare ad altra data l'udienza fissata per il giorno 28 giugno 2017, e, una volta reperito e/o ricostituito il fascicolo processuale di cui al presente procedimento, restituire il sottoscritto difensore nei termini di legge per poter presentare... motivi nuovi all'atto di appello"- risulta formulata nel senso che la difesa, insistendo per il rinvio dell'udienza, si riservava di presentare una successiva richiesta di restituzione in termini.
Istanza che la difesa, "una volta reperito e/o ricostituito il fascicolo processuale di cui al presente procedimento", cioè in data 13 dicembre 2017 o successivamente, non ha presentato, nè formalmente (nulla è indicato nei verbali delle udienze), nè implicitamente (depositando dei motivi nuovi) (in relazione ad una situazione processuale non sovrapponibile ma nel senso che la mancata riproposizione di una richiesta sia assimilabile alla rinuncia della richiesta stessa cfr. Sez. 2, n. 2193 del 05/11/2013, dep. 2014, Caruso e altri, Rv. 259970).
Ragione questa per la quale, esclusa comunque ogni violazione sia in attratto che in concreto al diritto di difesa, la doglianza è manifestamente infondata.
2. Nel secondo motivo la difesa deduce la violazione di legge evidenziando che la qualificazione giuridica attribuita ai fatti sarebbe errata.
La Corte territoriale, infatti, valorizzando un elemento soggettivo, il timore effetto di suggestione della persona offesa, avrebbe erroneamente ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione piuttosto che di quello di truffa aggravata, commessa cioè prospettando un pericolo immaginario.
La doglianza, pure dedotta in termini in qualche modo suggestivi, è del tutto destituita di fondamento.
2.1. La truffa, anche quella che si realizza con la prospettazione di un male immaginario, presuppone l'instaurazione di un rapporto di natura patrimoniale tra la persona offesa e il soggetto agente.
Un rapporto in virtù del quale -benchè la volontà negoziale della persona offesa sia carpita mediante l'induzione in errore- l'arricchimento patrimoniale (con conseguente danno) ha una sua apparente giustificazione di natura "contrattuale".
Diversamente nel reato di estorsione, al di là dell'esistenza e dell'effetto suggestivo o meno del male prospettato, ciò che rileva sono la costrizione e l'illiceità della pretesa.
In tale contesto, quindi, il criterio differenziale tra i due reati è costituito dal diverso atteggiarsi del pericolo prospettato.
Nella truffa c.d. vessatoria il soggetto agente, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, rappresenta falsamente alla vittima un pericolo immaginario proveniente da terzi, in sè non ingiusto ma anzi astrattamente legittimo, e si offre di adoperarsi per evitargli tale conseguenza in cambio di denaro (così cfr. Sez. 2, n. 28390 del 20/03/2013, Guerrieri, Rv. 256459; Sez. 2, n. 27363 del 04/04/2012, Dardano, Rv. 253313).
Situazione questa nella quale, quindi, il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall'agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all'azione od omissione versando in stato di errore (Sez. 2, n. 51732 del 19/11/2013, Carta e altri, Rv. 258110).
Nel delitto di estorsione, invece, l'agente rappresenta l'esistenza di un pericolo reale di un accadimento il cui verificarsi appare direttamente o indirettamente allo stesso attribuibile, tanto che l'offeso non è indotto in alcun errore quanto, piuttosto, è posto nell'alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto o di incorrere nel danno minacciato (Sez. 2, n. 51732 del 19/11/2013, Carta e altri, Rv. 258110; Sez. 2, n. 26272 del 21/05/2001, Pirovano, Rv. 219943; Sez. 2, n. 4180 del 03/03/2000, Amoresano, Rv. 215705).
Ebbene.
Nel caso di specie, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, la valutazione in ordine all'individuazione della qualificazione giuridica del fatto deve prendere le mosse dal fatto che la persona offesa ha rifiutato la proposta del B. e del C. di provvedere, in suo nome e conto, al recupero del credito da questo vantato nei confronti di un terzo.
A fronte di tale rifiuto, infatti, tra le parti non si è instaurato alcun rapporto che giustificasse la successiva corresponsione di somme di denaro che, i due soggetti, hanno conseguito ponendo in essere la condotta materiale tipica del reato di estorsione, cioè minacciando la persona offesa che in caso di mancato pagamento gli "avrebbero mandato delle persone sotto casa".
Minaccia questa, direttamente riferibile alla volontà degli indagati e tutt'altro che immaginaria, per valutare l'efficacia della quale non è necessario avere alcuna prova dell'esistenza effettiva delle altre "persone" o dei "ragazzi", cui pure gli imputati hanno fatto riferimento.
I giudici di merito, quindi, la cui valutazione non ha rinviato a situazioni interiori ovvero a stati soggettivi ma, piuttosto, ha fatto riferimento alla differenza strutturale dei due reati e alla condotta materiale posta in essere, hanno correttamente individuato la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti contestati.
3. Nel terzo motivo, con argomentazioni in parte coincidenti a quelle già prospettate nel secondo motivo, la difesa deduce il vizio di motivazione in relazione alla dichiarazione di responsabilità.
La doglianza è manifestamente infondata.
Come pure evidenziato nel punto 2., infatti, la Corte territoriale, la cui motivazione si salda ed integra con quella del giudice di primo grado, ha fornito congrua risposta alle critiche contenute nell'atto di appello ed ha esposto gli argomenti per cui queste non erano in alcun modo coerenti con quanto emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale.
Alla Corte di cassazione, d'altro canto, è precluso, e quindi i motivi in tal senso formulati non sono consentiti, sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito.
Il controllo che la Corte è chiamata ad operare, e le parti a richiedere ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), infatti, è esclusivamente quello di verificare e stabilire se i giudici di merito abbiano o meno esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così Sez. un., n. 930 del 13/12/1995, Rv 203428; per una compiuta e completa enucleazione della deducibilità del vizio di motivazione, da ultimo Sez. 2, n. 14911 del 12/3/2019, Furlan, Rv. 276062; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv 269217; Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, Rv 235507).
Sotto tale aspetto, a fronte di una motivazione coerente e logica quanto alla sostanziale credibilità della persona offesa (la cui attendibilità è stata anche riscontrata da quanto accertato dalla polizia giudiziaria all'atto dell'arresto) ogni ulteriore critica, che trova peraltro fondamento in una diversa e alternativa lettura dell'istruttoria dibattimentale, risulta del tutto inconferente ("esula dai poteri della Cassazione, nell'ambito del controllo della motivazione del provvedimento impugnato, la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, giacchè tale attività è riservata esclusivamente al giudice di merito, potendo riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell'"iter" argomentativo di tale giudice, accertando se quest'ultimo abbia o meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno condotto ad emettere la decisione", in questo senso da ultimo Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv 269217).
4. Nel quarto motivo la difesa rileva la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla quantificazione della pena che, benchè le posizioni dei due imputati sarebbero sovrapponibili, sarebbe stata quantificata per il ricorrente in modo diverso rispetto a quella applicata al C..
La doglianza è manifestamente infondata.
Le sentenze di merito, con riferimento alla misura della pena inflitta all'imputato, fanno buon governo della legge penale e danno conto delle ragioni che hanno guidato, nel rispetto del principio di proporzionalità, l'esercizio del potere discrezionale ex art. 132 c.p..
Quanto alla lieve differenza nella quantificazione della pena tra i due imputati, d'altro canto, il giudizio del giudice di primo grado (fondato sull'esistenza di precedenti penali a carico del B.) non è censurabile in questa sede.
Le censure ora mosse a tale percorso argomentativo, assolutamente lineare, sono meramente assertive, inconsistenti e, in parte, orientate anche a sollecitare, una nuova valutazione della congruità della pena, non consentita nel giudizio di legittimità (Sez. Un. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Rv. 266818).
5. Nel quinto motivo la difesa deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4.
La doglianza è manifestamente infondata.
Secondo l'orientamento ormai consolidato di questa Corte (Sez. 2, n. 50987 del 17/12/2015, Salamone, RV. 265685 n. 19308 del 20/01/2010, Uccello, RV. 247363; n. 12456 del 04/03/2008, Umina RV.239749; n. 41578 del 22/11/2006, Massimi, RV. 235386; n. 21872 del 06/03/ 2001, Contene, RV. 218795), ai fini della configurabilità dell'attenuante del danno di speciale tenuità con riferimento al delitto di rapina/estorsione, occorre valutare la situazione complessiva nella quale assumono rilievo, oltre al danno economico, anche gli ulteriori effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, attesa la natura plurioffensiva del delitto de quo, il quale lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà e l'integrità fisica e morale della persona aggredita per la realizzazione del profitto.
La valutazione complessiva circa la consistenza effettiva del pregiudizio ed alla possibilità di riconoscere o meno l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, è riservata al giudice di merito il cui apprezzamento, se immune da vizi logico-giuridici, non à censurabile in sede di legittimità.
Sotto tale profilo la valutazione operata dalla Corte territoriale, peraltro a fronte di un danno patrimoniale di 1.000,00 Euro, che ha ritenuto che il "metus" conseguente al comportamento degli imputati non fosse lieve non è sindacabile.
Il giudice dell'appello, infatti -con il riferimento alla condotta protratta per alcuni giorni, posta in essere con diverse telefonate e comunque idonea a costringere la persona offesa a temere di incontrare gli imputati- nella motivazione ha dato complessivamente conto del criterio adottato e della valutazione effettuata.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che ritiene equa, di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 17 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2020