La massima
In tema di concussione, l'abuso costrittivo del pubblico agente non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite, potendo attuarsi anche mediante una minaccia implicita, allusiva, ovvero che abbia assunto forma esortativa o di metafora, purché sia comunque idonea ad incutere nella persona offesa, in relazione alla personalità dell'agente ed alle circostanze del caso concreto, il timore di un danno ingiusto, così coartandone la volontà. (In applicazione del principio, la Corte ha qualificato come concussione, e non come induzione indebita, la condotta di appartenenti alle forze dell'ordine, i quali, richiamando falsi esposti a carico di un collega, gli prospettavano per implicito che, ove non avesse collaborato alla realizzazione di un furto al caveau della Banca d'Italia, avrebbe subito pregiudizi lavorativi e giudiziari, conseguenze evitabili grazie all'insabbiamento da parte di essi agenti di tali esposti - Cassazione penale , sez. VI , 14/09/2020 , n. 33653).
Fonte: CED Cassazione Penale 2021
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La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicate in epigrafe, la Corte di appello di Ancona confermava la sentenza del 30 maggio 2016 del Tribunale di Ancona che aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia B.O., C.M. e L.F. per i reati agli stessi rispettivamente ascritti.
In particolare, gli imputati erano stati ritenuti responsabili per i reati di cui ai capi B), C), D) ed E) della rubrica ed L.F. anche per i reati di cui ai capi A), P) e Q) della rubrica.
Le imputazioni avevano ad oggetto:
- (capo A) il reato di cui agli artt. 110 e 319 c.p., per aver L.F., quale sovraintendente della Polizia di Stato, in servizio allo Sco della Questura di Ancona, in concorso con B.I., quale maresciallo dei carabinieri, comandante della Stazione di Collemarino, accettato la promessa da parte di B.O. di denaro ed altre utilità per il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio e per aver il L. ricevuto il (OMISSIS) dal predetto una somma di danaro quale parziale compenso per l'attività già compiuta e per quella ancora da compiere, consistente nell'ausilio da prestare per la commissione di un furto che B. con altri correi avrebbe commesso al caveau della filiale di Ancona della Banca d'Italia, nel reclutamento di altri carabinieri addetti alla vigilanza della filiale per ottenere informazioni sui sistemi di allarme e per l'aiuto in fase di sopralluogo e esecuzione, nell'impiego di auto di servizio dei carabinieri e di altro materiale di ufficio per la commissione del furto, nella acquisizione di notizie utili per l'organizzazione ed esecuzione del furto, nonchè, in generale, nella messa a disposizione in favore di B. per ogni altra richiesta utile alla organizzazione da lui diretta; atti che effettivamente i due pubblici agenti ponevano in essere in esecuzione dell'incarico ricevuto (dall'anno 2011 e ancora in corso);
- (capo B) il reato di cui agli artt. 110,321 e 319 c.p., per aver B.O., C.M. e L.F., in concorso tra loro, con la condotta sopra decritta, promesso denaro o altra utilità a pubblici ufficiali per compiere atti contrari ai doveri di ufficio e in generale per la loro messa a disposizione per tutte le richieste che B. avrebbe loro formulato ( B. dirigeva l'attività illecita, venendo aggiornato da C., che fungeva da tramite, o direttamente dal L. delle attività descritte al capo A; L. concorrendo nel reato con la corruzione di B., che reclutava e presentava a B.) (dall'anno 2011 e ancora in corso);
- (capo C) il reato di cui all'art. 110 e 322 c.p., art. 61 c.p., n. 9, per aver, in concorso tra loro, B.O., C.M., L.F. e B.I., questi ultimi abusando delle qualità e delle funzioni sopra indicate, offerto un compenso in danaro a G.G. perchè compisse atti contrari ai doveri di ufficio di maresciallo capo addetto al nucleo carabinieri di vigilanza della filiale di Ancona della Banca d'Italia, ed in particolare perchè fornisse informazioni utili per la organizzazione e la commissione del furto; offerta che G. rifiutava (dal (OMISSIS));
- (capo D) il reato di cui agli artt. 110, 321 e 319 (qualificato il fatto in primo grado ai sensi dell'art. 322 c.p.), art. 61 c.p., n. 9, per aver in concorso tra loro B.O., C.M., L.F. e B.I., questi ultimi due abusando delle qualità e delle funzioni sopra indicate, promesso denaro o altre utilità a P.G. perchè compisse atti contrari ai doveri di ufficio di addetto al nucleo di vigilanza della filiale di Ancona della Banca d'Italia ed in particolare perchè fornisse informazioni utili per la organizzazione e commissione del furto (nel corso del 2011 ed in epoca antecedente ad ottobre);
- (capo E) il reato di cui agli artt. 56,110 e 317 c.p., art. 61 c.p., n. 10, per aver in concorso tra loro, Olinto B., C.M., L.F. e B.I., questi ultimi due abusando delle qualità e dei poteri sopra indicati, dopo il rifiuto del G. di aderire alla proposta delittuosa di cui al capo C), compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringerlo a promettere loro un'utilità, consistita nel partecipare al furto alla filiale di Ancona della Banca d'Italia, fornendo informazioni e ausilio nella fase esecutiva (dal dicembre 2011 alla fine di luglio 2012);
- (capo P) il reato di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 2, per aver L.F. detenuto illegalmente armi e munizioni da guerra (2 ottobre 2012);
- (capo Q) il reato di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 7, per aver L.F. detenuto illegalmente svariate munizioni (2 ottobre 2012).
Per le imputazioni di cui ai capi A), C), D) ed E), B.I. era stato assolto in primo grado perchè non imputabile in quanto ritenuto incapace di intendere e di volere al momento dei fatti.
2. Ricorrono avverso la sentenza della Corte di appello del 20/09/2018, con separati atti, i difensori degli imputati B., C. e L., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Ricorso B..
2.1.1. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 321,319 e 115 c.p. e alle devoluzioni difensive in ordine alla corretta qualificazione del fatto contestato al capo B).
La sentenza impugnata si è limitata ad una generica e cumulativa critica dei gravami, nonchè ad un recettizio rinvio alla motivazione di quella di primo grado, senza esplicitare le ragioni della sua condivisione, soprattutto là dove si trattava di affrontare la questione della qualificazione giuridica delle condotte, ed eludendo le censure rilevanti avanzate dalla difesa del ricorrente con l'atto di impugnazione.
La difesa in particolare aveva prospettato una diversa ed alternativa interpretazione della prova quanto alla natura delle devoluzioni effettuate dal B.: le somme asseritamente consegnate erano prestiti laddove i due p.u. avessero accettato di partecipare-concorrere al furto nella prospettiva della spartizione della refurtiva (dalle captazioni emergeva il seguente sinallagma: contributo alla realizzazione del furto e suddivisione dei proventi del furto). L'accordo non aveva natura corruttiva, ma era finalizzato esclusivamente alla commissione del furto al quale tuttavia non seguiva alcuna condotta dei correi avente la minima rilevanza penale, neppure quale tentativo (art. 115 c.p.).
Le condotte partecipative richieste ai due pubblici ufficiali rientravano nell'ampio genus degli atti contrari ai doveri di ufficio, ma nel caso in esame esse costituivano soltanto la condotta di concorso nel reato di furto.
La sentenza impugnata non si è confrontata con tali questioni.
2.1.2. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 322 e 115 c.p. e alla ritenuta sussistenza della istigazione alla corruzione in luogo della istigazione a commettere un reato non accolta e rilevante ai sensi dell'art. 115 c.p..
Le considerazioni sviluppate nel primo motivo si riflettono anche per le ipotesi di istigazione che andavano connesse al reato di furto.
2.1.3. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 56,317 e 319-quater c.p. e alla qualificazione giuridica del fatto contestato al capo E) nel reato di tentata concussione.
La Corte di appello ha del tutto omesso di rispondere alle deduzioni difensive che avevano evidenziato come il G. fosse stato al più indotto, ma non costretto a porre in atto le condotte richiestegli, in quanto gli era stata prospettata una utilità a suo vantaggio (l'insabbiamento di un esposto dal contenuto veritiero come accertato in primo grado - ovvero relativo a condotte obiettivamente vere e pregiudizievoli per il pubblico ufficiale). Il fatto doveva quindi essere ricondotto alla fattispecie di cui all'art. 319-quater c.p..
2.2. Ricorso C..
2.2.1. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per violazione dell'art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione.
La sentenza impugnata ha eluso apertamente i motivi di appello, limitandosi ad enumerare le evidenze probatorie senza alcun apporto critico.
In particolare, in ordine al capo B) della imputazione, la difesa aveva espresso i dubbi in ordine al concreto contributo causale che avrebbe apportato il ricorrente al fatto illecito e la Corte di appello, riproponendo le stesse argomentazioni del primo giudice, ha asserito apoditticamente che egli aveva preso parte all'accordo corruttivo, pur non essendovi traccia di alcuna prova in merito.
La sentenza invero sovrappone senza motivazione la figura di C. a quella di B., finendo per considerali un unicum anche quando a comparire è il solo B..
Quanto al capo C), valgono le medesime considerazioni e la Corte di appello ha richiamato viepiù quale prova le intercettazioni non meglio precisate che si riferivano invece al capo D).
In modo contraddittorio viene presentato il gruppo dei correi come composto sin dall'inizio anche dal ricorrente, per poi ammettere che questi non compare nelle prime fasi del piano.
La Corte di appello ha risposto confusamente alle doglianze difensive richiamando materiale probatorio inconferente e non indicando passi della sentenza di primo grado in grado di chiarire tale affermazione.
In ordine al capo D), la motivazione è pur sempre acritica, appiattita su quella di primo grado.
Con l'appello pur sinteticamente si era dedotto che la sentenza di primo grado aveva travisato il contenuto di una intercettazione che si riferiva non al P. e la Corte di appello senza alcun vaglio ha confermato la medesima interpretazione.
2.2.2. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), in ordine alla qualificazione giuridica del fatto di cui al capo E) nel reato di tentata concussione anzichè in quello di tentata induzione indebita (artt. 56 e 319-quater c.p.).
Erroneamente la Corte di appello ha confermato la qualificazione giuridica del fatto nell'ipotesi di tentata concussione, là dove era stata prospettata a G. la spartizione della refurtiva, con inganno per indurlo ad aiutarli per il furto, e solo in extrema ratio il trasferimento.
In modo contraddittorio rispetto alla conclusione accolta la Corte di appello ha descritto le condotte dei correi come "accomodanti, disponibili, amichevoli".
La Corte di appello non ha poi considerato che G. era stato consapevole sin dall'inizio che B. e L. gli stavano tessendo una trappola, tanto da arrivare già preparato dai suoi superiori alla stazione dei carabinieri comandata da B..
Non è dato da sapere se le informazioni contenute nell'esposto siano vere o meno così da stabilire la loro idoneità costrittiva.
2.3. Ricorso L..
2.3.1. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e); in relazione all'art. 407 c.p.p., comma 3 e art. 335 c.p.p., inutilizzabilità o/e nullità degli atti di indagine per mancata iscrizione nel registro degli indagati.
Quanto alla questione della iscrizione del ricorrente nel registro degli indagati, la Corte di appello ha operato un illegittimo richiamo, in quanto privo di una valutazione critica e motivazionale, alla sentenza del primo giudice.
La sentenza va annullata anche per la violazione dell'art. 407 c.p.p., comma 3. Non sono stati rispettati i criteri temporali di iscrizione dell'indagato nel registro rispetto ai cardini di utilizzabilità del materiale investigativo accolto: l'iscrizione è stata illegittimamente differita al 2 marzo 2012, mentre doveva avvenire immediatamente (il 12 ottobre 2011 o comunque il 14 ottobre 2011, ovvero rispettivamente alla prima relazione di servizio del G. o alla prima intercettazione della sua utenza).
2.3.2. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c); in relazione all'art. 111 Cost., art. 51 c.p. e art. 55 c.p.p., mancata utilizzabilità delle indagini derivanti dall'agente provocatore.
Erroneamente la Corte di appello, recependo in modo passivo il ragionamento del primo giudice, ha ritenuto di non accogliere l'eccezione difensiva di inutilizzabilità degli atti di indagine derivanti da atti compiuti dall'agente provocatore.
Il comportamento tenuto da G. era invero andato al di là di una condotta attendista e di mero controllo della situazione e contenimento della altrui condotta criminosa: ne è riprova l'interruzione della sua escussione all'udienza del 9 ottobre 2013, con deferimento all'A.G. (a nulla rilevava l'archiviazione del successivo accertamento investigativo). Il contatto tenuto da G. aveva travalicato i limiti di controllo e contenimento quanto dello stimolo: aveva fornito informazioni sui sistemi di allarme e non sempre era stato cercato dagli imputati, avendo lui stesso ricevuto specifiche istruzioni per riallacciare i contatti con gli indagati, mostrandosi interessato alla condotta programmata (risultano a tal fine telefonate di G., ripetuti contatti spontaneamente attivati da quest'ultimo).
Ne deriva pertanto l'inutilizzabilità degli atti compiuti e l'intero procedimento è viziato per violazione dell'art. 6 CEDU.
2.3.3. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all'art. 319 c.p.; mancata prova dell'accordo corruttivo.
Dal compendio investigativo raccolto emerge con evidenza e chiarezza l'assenza di qualsivoglia accordo corruttivo (tale non può definirsi la captazione del (OMISSIS), insufficiente a provare un pagamento posto a valle di un accordo corruttivo fine), non emergendo alcun corrispettivo distinto e diverso da quello del furto. L'accordo riguardava soltanto un progetto mai realizzatosi.
2.3.4. Violazione di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all'art. 317 c.p.; insussistenza del reato di tentata concussione. Nessun tentativo di coartazione è stato posto ai danni di G..
Quest'ultimo aveva recitato abilmente la parte del soggetto non ancora completamente determinato a partecipare e non vi stato alcun costringimento ai suoi danni - anche con apprezzamento ex ante -; egli era ben consapevole della falsità dell'esposto, superficialmente teso a minare la sua persona.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In via preliminare, il Collegio deve rilevare l'avvenuta estinzione dei reati di istigazione alla corruzione di cui ai capi C) e D) per intervenuta prescrizione, posto che le doglianze prospettate per tali capi da tutti i ricorrenti non possono essere considerate complessivamente affette da inammissibilità.
In base alle imputazioni, in premessa sintetizzate, i suddetti reati si sarebbero perfezionati al più tardi rispettivamente il 5 novembre 2011 e in epoca antecedente all'ottobre 2011, sicchè nel frattempo è interamente decorso il termine di prescrizione di sette anni e sei mesi, anche considerando i periodi di sospensione maturati nel procedimento di merito (ovvero il rinvio delle udienze del 18 giugno 2014 e del 4 dicembre 2014, da considerare non oltre il sessantesimo giorno, per legittimo impedimento del difensore dell'imputato L. dovuto a contestuali impegni professionali), nonchè, eventualmente, anche quello maturato in questa fase collegato al periodo della cd. "emergenza Covid-19".
Considerate le argomentazioni svolte nei motivi di ricorso e tenuto conto della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di primo e secondo grado sulla base delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale, non ricorrono le condizioni per applicare in favore dei ricorrenti il disposto di cui all'art. 129 c.p.p., comma 2, atteso che dagli atti non emerge ictu oculi l'innocenza gli imputati.
Va rammentato che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo, secondo un consolidato principio di diritto, appartiene al concetto di "constatazione" piuttosto che a quello di "apprezzamento" ed è quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, P.v. 244274).
Nè le questioni di diritto, avanzate ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), comuni alle altre ipotesi corruttive, risultano fondate, come si avrà modo di precisare ai paragrafi che seguono.
Pertanto, i suddetti reati devono essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione, con conseguente eliminazione delle relative pene, come di seguito sarà indicato.
2. A differenti conclusioni deve pervenirsi per i restanti reati ascritti ai ricorrenti, per i quali deve constatarsi che non sono ancora maturati i relativi termini massimi di prescrizione, tenuto conto dei periodi di sospensione.
2.1. Appare opportuno fare alcune precisazioni per i reati di corruzione di cui ai capi A) e B).
Tali reati risultano contestati nelle imputazioni ed accertati dai giudici di merito nella forma dello stabile e sistematico asservimento delle funzioni pubbliche agli interessi del privato corruttore per il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio, ovvero come un unico reato corruttivo permanente (tra le tante, Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261352; Sez. F, n. 32779 del 13/08/2012, Lavitola, non massimata sul punto).
Quanto al tempus commissi delicti, le relative imputazioni prevedono la protrazione della condotta illecita (ovvero la "messa a disposizione" dei pubblici ufficiali corrotti) come "ancora in corso" al momento della formulazione dell'accusa.
A fronte di una contestazione di tipo "aperto" come quella ora riportata, secondo un consolidato principio di diritto, nel caso in cui in sede di giudizio di legittimità debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della condotta illecita, occorre verificare in concreto, sulla base della motivazione delle sentenze di merito, se il giudice della cognizione abbia o meno ritenuto, esplicitamente o implicitamente, provato il protrarsi della condotta criminosa oltre la data dell'accertamento e, eventualmente, sino alla pronuncia della sentenza di primo grado (tra le tante, Sez. 3, n. 68 del 25/11/2014, dep. 2015, Patti, Rv. 261792).
Ebbene, dall'esame delle sentenze di merito deve constatarsi che i giudici non hanno espressamente affrontato il tema della delimitazione temporale delle condotte ascritte agli imputati (nè risulta che tale questione sia stata sollevata dai ricorrenti nei vari gradi di giudizio), quand'anche, con riferimento al trattamento sanzionatorio, deve constatarsi che hanno applicato la normativa previgente alle novelle della L. n. 190 del 6 novembre 2012 (in ordine alla pena accessoria), ritenendo i fatti commessi "prima" della loro entrata in vigore (cfr. pag. 128 della sentenza di primo grado).
Va dunque verificato, sulla base dell'accertamento in fatto risultante dalle sentenze di merito e tenendo presente questo sbarramento temporale finale, quando la condotta corruttiva di stabile asservimento del pubblico agente sia venuta a cessare.
Viene quindi in considerazione l'ultimo momento della condotta di "messa a disposizione" ovvero, se successiva, l'ultima dazione, eventualmente effettuata, sinallagmaticamente connessa all'esercizio della pubblica funzione (Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, Evangelisti, Rv. 278192).
Dalle complessive valutazioni dei giudici di merito, si evince che il patto corruttivo prevedeva la stabile, totale ed incondizionata messa a disposizione dei due pubblici ufficiali funzionale a tutte le esigenze che B. e C. via via potevano avere per la preparazione e la realizzazione del loro piano criminale (ovvero il "colpo" alla filiale della Banca d'Italia). Piano che i giudici di merito ritengono vitale e sussistente per tutto il periodo "monitorato" dalle investigazioni e che risulta tuttavia essersi bruscamente interrotto in data 28 settembre 2012 a causa dell'adozione delle misure cautelari personali nei confronti dei ricorrenti (sulle vicende cautelari relative al procedimento, la stessa sentenza di primo grado rinvia alla sentenza della Corte di cassazione n. 9096 del 2013) (sulla cessazione improvvisa del patto corruttivo permanente dovuta all'arresto dal pubblico agente, Sez. 6, n. 39542 del 22/03/2016, Fronti, non massimata sul punto).
Si tratta di una ricostruzione in fatto non manifestamente illogica, in quanto coerente alle evidenze probatorie esposte nelle sentenze di merito. A tal fine è significativo, a conferma di tale assunto, che ancora alla data del 29 agosto 2012 i ricorrenti avessero continuato i loro incontri, monitorati dalla polizia giudiziaria sin dal 3 novembre 2011 parallelamente al servizio di captazione (in più occasioni invero gli imputati B. e C. si erano spostati ad Ancona dalla Puglia proprio per incontrare L. e B., cfr. pag. 91-92 della sentenza di primo grado) e che ancora nell'agosto 2012 B. avesse cercato di coinvolgere altri carabinieri addetti alla vigilanza della filiale di Ancona della Banca d'Italia nel "gruppo" che stava progettando il colpo al caveau.
Queste conclusioni si estendono anche alla posizione di L., per il quale i giudici di merito in ordine ai capi A) e B) hanno ritenuto di non utilizzare le intercettazioni "successive al 14 aprile 2012" e le parti delle deposizioni "sollecitate mediante contestazioni di atti di indagini successivi a tale data". Le sentenze di merito non hanno infatti ritenuto che la permanenza della sua condotta criminosa fosse cessata immediatamente a tale data, ma hanno ricostruito i fatti ponendo L. come partecipe al patto criminale anche successivamente ad essa.
Le captazioni e le fonti testimoniali "utilizzabili" davano infatti atto del suo perdurante asservimento programmatico, funzionale e strategico per l'organizzazione del colpo; inoltre l'episodio della tentata concussione di cui al capo E) - espressione del patto corruttivo di cui al capo A) - veniva a coprire un periodo temporale ben successivo alla data sopra indicata, dimostrando esso stesso la prosecuzione del permanente impegno assunto da L., anche attraverso la corruzione contestata a (capo B).
Pertanto, anche individuando in favore dei ricorrenti un termine della cessazione della condotta illecita in "concreto" (28 settembre 2012) rispetto alla contestazione in forma aperta, i suddetti reati non risultano ancora prescritti.
Oltre alle sospensioni nel corso del procedimento di merito di cui si è detto, è invero sufficiente considerare la sospensione dal 9 marzo all'11 maggio 2020 (giorni 64), prevista per tutti i processi pendenti, per effetto della disposizione di cui al D.L. n 18 del 2020, art. 83, conv. con modif. dalla L. n. 27 del 2020 in ragione dello stato di emergenza collegato alla pandemia da Covid-19 (il procedimento era stato fissato per la trattazione all'udienza pubblica davanti a questa Corte il 31 marzo 2020 ed è stato rinviato d'ufficio ex art. 83 cit.).
3. In ordine al ricorso di B. si osserva quanto segue.
3.1. Non ha pregio giuridico il primo motivo relativo alla questione della corretta qualificazione giuridica del fatto contestato al capo B).
Devono in primo luogo ritenersi prive di fondamento le censure volte a sindacare la motivazione sul punto della sentenza impugnata.
Già in primo grado era stata infatti affrontata la analoga questione sollevata dal ricorrente con l'appello e la Corte di appello si è uniformata, sia per la "ratio decidendi", sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice.
Va rammentato che nell'ipotesi in cui siano dedotte con l'appello questioni già esaminate e risolte il giudice dell'impugnazione può motivare "per relationem" e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati (tra tante, Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno, Rv. 259929).
In particolare, il Tribunale aveva ritenuto infondata la questione sollevata dalla difesa di B., secondo cui il fatto andava qualificato non come corruzione, bensì come il tentativo di furto o di rapina, sussistendone i restanti elementi costitutivi, posto che ai p.u. infedeli era stata offerta la possibilità di beneficiare della spartizione del provento di questa attività illecita.
Il Tribunale aveva sostenuto che non solo tale possibilità veniva ad integrare, in base ad un arresto di legittimità, la "altra utilità" alla quale fa riferimento l'art. 319 c.p., ma che, in ogni caso, era emerso dalle captazioni che B. aveva promesso un compenso ai due p.u., indipendentemente dal risultato del colpo (somme che poi effettivamente in diverse occasioni aveva loro corrisposto, tra le quali quella del (OMISSIS)).
La Corte di appello ha rigettato la medesima prospettazione difensiva, reiterata dall'imputato in appello, evidenziando, in risposta agli argomenti versati nel gravame, che la condotta posta in essere dai p.u., volta a rendere possibile l'esecuzione del colpo, poteva al più concorrere con la condotta di concorso nel furto non giunto ad uno stadio di avanzata progressione (e pertanto non oggetto di addebito), ma restava autonomamente rilevante come corruzione.
Si tratta di una conclusione che la difesa ha soltanto genericamente contestato in questa sede e che trova invece fondamento in un condivisibile precedente di legittimità, come evidenziato dai giudici di merito.
E' stato invero affermato che i delitti di furto e di corruzione hanno una struttura della fattispecie totalmente diversa tra loro, sicchè è configurabile il loro concorso, e che la spartizione del bottino, quale utilità pattuita per la corruzione, viene ad integrare quella utilità cui fa riferimento l'art. 319 c.p. (Sez. 4, n. 31390 del 21/04/2010, Carminati, in motivazione).
Nel caso di specie, la tesi del ricorrente appare ancor più priva di fondamento, posto che essa comporterebbe la completa impunità dei pubblici agenti pur a fronte di una condotta penalmente rilevante - la conclusione dell'accordo corruttivo.
Analoghe considerazioni rendevano infondata la tesi difensiva avanzata per i reati di istigazione alla corruzione, oramai coperti da prescrizione, di cui si è detto in premessa.
3.2. Infondato e a tratti inammissibile è il motivo relativo alla questione della qualificazione giuridica del fatto contestato al capo E) nel fuoco della fattispecie di cui all'art. 319-quater c.p..
Va osservato che era stato accertato in primo grado che i due pubblici ufficiali, in concerto con B. e C., avevano posto G. in uno stato di soggezione mediante falsi esposti a suo carico, accentuato dalla convocazione del medesimo da parte di un superiore del B., minacciandolo almeno implicitamente che, ove lo stesso non avesse collaborato nel furto al caveau della filiale della Banca d'Italia ovvero non si fosse trasferito ad altro ufficio, avrebbe sicuramente sopportato importanti pregiudizi lavorativi, familiari e giudiziari e financo la perdita del lavoro come conseguenza degli esposti. Pregiudizi, che costoro avevano rappresentato come risolvibili grazie all'insabbiamento degli esposti solo se G. avesse adottato la condotta indicata dagli imputati.
Il ricorrente lamenta in questa sede la mancata risposta alle deduzioni difensive versate nell'appello che avevano evidenziato come G. fosse stato al più "indotto", in vista di una utilità prospettatagli a suo vantaggio (l'insabbiamento dell'esposto obiettivamente compromettente), ma non costretto a porre in atto le condotte richiestegli.
Peraltro, dall'esame dell'appello si evince che la difesa aveva avanzato differenti argomentazioni, sostenendo in ordine al capo in rassegna la tesi del reato impossibile (in quanto G. era a conoscenza della lettera anonima "finta" ancor prima della sua convocazione) o a tutto voler concedere della qualificazione del fatto nella fattispecie del tentativo di induzione indebita (stante l'inganno "a monte"), per la quale tuttavia difettava comunque l'utilità data o premessa "a valle".
Pertanto, il motivo di ricorso risulta aspecifico rispetto alle deduzioni sollevate in appello, alle quali la Corte di appello ha in ogni caso puntualmente risposto.
In ordine alla pressione costrittiva esercitata sul G., la Corte di appello ha posto in evidenza il carattere cogente di un'alternativa non dominabile da parte della persona offesa rispetto al corso dell'esposto anonimo e la dipendenza esclusiva della sua sorte anche lavorativa da determinazioni di soggetti, prospettate come decisive, attraverso una progressiva e stringente accentuazione della serietà dell'esposto e degli effetti che era destinato a riverberare. La minaccia era stata costruita ed alimentata come tale dai correi, con aggiustamenti volta per volta escogitati per canalizzare e restringere lo spiraglio di intervento "possibile" e renderlo più urgente.
Quanto alla dedotta inidoneità della condotta, la Corte di appello ha ricordato i consolidati principi in materia, secondo cui il reato impossibile presuppone l'originaria, assoluta inefficienza causale dell'azione, da valutare oggettivamente in concreto e con giudizio "ex ante", in relazione alle intrinseche caratteristiche dell'azione (tra le tante, Sez. 6, n. 17988 del 06/02/2018, Mileto, Rv. 272810; e che non è configurabile l'ipotesi del reato impossibile, di cui all'art. 49 c.p., bensì quella del tentativo di concussione punibile, in relazione alle richieste e pressioni illecite del pubblico ufficiale intervenute successivamente alla presentazione di denuncia all'autorità giudiziaria da parte del soggetto passivo (Sez. 6, n. 25677 del 16/03/2016, Carretta, Rv. 266966).
4. Con riferimento al ricorso di C. si avanzano le seguenti osservazioni.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente si duole della risposta carente o comunque apparente data dalla Corte di appello alle questioni sollevate con il gravame in ordine alle varie imputazioni.
Con riferimento al capo B), sono prive di pregio le dedotte carenze motivazionali.
La Corte di appello ha invero ricostruito le condotte illecite ascritte agli imputati, muovendo dalla vicenda di cui al capo C) (la istigazione alla corruzione del maresciallo G.) che dimostrava l'esistenza di un compatto accordo operativo tra B., B. L. e C. (significativa è la stessa ammissione degli imputati "siamo partiti in 4", citando espressamente il " M.") per indurre l'addetto alla sorveglianza della filiale della Banca d'Italia ad agevolare la commissione dell'obiettivo (il furto al caveau). In tale fase è dimostrata ampiamente con le captazioni la partecipazione di C., che trattava con i correi degli incontri che dovevano essere fatti con G., ancorchè a tali incontri non sia personalmente comparso. Era L. a fare riferimento costante a C. quale suo diretto intermediario verso B., quale referente cioè per le comunicazioni sulla vicenda G. sia nella prima che nella seconda fase (significativa è la richiesta di approvazione che L. avanza a C. per "andare avanti").
C. risultava parimenti pienamente inserito anche nella vicenda illecita di cui al capo D) secondo il medesimo schema (era il C. a suggerire la strategia per ottenere l'adesione alla richiesta corruttiva).
Sulla base di queste premesse, sono state, quindi, ricostruite le condotte ascritte a C. al capo B). A tal fine la Corte di appello ha richiamato la sentenza di primo grado che aveva ripercorso i contenuti dell'accordo corruttivo e le manifestazioni ad ampio raggio dei due pubblici ufficiali nell'interesse di B. e C.. In particolare, sono richiamate le captazioni ambientali che davano atto dei rapporti dei due pubblici ufficiali con entrambi i correi e segnatamente con C. (in particolare, a pag. 106 della sentenza di primo grado, viene evidenziato come L., rivolgendosi a C., in due captazioni del marzo e maggio 2012, abbia fatto sapere al gruppo di stare tranquilli e di rassicurare gli altri che erano "a disposizione loro" e di non preoccuparsi).
4.2. Sono infondate le critiche rivolte dal ricorrente alla qualificazione giuridica del fatto ascrittogli al capo E).
Quanto agli aspetti in fatto della ricostruzione accolta dalla Corte di appello, va evidenziato che nell'appello il ricorrente aveva contestato la effettiva efficacia intimidatoria della condotta (si assumeva che tutti i soggetti coinvolti erano stabilmente intercettati e che si trattava più che altro di un tentativo truffaldino predisposto da B. teso a convincere G.).
A tali rilievi la Corte di appello ha risposto adeguatamente, senza vizi rilevanti ai fini dell'art. 606 c.p.p..
In particolare, la sentenza impugnata ha richiamato specificatamente le captazioni registrate sin dal novembre 2011 relative all'ideazione del piano criminoso e al tentativo di convincimento verso G.; nonchè le risultanze investigative che dimostravano come, una volta constatata la reazione negativa di G., era stata elaborata dagli imputati una nuova strategia per coartarlo ("metterlo con le spalle al muro"), necessitata non solo dall'inaspettato blocco della sequenza operativa, ma anche significativamente dalla loro forte preoccupazione per il coinvolgimento informativo di un estraneo al loro progetto criminoso, che doveva pertanto essere ineluttabilmente cooptato nell'affare illecito con ogni mezzo.
Tale ricostruzione è logicamente sostenuta dalla Corte di appello in coerenza con le risultanze probatorie, esposte nella sentenza di primo grado, che vedano pienamente coinvolto anche C. e che avevano rivelato il piano architettato dagli imputati per "incastrare" G. e i successivi sviluppi per la sua attuazione.
La efficacia intimidatoria della loro azione risultava effettivamente ampiamente descritta dalla sentenza di primo grado attraverso la sequenza di conversazioni nelle quali sono gli stessi imputati a manifestare plasticamente che scopo del loro piano era di mettere "all'angolo" G. ("noi stiamo a picchiare o cede o crolla"), preoccupandosi con inquietudine degli effettivi risultati delle mosse messe a punto (in particolare con la convocazione in caserma di G.) che tardavano a verificarsi (ovvero, usando le parole degli imputati, di "colpire il bersaglio").
Non fa velo a questa ricostruzione, in termini di pressione costrittiva, il ricorso, pianificato dagli stessi impuntati, a toni volutamente accomodanti nei confronti di G. così da operare "tranquillamente" ma lasciandolo "sulle spine" (pag. 49 della sentenza di primo grado): per rendere la loro azione più efficace ed evitare di essere denunciati, essi avevano adottato la strategia di lasciare a B. il ruolo del "buono", così da tranquillizzare la vittima, per poi assumere L. il ruolo del "cattivo" più aggressivo per ottenere il risultato prefigurato (pag. 60 della sentenza di primo grado).
Come è stato autorevolmente affermato, la minaccia, attraverso la quale si realizza l'abuso costrittivo della fattispecie di cui all'art. 317 c.p., non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali, ma può essere anche implicita, velata, anche allusiva ed assumere finanche la forma del consiglio, dell'esortazione, della metafora: essa può quindi manifestarsi anche con toni apparentemente "morbidi" e "concilianti", quando sia comunque idonea ad incutere timore nella persona offesa in relazione a tutte le circostanze del caso concreto e alla personalità dell'agente (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera).
Nè, per quanto già osservato per la posizione di B., la loro azione intimidatoria poteva dirsi inefficace per la conoscenza in capo a G. della falsità dell'esposto, acquisita dopo il primo incontro con B..
Nè lo stratagemma progettato dai correi per "mettere con le spalle al muro" G. poteva incidere significativamente sulla configurazione del reato di concussione. Le Sezioni Unite, nell'arresto sopra citato, hanno precisato che le modalità della condotta induttiva ex art. 319-quater c.p. si concretizzano nella persuasione, nella suggestione, nell'allusione, nel silenzio, nell'inganno (sempre che quest'ultimo non verta sulla doverosità della dazione o della promessa, del cui carattere indebito il privato resta perfettamente conscio), "purchè tali atteggiamenti non si risolvano nella minaccia implicita, da parte del pubblico agente, di un danno antigiuridico".
Attengono infine al merito - non risultando che il ricorrente abbia dedotto tale aspetto in sede di appello - le censure sviluppate nel motivo in esame in ordine alla veridicità o meno delle accuse contenute nell'esposto, oltre a presentarsi in ogni caso generiche rispetto ai principi che governano il discrimine tra le figure delittuose della concussione e della induzione indebita, non basati sul mero criterio danno-vantaggio. Invero, è stato affermato dalle Sezioni Unite, che l'extraneus, per effetto dell'abuso posto in essere dal pubblico agente, può contestualmente evitare un danno ingiusto ed acquisire un indebito vantaggio ovvero, pur di fronte ad un apparente vantaggio, subire comunque una coartazione, sicchè, per scongiurare mere presunzioni o inaffidabili automatismi, occorre apprezzare il registro comunicativo nei suoi contenuti sostanziali, rapportati logicamente all'insieme dei dati di fatto disponibili (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. 2014, Maldera). Su tale aspetto il motivo non offre alcuna argomentazione di critica.
5. In merito al ricorso di L. si osserva quanto segue.
5.1. Privo di pregio giuridico è il primo motivo, con il quale il ricorrente ripropone, lamentandosi anche della carente risposta, la questione della inutilizzabilità o/e nullità degli atti di indagine per la mancata (in quanto, differita) iscrizione del suo nominativo nel registro degli indagati.
Va premesso che in primo grado erano stati dichiarati dal Tribunale inutilizzabili nei confronti di L. - fatto salvo che per il capo E) - alcuni atti di indagine compiuti dopo il termine di sei mesi decorrente dal 14 ottobre 2011 (ovvero dopo il 14 aprile 2012) e ciò in quanto la iscrizione nel registro degli indagati per i restanti reati era avvenuta tardivamente rispetto al decreto di intercettazione urgente emesso nella suddetta data dal P.M. nei suoi confronti. In tal modo, il Tribunale aveva inteso consapevolmente prendere le distanze dalla allora già consolidata giurisprudenza di legittimità che non attribuisce effetti processuali al ritardo, pur se abnorme, con il quale il P.M. procede all'iscrizione tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito (Sez. U, n. 40538 del 24/09/2009, Lattanzi, Rv. 244376; Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216248), aderendo piuttosto ad un minoritario orientamento (peraltro già superato dall'intervento delle Sezioni Unite), che in presenza di una tardiva iscrizione consentiva al giudice di rideterminarne il termine iniziale, in riferimento al momento in cui si sarebbe dovuta iscrivere la notizia di reato, con conseguente effetto sulla utilizzabilità delle indagini finali, ma non su quelle svolte prima della iscrizione (Sez. 5, n. 1410 del 21/09/2006, dep. 2007, Boscarato, Rv. 236029).
Proprio sulla base di questa ultima pronuncia, il Tribunale aveva inoltre respinto la eccezione sollevata dalla difesa di L. in ordine alla inutilizzabilità degli atti precedenti alla iscrizione avvenuta in data 2 marzo 2012.
Quest'ultima questione era stata nuovamente sollevata con l'appello, con il quale il ricorrente si era limitato a definire "non pacifica" la soluzione accolta dal Tribunale, insistendo affinchè la sanzione della inutilizzabilità fosse estesa a tutte le indagini poste in essere in difetto della prescritta iscrizione.
La Corte di appello ha ritenuto di aderire all'orientamento di legittimità fatto proprio dal primo giudice.
Così sintetizzati i termini della questione, il Collegio non può che rilevare la manifesta infondatezza della eccezione sollevata dalla difesa, che mira in definitiva a riproporre il tema della tempestività della iscrizione nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. e della sanzione processuale in presenza di indagini svolte in assenza della iscrizione stessa.
Come già osservato poc'anzi, le Sezioni Unite, con gli arresti citati, hanno più volte affermato che l'omessa annotazione della "notitia criminis" nel registro previsto dall'art. 335 c.p.p., con l'indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta ad indagini "contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta", non determina l'inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti sino al momento dell'effettiva iscrizione nel registro.
Principi questi, ai quali, il ricorrente non si correla affatto, finendo quindi per proporre critiche inammissibili.
La manifesta infondatezza del motivo di appello rende in ogni caso irrilevante il profilo della carenza della motivazione denunciato dal ricorrente (Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, Liberti, Rv. 276745).
5.2. Non ha fondamento il secondo motivo con il quale il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata in ordine alla utilizzabilità delle indagini derivanti dagli atti compiuti dall'agente provocatore.
Va evidenziato che analoga questione era stata sollevata sin dal primo grado dalle difese degli imputati e rigettata dai giudici del merito.
La Corte di appello ha fatto buon governo, nel respingere la censura, dei consolidati principi di diritto in materia.
Va rammentato che è inutilizzabile la prova acquisita dall'agente infiltrato che abbia determinato l'indagato alla commissione di un reato e non quella acquisita con l'azione di mero disvelamento di una risoluzione delittuosa già esistente, rispetto alla quale l'attività dell'infiltrato si presenti solo come occasione di estrinsecazione del reato (tra le tante, Sez.. 6, n. 12204 del 04/02/2020, Giannone, Rv. 278730); e che non contrasta con il diritto di ogni persona a un processo equo ex art. 6 della Convenzione EDU, l'azione dell'agente provocatore che si limita a disvelare un'intenzione criminale esistente, anche se latente, fornendo solo l'occasione per concretizzare la stessa, e, quindi, senza determinarla in modo essenziale (Sez. 3, n. 20238 del 07/02/2014, Buruiana, Rv. 260081; conf. tra le tante, Sez. 4, n. 41008 del 04/06/2019, Casamonica, non mass.).
Con il motivo di ricorso, il ricorrente ha censurato in modo generico la carenza della motivazione della sentenza impugnata, che avrebbe affrontato la questione meramente rinviando per relationem alle valutazioni espresse dal primo giudice, non segnalando aspetti del gravame trascurati in quella sede, e si è piuttosto concentrato nell'offrire una ricostruzione dei fatti volta a dimostrare una condotta del G. tale da travalicare i limiti fissati dalla giurisprudenza ora citata.
Ebbene, in presenza di una violazione della legge processuale, va ricordato che il sindacato di legittimità sulla valutazione operata dal giudice della cognizione in merito ai fatti presupposto dell'applicazione di una norma processuale è limitato alla verifica della sussistenza e della logicità della motivazione adottata sul punto (Sez. 3, n. 49805 del 18/05/2018, M., Rv. 274192).
Pertanto, la richiesta del controllo avanzata in questa sede dal ricorrente non può spingersi sino a prospettare una diversa ricostruzione del fatto, in diretto confronto con le evidenze probatorie, ma deve essere ancorata all'accertamento espresso dalla Corte di appello nella motivazione, del quale avrebbe dovuto denunciare vizi rilevanti in questa sede.
Il ricorrente si è invece limitato a valutazioni aspecifiche rispetto al ragionamento probatorio sviluppato dalla sentenza impugnata e di puro fatto quanto alla ricostruzione della veste e dell'attività effettivamente svolta di G..
Esaminata la eccezione sulla base di queste premesse, essa appare priva di fondamento, in quanto la Corte di appello ha accertato che G. non aveva minimamente influenzato la condotta degli imputati, i quali in modo autonomo si erano rivolti al predetto per richiederne la collaborazione. A tal fine la Corte di appello ha riportato dettagliatamente le captazioni che fondavano, coerentemente, tale conclusione.
La Corte di appello ha anche escluso che il comportamento del G. fosse stato "pilotato" dagli investigatori e quindi inquadrabile nella figura dell'agente provocatore, come sostenuto nel gravame: non vi era stato un input investigativo e questi non si era insidiosamente "coperto" agli imputati, che ben ne conoscevano identità e qualità.
5.3. Non può essere accolto neppure il terzo motivo che si incentra sulla mancata prova dell'accordo corruttivo.
Va in primo luogo evidenziato che con l'appello il ricorrente aveva contestato la configurazione dell'accordo corruttivo in presenza della sola manifestazione di disponibilità dei pubblici ufficiali a partecipare ad una futura rapina mai realizzata, considerato che non vi era stato alcun compenso distinto e diverso dal bottino che il gruppo intendeva ottenere dal reato, e che nessun apporto causale i corrotti avevano potuto offrire alla realizzazione del progetto criminoso.
In questa sede, il ricorrente ha sottoposto alla Corte di legittimità il vizio della violazione della legge, quanto alla qualificazione giuridica del fatto nel reato di cui all'art. 319 c.p., riproponendo da un lato la questione della errata sovrapposizione dell'adesione ad un progetto mai realizzato con l'esistenza di un accordo corruttivo, e dall'altro avanzando generici e preclusi rilievi sulla "prova" della sussistenza stessa dell'accordo corruttivo (richiamando direttamente a sostegno della censura "il compendio investigativo raccolto" e contestando il significato probatorio delle captazioni).
Dunque, limitato il controllo di legittimità alle sole censure ammissibili, va osservato che la ricostruzione accolta dai giudici di merito quanto alla messa a disposizione dei pubblici ufficiali agli interessi delittuosi dei privati corruttori non presenta alcuna aporia o salto logico, in quanto coerente con le evidenze probatorie esposte nelle motivazioni delle sentenze di merito. L., al pari di B., erano stato assoldato dai privati corruttori per soddisfare le esigenze dell'organizzazione del piano criminale e superare i problemi che si sarebbero potuti verificare, mettendosi a loro disposizione con l'impegno permanente di compiere atti contrari i doveri del suo ufficio.
E' dalla voce degli stessi imputati, pubblici ufficiali, che significativamente i giudici di merito traggono la conferma della loro stabile "messa a disposizione" in favore dei privati corruttori (avendo costoro più volte assicurato di essere a disposizione con un impegno permanente "24 ore su 24").
I giudici di merito hanno anche evidenziato come la prima manifestazione dell'accordo corruttivo fosse stata la omessa denuncia delle attività illecite programmate dal gruppo dei pugliesi, delle quali aveva avuto conoscenza e che avevano agevolato, in sinallagma con le utilità promesse e accettate, con la loro fattiva collaborazione. Lo stesso L., in esecuzione del patto corruttivo, aveva poi realizzato ulteriori atti contrari ai doveri del suo ufficio (ricercare informazioni tramite canali istituzionali per finalità illecite), rivelando plasticamente la finalità dell'impegno assunto.
In ordine al tema della qualificazione del fatto nella mera adesione ad un progetto criminale mai realizzato si è già detto, affrontando analoga censura proposta da B., alle cui osservazioni si rinvia.
5.4. Neppure può essere accolto l'ultimo motivo con il quale il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di legge, per la insussistenza del reato di tentata concussione.
Sulla infondatezza della questione relativa alla consapevolezza del G. della falsità dell'esposto, si è già detto in precedenza nell'esaminare analoghe critiche versate dagli altri ricorrenti, alle cui osservazioni si rinvia.
Relativamente poi al comportamento costrittivo, il motivo è meramente oppositivo e non correlato alla ricostruzione accolta dai giudici di merito che ha delineato correttamente il tentativo di concussione, come si è già ha avuto modo di rilevare in relazione alle posizioni degli altri ricorrenti.
6. Conclusivamente, sulla base di quanto premesso, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente nei confronti dei tre ricorrenti limitatamente ai reati di cui ai capi C) e D) perchè estinti per prescrizione, con il rigetto dei ricorsi nel resto.
In considerazione del parziale annullamento della sentenza deve rideterminarsi la pena, con la eliminazione delle relative pene inflitte per i reati dichiarati estinti. Rideterminazione, che in ragione delle modalità di calcolo della pena, risultanti dalla sentenza di primo grado, può essere effettuata direttamente da questa Corte ai sensi dell'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l).
A pag. 128 della sentenza di primo grado, risulta che l'aumento per la continuazione per i capi C) e D) per tutti e tre i ricorrenti è stato determinato nella misura di mesi quattro di reclusione per ciascun reato.
Pertanto, la pena finale inflitta a costoro va così rideterminata: nei confronti di B. e C. (a fronte della pena di anni tre e mesi sei di reclusione) anni due e mesi dieci di reclusione; e nei confronti di L. (a fronte della pena di anni quattro e mesi sei di reclusione) anni tre e mesi dieci di reclusione.
P.Q.M.
Annullata senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.O., C.M. e L.F. limitatamente ai reati di cui ai capi C) e D) perchè estinti per prescrizione.
Rigetta nel resto i ricorsi proposti.
Ridetermina la pena nei confronti di B.O. e C.M. in anni due e mesi dieci di reclusione e nei confronti di L.F. in anni tre e mesi dieci di reclusione.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2020