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Concussione: che cos'è e quando si configura il reato previsto dall'art. 317 del codice penale

Aggiornamento: 28 ago

Il reato di concussione ex art. 317 c.p.: guida giuridica aggiornata con giurisprudenza e dottrina. Differenze con induzione indebita e corruzione, bene giuridico tutelato, tentativo e pene accessorie

Il delitto di concussione, disciplinato dall’art. 317 c.p., costituisce una delle figure paradigmatiche della criminalità dei pubblici ufficiali, nella quale l’abuso della funzione si traduce in strumento di compressione della libertà di autodeterminazione del privato.

La sua storia normativa – dalla tipizzazione ottocentesca, che distingueva tra forme costrittive e induttive, fino alla svolta della l. n. 190/2012 e alla successiva riforma del 2015 – restituisce l’immagine di una fattispecie in costante metamorfosi, nella quale il legislatore ha progressivamente ridefinito il perimetro della tutela penale.

La concussione si colloca così in una posizione intermedia tra le fattispecie corruttive e quelle estorsive, configurandosi come reato plurioffensivo: essa incide simultaneamente sull’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e sulla libertà negoziale del privato, costretto a subire il metus publicae potestatis quale prezzo della distorsione autoritativa.

Nel prosieguo, analizzeremo in dettaglio la struttura, l’evoluzione storica, i profili oggettivi e soggettivi, nonché i principali orientamenti giurisprudenziali relativi al reato di concussione.

Art. 317 del codice penale - Concussione

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni

Competenza per materia

Tribunale in composizione collegiale

Udienza preliminare

Prevista

Procedibilità

D'ufficio

Arresto

Facoltativo

Fermo

Consentito

Custodia cautelare in carcere

Consentita

Prescrizione

Dodici anni


Indice:


1. Introduzione

Il delitto di concussione, previsto dall’art. 317 c.p., occupa una posizione centrale nel sistema dei reati contro la pubblica amministrazione. Esso rappresenta, nella prospettiva della politica criminale, l’archetipo del potere che si piega a fini privatistici, trasformando l’autorità in strumento di sopraffazione.

La fattispecie ha subito nel tempo significative metamorfosi.

Nel codice Rocco del 1930, la concussione era tipizzata come un reato proprio del pubblico ufficiale; con la legge n. 86 del 1990 il legislatore vi incluse anche l’“incaricato di pubblico servizio”, riconoscendo la pericolosità di abusi provenienti da figure non pienamente autoritative ma pur sempre in grado di incidere sulle libertà del cittadino.

La svolta è giunta con la legge n. 190 del 2012 (“legge Severino”), che ha “spacchettato” l’originaria figura incriminatrice distinguendo tra:

  • la concussione in senso stretto (oggi limitata alla costrizione);

  • la nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.), pensata per le forme di pressione più sfumate.

Successivamente, la legge n. 69 del 2015 ha nuovamente incluso gli incaricati di pubblico servizio tra i possibili soggetti attivi della concussione, chiudendo un percorso oscillante che testimonia l’incertezza del legislatore nella delimitazione del perimetro del reato.

La concussione, dunque, non è un fossile normativo, ma un istituto vivo, continuamente ridefinito nel suo nucleo essenziale dal legislatore e dalla giurisprudenza di legittimità.


2. Bene giuridico tutelato

Il primo nodo esegetico riguarda l’individuazione del bene giuridico protetto. Secondo la dottrina classica (Fiandaca–Musco, Diritto penale. Parte speciale I, 2002, p. 205), la norma mira primariamente a garantire l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, valori costituzionalizzati dall’art. 97 Cost. Tuttavia, altra autorevole dottrina (Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale II, 1999, p. 299; Segreto–De Luca, 2000; Ravagnan, 1999) sottolinea che la tutela si estende anche al privato, la cui libertà di autodeterminazione nei rapporti con il potere pubblico non può essere compressa né distorta dall’abuso di funzione.

Da qui la qualificazione del reato come plurioffensivo: esso colpisce simultaneamente l’interesse pubblico al corretto esercizio della funzione e l’interesse privato alla libera determinazione patrimoniale.

La stessa struttura della norma, che richiede non solo l’abuso ma anche la “costrizione di taluno” alla dazione o promessa indebita, conferma tale impostazione.

La giurisprudenza si è orientata nella medesima direzione.

Già Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 1990, n. 5276, aveva chiarito che la concussione ricorre anche quando il funzionario abusi della propria posizione per influire sulle trattative contrattuali in corso con un privato, alterando la par condicio e piegandola a proprio favore.

Analogamente, Cass. pen., Sez. VI, 28 luglio 2011, n. 31341 e Cass. pen., Sez. VI, 27 febbraio 2007, n. 8906, hanno riconosciuto il delitto nella condotta del pubblico ufficiale che, anziché avvalersi dei mezzi legali di tutela dei propri diritti, ricorra alla pressione indebita, imponendo al privato di adempiere a prestazioni altrimenti dovute.

È significativo che anche in tali ipotesi, dove la pretesa del funzionario può apparire in sé “legittima”, il reato venga configurato non per l’oggetto della pretesa, ma per il mezzo costrittivo impiegato.

La Cassazione ha ribadito che l’“indebitamente” dell’art. 317 c.p. qualifica non tanto l’utilità pretesa, quanto le modalità abusive della richiesta (Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560).

In questa prospettiva, la riforma del 2012 ha accentuato la funzione “garantista” della norma: conservare nel recinto dell’art. 317 solo la concussione costrittiva, cioè le ipotesi in cui l’abuso si traduce in una vera e propria sopraffazione, significa riconoscere che il nucleo più prezioso da tutelare è la libertà di autodeterminazione del cittadino, piegata dal metus publicae potestatis.


3. I soggetti

3.1. Il soggetto attivo

La concussione è un reato proprio: può essere commesso soltanto da chi rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

La storia normativa testimonia le oscillazioni del legislatore:

  • il codice Rocco limitava il reato al pubblico ufficiale;

  • la legge n. 86 del 1990 estese la figura anche agli incaricati di pubblico servizio, ritenendo che anch’essi potessero incidere sulla libertà del privato;

  • la legge n. 190 del 2012 ridusse nuovamente il perimetro, escludendoli, in coerenza con la scelta di tipizzare separatamente l’induzione indebita;

  • la legge n. 69 del 2015 li reintegrò, riconoscendo la necessità di reprimere anche le condotte provenienti da figure dotate di minori poteri formali, ma pur sempre capaci di coartare la volontà del cittadino.

La dottrina, sul punto, si è divisa.

Una parte (Fiandaca–Musco, Parte speciale I, 2002, pp. 205-206; Palazzo, 1990, p. 824) ha sostenuto che la concussione dovesse rimanere confinata ai soli pubblici ufficiali, giacché solo essi incarnerebbero il metus publicae potestatis, la forza intimidatoria tipica del potere autoritativo.

Altri (Benussi, 2001, p. 88; Spadaro–Pastore, 2012) hanno invece rilevato come il fulcro della fattispecie sia l’abuso, che ben può colorare anche la condotta dell’incaricato di pubblico servizio, la cui minaccia può produrre un effetto di soggezione integrale.

La giurisprudenza ha accolto una lettura ampia.

Si pensi al caso del medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale che, abusando della sua posizione, minacci di negare cure necessarie se non dietro corresponsione indebita: la Cassazione (Sez. VI, 30 aprile 2019, n. 4110) ha chiarito che anche l’incaricato di pubblico servizio può porsi come soggetto attivo, purché la condotta si estrinsechi in una pressione costrittiva.

Un profilo peculiare riguarda l’ex pubblico ufficiale.

La giurisprudenza distingue: se si tratta di abuso dei poteri, il reato non è configurabile, poiché i poteri non possono essere esercitati da chi non li detiene più; se invece si tratta di abuso della qualità, la concussione può sussistere qualora la posizione precedentemente rivestita consenta ancora all’agente di incidere indebitamente sugli interessi altrui. È il caso di Cass. pen., Sez. VI, 18 settembre 2013, n. 39010, relativa a un ex dirigente sanitario che, pur cessato dall’incarico, manteneva relazioni tali da influire sui procedimenti amministrativi.

Infine, la concussione può realizzarsi anche con l’intermediazione di un terzo (il c.d. nuncius). Tuttavia, è necessario che la vittima sia consapevole che la pretesa provenga dal pubblico ufficiale, ancorché veicolata da altri (Cass. pen., Sez. VI, 28 gennaio 1994, n. 1319).


3.2. Il soggetto passivo

In un’ottica coerente con la natura plurioffensiva del reato, soggetto passivo è tanto la pubblica amministrazione quanto il privato che subisce la costrizione. Quest’ultimo può essere sia un cittadino, sia – ipotesi non infrequente – un altro pubblico ufficiale.

La Cassazione (Sez. VI, 21 febbraio 1997, n. 1306) ha infatti riconosciuto che anche un soggetto titolare di funzioni pubbliche può essere vittima di concussione, qualora si trovi in posizione di soggezione rispetto all’agente.

In tali casi, tuttavia, la valutazione dell’effetto coartante deve essere condotta con “particolare rigore”, in ragione del grado di resistenza normalmente atteso da chi esercita poteri pubblici.

Altro tema riguarda il soggetto incapace: secondo dottrina prevalente e giurisprudenza costante, occorre verificare caso per caso la capacità effettiva di percepire la coazione, poiché senza tale percezione non può parlarsi di costrizione penalmente rilevante.

Quanto alla percezione della qualifica soggettiva dell’agente, la giurisprudenza ha chiarito che la sussistenza del reato non dipende dalla convinzione soggettiva della vittima.

Così, Cass. pen., Sez. VI, 22 marzo 1993, n. 3689 ha ritenuto irrilevante che la persona offesa non credesse alla qualità pubblica dell’autore; viceversa, Cass. pen., Sez. VI, 28 febbraio 2007, n. 8907 ha affermato che il delitto sussiste anche se il soggetto passivo è inconsapevole della qualità di pubblico ufficiale dell’agente, purché la condotta abusiva abbia comunque influito causalmente sulla sua volontà.


4. Elemento oggettivo

4.1 La condotta

La concussione, disciplinata dall’art. 317 c.p., incrimina il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità.

La cornice edittale, particolarmente severa, prevede la pena della reclusione da sei a dodici anni, a testimonianza della pregnanza del bene giuridico tutelato e della gravità dell’offesa.

La fattispecie si articola in tre momenti strettamente concatenati:

In altri termini, la configurabilità del reato postula l’instaurarsi di un nesso causale tra l’abuso e la costrizione, da un lato, e l’attribuzione patrimoniale indebita, dall’altro: una sequenza criminosa scandita dal binomio potere-abuso e destinata a sfociare nella dazione o promessa coartata.

Tradizionalmente, la concussione si consuma con la promessa o con la dazione, a seconda di quale evento si realizzi per primo. L’orientamento risalente (Cass. pen., Sez. VI, 30 luglio 2004, n. 33419) riteneva sufficiente la promessa, relegando la dazione a un post factum.

Un orientamento più recente e oggi prevalente, invece, propende per una lettura “a schema duplice”: se alla promessa segue la dazione, il momento consumativo coincide con quest’ultima, poiché rappresenta un approfondimento dell’offesa (Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2015, n. 45468).

Ne consegue che plurime corresponsioni rateali integrano un unico episodio criminoso, con consumazione finale nell’ultima dazione.


4.2 L'abuso delle qualità o dei poteri

L'abuso della qualità si configura quando il pubblico ufficiale si limita a far "pesare" sul privato il mero prestigio connesso al proprio status, senza esercitare in concreto i poteri della funzione.

È il caso, ad esempio, del funzionario che evochi la possibilità di influire negativamente su una pratica amministrativa, pur non adottando alcun atto formale: la sola evocazione della carica diventa lo strumento di pressione.

Diverso è l’abuso dei poteri, che ricorre quando l’agente esercita – o minaccia di esercitare – in modo distorto le proprie attribuzioni istituzionali.

Si pensi al vigile urbano che prospetti l’immediata redazione di un verbale per una presunta violazione, a meno che il cittadino non versi una somma “a titolo personale”: in tal caso, l’attività funzionale è piegata ad un fine indebito, ponendo la legalità dell’ufficio al servizio dell’arbitrio.

In entrambe le ipotesi, l’essenza dell’abuso sta nello scarto tra la funzione pubblica e il fine privato, scarto che spezza l’equilibrio fiduciario su cui si regge il rapporto tra cittadino e istituzioni.


4.3 La costrizione

Il nucleo centrale della concussione risiede nella pressione psichica esercitata sul privato, la quale deve assumere natura costrittiva.

La costrizione non si riduce necessariamente a una minaccia esplicita: può assumere forme più sottili, allusive, idonee a generare quel metus publicae potestatis che immobilizza la libertà decisionale (Cass. 26 agosto 1997, Grigolo).

Un esempio paradigmatico è rappresentato dal dirigente comunale che, nel ricevere un imprenditore, lasci intendere – senza mai dirlo apertamente – che la concessione edilizia attesa possa incontrare “difficoltà” se non accompagnata da un riconoscimento economico.

Anche il silenzio, o l’allusione ambigua, possono integrare la costrizione se idonei a determinare la vittima a un comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto.

La giurisprudenza ha colto bene questa dimensione elusiva della costrizione: essa può realizzarsi non solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche mediante gesti, omissioni o atteggiamenti simbolici capaci di evocare la minaccia implicita del potere.

"Le modalità del comportamento concussorio sfuggono alla possibilità di una rigorosa delimitazione in chiave descrittiva attraverso predeterminate regole semantiche, potendo tali modalità enuclearsi tanto a mezzo di simboli quanto a mezzo di segnali, entrambi idonei a creare quel timore nel soggetto passivo in grado di indurlo all'atto di disposizione. Il che è riscontrabile soprattutto nei casi in cui il mezzo adottato dal concussore appaia così deviante rispetto alla condotta descritta dall'art. 317 C.P. da far ritenere che sia la stessa vittima ad offrire l'utilità al pubblico ufficiale; ovvero, ancora, quando pur in assenza di un'esplicita minaccia, il privato sia determinato a tenere un comportamento, che liberamente non avrebbe assunto, dal timore di subire un danno" (Cass., VI, 94/197095).

4.4 L'evento: la promessa o dazione

L’evento tipico del reato si compie nella promessa o dazione indebita.

La dazione si identifica nel trasferimento materiale di denaro o utilità: tipico è il caso del cittadino che consegni una somma di denaro al funzionario delle dogane per evitare un accertamento fiscale.

Ma vi rientra anche l’ipotesi della ritenzione, quando l’agente trattenga beni già ricevuti per ragioni di ufficio (ad esempio, il passaporto depositato all’ufficio immigrazione) condizionandone la restituzione al pagamento di un corrispettivo non dovuto.

La promessa, invece, consiste nell’assunzione di un obbligo futuro: non occorrono formalità né scritture, essendo sufficiente che essa risulti seria e credibile.

Si pensi allo studente universitario che, costretto da un docente, si impegni verbalmente a offrire un bene o una prestazione in cambio del superamento dell’esame.

Anche se nulla è ancora stato dato, la sola promessa integra l’evento giuridico richiesto dalla norma.

Con riferimento all'oggetto della dazione o della promessa, il legislatore fa riferimento al denaro o ad “altra utilità”.

La nozione è ampia: comprende qualsiasi vantaggio, anche non patrimoniale, purché oggettivamente apprezzabile.

Così, la giurisprudenza vi ha ricompreso:

  • i favori sessuali (Cass. pen., Sez. Unite, 30 aprile 1993, n. 7);

  • l’accrescimento del prestigio professionale (Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560);

  • vantaggi politici, se destinati al pubblico ufficiale e non alla P.A. in quanto tale (Cass. pen., Sez. VI, 22 maggio 2006, n. 21991).


4.5 Il metus publicae potestatis

Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla centralità del cosiddetto metus publicae potestatis, ossia lo stato di timore reverenziale che il cittadino normalmente nutre verso l’autorità pubblica.

Un orientamento risalente riteneva che esso fosse elemento indefettibile del reato (Cass. pen., Sez. VI, 28 luglio 1994, n. 9389). Oggi prevale l’idea che non costituisca requisito essenziale: ciò che conta non è il sentimento soggettivo della vittima, ma l’effetto oggettivo di compressione della volontà prodotto dall’abuso del funzionario. Così Cass. pen., Sez. VI, 20 gennaio 2006, n. 23776, ha chiarito che la concussione sussiste anche se il privato non prova timore personale, purché la sua decisione sia stata viziata da una pressione indebita.


4.6. La concussione ambientale

Una figura di elaborazione giurisprudenziale è la cosiddetta concussione ambientale, che ricorre quando il privato, pur senza esplicite richieste, si determina a corrispondere utilità ritenendo inevitabile adeguarsi a una prassi consolidata di corruzione.

La Cassazione, tuttavia, ha precisato che il mero “clima ambientale” non basta. Occorre che vi sia un comportamento del pubblico ufficiale che, pur tacito o implicito, esprima una pretesa riconoscibile e idonea a creare soggezione (Cass. pen., Sez. VI, 24 marzo 2005, n. 12175; Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 2009, n. 15690). Dopo la riforma del 2012, molti casi di concussione ambientale sono stati riqualificati come induzione indebita (art. 319-quater c.p.).


5. Elemento soggettivo

Il reato di concussione è sorretto da dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di abusare della propria qualità o dei poteri pubblici e di costringere la vittima alla dazione o promessa indebita.

Non è dunque richiesta una finalità ulteriore, ma è sufficiente che il pubblico agente si rappresenti l’illiceità della sua pretesa e la natura abusiva della condotta (Fiandaca–Musco, Parte speciale, I, 2002, 312).

Sul punto, la giurisprudenza ha sottolineato che non è sufficiente il mero stato di soggezione psicologica o di timore reverenziale del privato.

Occorre che l’agente esterni condotte idonee a concretizzare l’abuso e a coartare effettivamente la libertà di autodeterminazione della vittima.

In tale prospettiva, la Cassazione ha escluso la configurabilità del reato in un caso in cui un’Alta carica dello Stato, pur avendo formulato una richiesta “impropria e scorretta” nei confronti di un funzionario di polizia, non aveva accompagnato tale atteggiamento con ulteriori comportamenti intimidatori o suggestivi tali da integrare il metus publicae potestatis (Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2015, n. 22526).

Coerentemente, è stato precisato che il dolo concussivo si perfeziona tutte le volte in cui il pubblico ufficiale strumentalizza un atto proprio della funzione, pur formalmente legittimo, per perseguire fini personali illeciti.

In tale ipotesi si configura concussione, mentre ricorre l’estorsione aggravata solo quando la minaccia non si ricolleghi in alcun modo alla funzione esercitata, ponendo la qualità pubblica in un rapporto meramente occasionale con la condotta. Significativa, in questo senso, la pronuncia della Corte di Cassazione che ha ravvisato la concussione nell’uso distorto di un comportamento tipico d’ufficio, distinto dall’estorsione aggravata, che presuppone minacce completamente avulse dalle attribuzioni funzionali (Cass. pen., Sez. II, 26 febbraio 2014, n. 12736).

Ne deriva che, sotto il profilo soggettivo, la concussione non richiede soltanto l’esistenza di un timore psicologico nella vittima, ma postula l’effettivo abuso della funzione pubblica come veicolo di coazione, con la consapevolezza da parte dell’agente di piegare a scopo personale un potere conferitogli per finalità pubbliche.


6. Tentativo nel reato di concussione

Come è noto, il delitto tentato richiede, ai sensi dell’art. 56 c.p., non soltanto che gli atti posti in essere dall’agente siano idonei a realizzare l’offesa tipica, ma altresì che risultino diretti in modo non equivoco alla consumazione del reato.

Trasponendo tali principi alla fattispecie di cui all’art. 317 c.p., perché possa configurarsi un tentativo penalmente rilevante, è necessario che il pubblico ufficiale ponga in essere una condotta costrittiva specifica, immediatamente funzionale – sul piano teleologico – all’ottenimento di una determinata utilità, patrimoniale o non patrimoniale, a sé o a terzi. In altri termini, la volontà dell’agente deve manifestarsi in un nesso immediato e finalistico tra l’atto di abuso e la prestazione indebita perseguita, cosicché l’iter criminoso risulti riconoscibile come orientato in maniera univoca alla realizzazione della fattispecie incriminatrice.

Laddove questo vincolo teleologico manchi, e si versi piuttosto in presenza di un contegno genericamente prevaricatore, ancorché reiterato o tale da condizionare la vittima in un perdurante stato di soggezione, non sarà ravvisabile un tentativo di concussione. In simili ipotesi, infatti, potranno semmai configurarsi altre fattispecie incriminatrici (ad es. abuso d’ufficio, violenza privata, o – nei casi più gravi – estorsione aggravata), ma non quel peculiare reato proprio che, per definizione, esige una condotta diretta e specifica a conseguire un indebito vantaggio.

La giurisprudenza ha più volte ribadito questo criterio restrittivo. In particolare, la Corte di cassazione ha escluso che il semplice contesto ambientale di diffuso condizionamento, convenzionalmente definito “concussione ambientale”, possa di per sé integrare un tentativo di concussione, affermando la necessità di una condotta concretamente costrittiva o induttiva, specificamente rivolta a determinare la vittima alla promessa o dazione indebita. Diversamente, la mera pressione ambientale, se non accompagnata da un’azione individualizzata del pubblico ufficiale, non assume rilevanza penale ex art. 317 c.p. (Cass. pen., Sez. VI, 25 febbraio 2013, n. 11946, Cappelli, Rv. 255323 ); nello stesso senso, Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2011, n. 14544, Lozupone, Rv. 250030).

La dottrina, in linea con tale orientamento, sottolinea come il tentativo di concussione debba rimanere confinato agli episodi in cui sia riconoscibile univocamente l’intenzione dell’agente di piegare l’altrui volontà a una specifica pretesa indebita. Solo così, infatti, si giustifica l’anticipazione della soglia di punibilità ad una fase in cui l’offesa non si è ancora perfezionata con la promessa o la dazione, ma si è già concretizzata in un attacco diretto e immediato ai beni giuridici protetti dalla norma.


7. Pene accessorie

L’art. 317-bis c.p., così come riformato dapprima con la legge n. 190/2012 e poi profondamente inciso dalla l. n. 3/2019 (c.d. Spazzacorrotti), ha introdotto un regime di pene accessorie particolarmente severo per i reati contro la pubblica amministrazione.

Tale disposizione prevede, per chi sia condannato – anche come concorrente estraneo – per concussione e per le altre figure corruttive, l’applicazione automatica:

  • dell’interdizione dai pubblici uffici;

  • dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere prestazioni di natura essenziale.

La ratio è evidente: impedire che soggetti che abbiano tradito la funzione pubblica o interferito indebitamente con essa possano nuovamente assumere ruoli o rapporti fiduciari con l’amministrazione, frustrando così ogni possibilità di reiterazione dell’abuso.

La novella del 2019 ha inciso sotto più profili:

  • estensione del catalogo dei reati per i quali si applicano le pene accessorie, includendo non solo concussione e corruzione, ma anche induzione indebita (art. 319-quater c.p.), traffico di influenze illecite (art. 346-bis c.p.) e le ipotesi corruttive in atti giudiziari;

  • introduzione del divieto di contrattare con la P.A. accanto all’interdizione dai pubblici uffici;

  • abbassamento della soglia di temporaneità a due anni di reclusione, con conseguente maggiore difficoltà di elidere l’effetto perpetuo;

  • modulazione della durata dell’interdizione e dell’incapacità, rendendo inapplicabile l’art. 37 c.p. e cristallizzando in via autonoma i termini minimi e massimi.

L’impianto è chiaramente volto ad accentuare la funzione preventiva e simbolica delle pene accessorie, ponendole sullo stesso piano della sanzione principale.

Le pene accessorie in materia di concussione sono qualificate dalla dottrina come sanzioni di carattere “misto”, in quanto al contempo afflittive e preventive.

Esse hanno il compito di recidere il legame fiduciario che deve sussistere tra amministrazione e funzionario, ma anche di trasmettere alla collettività un messaggio di intolleranza verso pratiche di mercimonio della funzione pubblica.

La Cassazione ha chiarito che si tratta di conseguenze necessarie e automatiche della condanna, sottratte alla discrezionalità del giudice, salvo le ipotesi di temporaneità (Cass. pen., Sez. VI, 28 aprile 2015, n. 17547).

In questa prospettiva, il legislatore ha inteso rafforzare l’idea che la corruzione e la concussione non sono meri reati patrimoniali, ma vere e proprie offese al patto costituzionale di lealtà tra Stato e cittadino.

Le pene accessorie in esame si applicano non solo al pubblico ufficiale concussore, ma anche al privato concorrente, in coerenza con la natura plurioffensiva del reato.

Esse, in linea generale, assumono carattere perpetuo, ma possono degradare a temporanee quando:

  • la condanna non superi i due anni di reclusione;

  • ricorra la circostanza attenuante speciale di cui all’art. 323-bis c.p. (fatto di particolare tenuità).

La giurisprudenza ha puntualizzato che, in tali casi, il giudice è tenuto a modulare la durata della pena accessoria secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., e non automaticamente in misura corrispondente alla pena principale (Cass. pen., Sez. VI, 23 aprile 2020, n. 16508).

È stato altresì affermato che le pene accessorie trovano applicazione anche nel caso di reato tentato, atteso che la ratio del legislatore è quella di escludere dalla vita pubblica chiunque abbia posto in essere condotte lesive del bene giuridico protetto, a prescindere dal grado di perfezione del fatto (Cass. pen., Sez. VI, 3 marzo 2005, n. 9204).


8. Cenni storici sul reato di concussione

Il delitto di concussione ha da sempre rappresentato, nella tradizione penalistica italiana, una figura di confine: collocata sistematicamente tra i delitti contro la pubblica amministrazione, esso non si lascia ridurre, come avviene in altri ordinamenti (si pensi a quello tedesco o a quello spagnolo), a una mera species dell’estorsione.

Tale opzione legislativa risponde alla sua natura plurioffensiva, capace di incidere non solo sulla correttezza e sull’imparzialità della funzione pubblica, ma anche sulla libertà di autodeterminazione e sul patrimonio del singolo.

La storia normativa della concussione, quindi, è lo specchio dei mutamenti politico-istituzionali del Paese: dal liberalismo ottocentesco al dirigismo autoritario fascista, fino alla democrazia repubblicana e all’armonizzazione europea.

Ogni passaggio riflette un diverso modo di intendere il rapporto tra Autorità e cittadino, oscillante tra tutela dell’individuo e protezione dell’istituzione.


8.1 Il codice Zanardelli

Il codice Zanardelli, ispirato al codice toscano del 1853, disciplinava la concussione agli artt. 169 e 170, distinguendone tre forme:

  • la concussione per costrizione (o “violenta”), più gravemente sanzionata, che puniva il pubblico ufficiale che, abusando della funzione, costringeva taluno alla promessa o dazione indebita;

  • la concussione per induzione (o “fraudolenta”), meno severamente punita, caratterizzata dall’assenza di coercizione, essendo sufficiente che il pubblico ufficiale orientasse o suggestionasse il privato;

  • la concussione negativa, di minor gravità, che si configurava nel caso in cui l’agente si limitasse a ricevere quanto non dovuto, approfittando dell’errore altrui.

Era, inoltre, prevista l’attenuante della lieve entità della somma o dell’utilità conseguita.

Tale disciplina rispecchiava l’impostazione liberale dell’epoca, nella quale la tutela del patrimonio e della libertà individuale del privato conviveva con l’esigenza di proteggere la regolarità dell’azione amministrativa.

Non a caso la dottrina del tempo qualificava la concussione come strumento volto ad “evitare lo spoglio dell’altrui patrimonio mediante incussione di timore ed inganno”, avvicinandola concettualmente all’estorsione e alla truffa, sebbene aggravata dalla qualità pubblica dell’autore.


8.2 Il codice Rocco

Con il codice Rocco il reato venne ricondotto a un’unica disposizione, l’art. 317 c.p., che incriminava in forma indistinta tanto la condotta costrittiva quanto quella induttiva, accomunandole sotto la medesima cornice edittale:

“Il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa non inferiore a lire seicentomila”.

Scompaiono la distinzione tra forme esplicite e implicite e l’attenuante della lieve entità; la concussione “negativa” confluisce invece nell’autonomo reato di peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.).

Questa scelta rifletteva la logica autoritaria del regime fascista: il rapporto tra Stato e cittadino si capovolgeva, con la prevalenza dell’Autorità sulla libertà individuale.

Il pubblico ufficiale non era più concepito come semplice garante della legalità, ma come espressione di una potestà sovraordinata, la cui infedeltà assumeva una gravità particolare.

Di qui l’inasprimento sanzionatorio e la soppressione di ogni temperamento che potesse attenuare la repressione delle condotte prevaricatrici.


8.3 La riforma del 1990

La legge 26 aprile 1990, n. 86 segnò un primo passo verso l’attualizzazione della disciplina.

L’art. 317 c.p. venne esteso agli incaricati di pubblico servizio, superando l’originaria limitazione ai soli pubblici ufficiali.

La ratio di tale scelta risiedeva nell’evoluzione della pubblica amministrazione, ormai caratterizzata da una crescente esternalizzazione di funzioni e da un ampliamento dei servizi gestiti da soggetti non formalmente investiti di potestà autoritative, ma comunque in grado di condizionare la libertà del privato.

Il legislatore, tuttavia, optò per una soluzione conservatrice: non modificò la struttura della fattispecie, mantenendo l’alternatività tra costrizione e induzione, e si limitò a introdurre alcuni correttivi formali (sostituzione della locuzione “funzioni” con “poteri”; reintroduzione dell’attenuante della particolare tenuità ex art. 323-bis c.p.). C

osì, le attese di una riforma più incisiva – prospettata da diversi progetti di legge (Azzaro, Vassalli, Martinazzoli) – rimasero deluse.


8.4 La cd. "legge anticorruzione" del 2012

La legge 6 novembre 2012, n. 190 – c.d. anticorruzione – introdusse la svolta più radicale.

Rispondendo a sollecitazioni interne (il diffondersi del fenomeno corruttivo) e internazionali (Convenzione di Merida, Convenzione penale del Consiglio d’Europa, rilievi del GRECO e dell’OCSE), il legislatore ristrutturò profondamente la materia.

Le principali innovazioni furono:

  • la restrizione della concussione al solo caso di costrizione, con esclusione dell’incaricato di pubblico servizio dal novero dei soggetti attivi;

  • la scissione della condotta di induzione in un autonomo reato, l’“induzione indebita a dare o promettere utilità” (art. 319-quater c.p.), con soggettività attiva estesa anche agli incaricati di pubblico servizio e punibilità del privato che aderisca alla richiesta;

  • l’inasprimento della cornice edittale per la concussione (reclusione da sei a dodici anni).

La ratio dichiarata della riforma – come sottolineato dal Guardasigilli nelle discussioni parlamentari – era distinguere l’ipotesi della costrizione assoluta, ove il privato è vittima, da quella della induzione, ove permane un margine di scelta che giustifica la punibilità anche dell’extraneus.

In tal modo si è riproposta, sia pure in forme nuove, la distinzione già presente nel codice Zanardelli, ma con un significativo mutamento di prospettiva: mentre nel 1889 l’induzione era considerata una forma attenuata di concussione, oggi è sanzionata come reato autonomo, con un trattamento che coinvolge anche il privato.

Da ultimo, la legge n. 69/2015 ha reinserito gli incaricati di pubblico servizio fra i soggetti attivi della concussione.



9. Il discrimen tra i delitti di tentata concussione ed istigazione alla corruzione

La linea di confine tra i delitti di tentata concussione e di istigazione alla corruzione è stata a lungo oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza.

Un primo e risalente orientamento aveva individuato il criterio distintivo nell’“iniziativa”, ravvisando la corruzione laddove l’impulso originario provenisse dal privato e la concussione laddove provenisse dal pubblico ufficiale (Cass., 14 febbraio 1947). Tale impostazione, tuttavia, è stata oggetto di fondate critiche, poiché eccessivamente ancorata alla “prima mossa”, elemento in sé non decisivo per accertare se le parti abbiano liberamente contrattato un esito illecito comune ovvero se il privato abbia agito sotto l’impropria pressione di un abuso di potere.

La giurisprudenza successiva ha progressivamente abbandonato tale prospettiva, approdando a un criterio più sostanziale: il fulcro discriminante risiede nella presenza o meno del metus publicae potestatis, ossia in quello stato di soggezione psicologica, intimidazione o timore che il pubblico ufficiale è in grado di ingenerare nel privato grazie alla posizione sovraordinata ricoperta (Cass., Sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 215639; Cass., 29 aprile 1998, n. 211708; Cass., 26 agosto 1997, n. 209754).

La Suprema Corte ha ulteriormente puntualizzato che la concussione – anche nella forma tentata – si caratterizza per l’abuso della qualità o dei poteri mediante cui l’agente pubblico invade la sfera di autodeterminazione del privato, condizionandone la libertà decisionale e producendo una concreta situazione di soggezione (Cass., Sez. VI, 17 marzo 2000, n. 217116; Cass., 30 marzo 1999, n. 214152; Cass., 28 maggio 1996, n. 205009; Cass., 26 marzo 1996, n. 204790).

Non è, di per sé, decisivo stabilire se il privato abbia conseguito o meno un vantaggio dall’azione del funzionario. È principio ormai consolidato, infatti, che l’agevolazione del privato non esclude la sussistenza della concussione, potendo coesistere utilità per entrambe le parti a fronte di un iniziale abuso costrittivo da parte del pubblico ufficiale (Cass., Sez. VI, 20 ottobre 2000, n. 218285; Cass., 30 marzo 1999, n. 212152; Cass., 17 dicembre 1996, n. 206226).

Sul piano applicativo, è stato opportunamente chiarito che, ai fini della configurabilità della concussione tentata, il metus publicae potestatis non si identifica con la generica posizione gerarchica o di supremazia del pubblico ufficiale, ma richiede una condotta dotata di ragionevole valenza intimidatoria, tale da determinare nel destinatario una pressione effettiva – e non meramente potenziale – sulla formazione della sua volontà (Trib. Catanzaro, Sez. II, 29 dicembre 2008).

In definitiva, il discrimen tra tentata concussione e istigazione alla corruzione non può essere rintracciato nella mera iniziativa delle parti, né nella convenienza economica che il privato può aver tratto dall’accordo. Esso va invece individuato nel nucleo essenziale del reato di concussione: l’abuso della funzione pubblica come strumento di coartazione psichica, capace di ridurre la libertà negoziale del privato sino a condurlo, anche solo in via potenziale, alla promessa o dazione indebita.


10. La differenza tra concussione e induzione indebita

La distinzione tra il delitto di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità costituisce uno dei nodi più problematici della moderna dogmatica penalistica.

La svolta interpretativa è stata segnata dalla nota sentenza Maldera delle Sezioni Unite (Cass., Sez. U, 24 ottobre 2013, dep. 2014, n. 12228, Rv. 258470), che ha definitivamente chiarito come l’elemento strutturale della concussione sia rappresentato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale.

In tale figura criminosa l’agente, abusando della propria qualità o dei poteri, esercita una pressione di natura coattiva, attuata attraverso violenza (non necessariamente assoluta) o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius. Il privato, posto di fronte all’alternativa di subire un male ingiusto o evitarlo con la promessa o la dazione indebita, vede gravemente compromessa la propria libertà di autodeterminazione, senza conseguire alcun vantaggio indebito.

Diversa è la logica che sorregge l’art. 319-quater c.p., ove la condotta dell’agente si traduce in persuasione, suggestione o pressione morale attenuata, idonea a indurre il privato a conformarsi alla richiesta, non già per timore di un danno immediato e antigiuridico, ma nella prospettiva di conseguire un possibile favore o di evitare conseguenze sfavorevoli non in senso stretto illecite.

La dimensione coattiva lascia qui il passo a un meccanismo di induzione, in cui permane un margine – seppur ridotto – di scelta per il soggetto privato.

Particolare delicatezza interpretativa presenta l’ipotesi di abuso della qualità, cioè quando il pubblico ufficiale si avvalga della propria posizione soggettiva senza collegarla a uno specifico atto d’ufficio.

In tali circostanze, l’atteggiamento dell’agente può assumere una duplice valenza: generare uno stato di soggezione pressoché assoluta, assimilabile alla costrizione, ovvero orientare il privato a cedere per ottenere benevolenza e futuri favori, connotato tipico dell’induzione.

La linea di confine, come sottolinea la giurisprudenza, non può essere tracciata attraverso automatismi, ma richiede una valutazione complessiva della dinamica comunicativa tra intraneus ed extraneus e degli effetti prodotti sulla sfera volitiva di quest’ultimo.

Non a caso, la stessa sentenza Maldera ha sottolineato che lo stato di costrizione non va inteso in termini meramente psicologico-descrittivi, ma come concetto normativo, da ricostruire sulla base di coefficienti oggettivi: assume rilievo, in particolare, la prospettazione di un danno antigiuridico da parte del pubblico ufficiale e la radicale estraneità del vantaggio indebito rispetto alla sfera delle motivazioni lecite del privato.

Da ciò deriva la regola di giudizio: quando il pubblico ufficiale minaccia l’esercizio sfavorevole del proprio potere discrezionale, non per finalità pubbliche ma per costringere il privato alla prestazione indebita, si ricade nell’alveo della concussione. In tale ipotesi il soggetto passivo si piega all’abuso per scongiurare un danno ingiusto.

Al contrario, quando il privato, pur in una condizione di soggezione, conserva un margine di scelta e aderisce alla richiesta per conseguire vantaggi futuri o per evitare un pregiudizio non antigiuridico, la fattispecie corretta è quella di induzione indebita.

È dunque chiaro come concussione e induzione, pur condividendo la struttura di reati da prevaricazione, si collochino su piani diversi: la prima si nutre di un abuso costrittivo, capace di annullare la libertà di autodeterminazione; la seconda si fonda su una pressione persuasiva, che limita ma non sopprime del tutto la possibilità di resistere.

Entrambe si distinguono, infine, dalle ipotesi corruttive, nelle quali prevale la logica del sinallagma illecito e dell’incontro paritario – seppur deviante – delle volontà.


Fonti:

Triunci, Art. 317 Codice Penale - Concussione; Amato, Quale discrimen tra corruzione e concussione?, in Cass. pen., 1998, 2918; Amato, Concussione: resta solo la condotta di “costrizione”, in Guida dir., 2012, n. 48, 14; Balbi, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. cont., 2012, nn. 3-4, 11; Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, in G. Marinucci-E. Dolcini (a cura di), Trattato di diritto penale, parte speciale, Padova, 2001; Bottiglioni, L'estensione all'incaricato di un pubblico servizio della qualità di soggetto attivo nel delitto di concussione: un'ipotesi implicita di concussione ambientale?, in Indice pen., 1994, 398; Chiarotti, Concussione, in Enc. dir., VII, Milano, 1961, 706; Dolcini-Viganò, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. cont., 2012, n. 1, 243; ; Gatta, Riforme della corruzione e della prescrizione del reato: il punto sulla situazione, in attesa dell’imminente approvazione definitiva, in Dir. pen. cont., 17 dicembre 2018;Padovani, Il confine conteso. Metamorfosi dei rapporti tra concussione e corruzione ed esigenze «improcrastinabili» di riforma, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 1302; Palazzo, La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali: primo sguardo d'insieme, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, 824; Palazzo, Concussione, corruzione e dintorni: una strana vicenda, in Dir. pen. cont., 2012, n. 1, 227;Pedrazzi, La promessa del soggetto passivo come evento nei delitti contro il patrimonio, in Riv. it. e proc. pen., 1952, 350; Prontera, Osservazioni in tema di distinzione tra concussione e truffa aggravata ex art. 61, n. 9 c.p., in Indice pen., 1998, 1027; Pulitanò, Legge anticorruzione (L. 6 novembre 2012, n. 190), in Cass. pen., supplemento al volume LII, 2012; Ravagnan, La concussione, in D'Avirro (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Padova, 1999; Ronco, Sulla differenza tra corruzione e concussione: note tra ius conditum e ius condendum, in Giust. pen., 1998, 690; Segreto-De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999; Spadaro-Pastore, Legge anticorruzione (l. 6 novembre 2012, n. 190), Milano, 2012; Venditti, Corruzione (Delitti di), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 762.


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