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Concussione: la durata dell'interdizione dai p.u. va determinata considerando il disvalore del fatto


Corte di Cassazione

La massima

In tema di pene accessorie, il giudice è tenuto a determinare la durata dell'interdizione dai pubblici uffici, in caso di condanna per uno dei delitti di cui all' art. 317-bis c.p. , modulandola in correlazione al disvalore del fatto di reato e alla personalità del responsabile ai sensi dell' art. 133 c.p. , sicché la stessa non deve necessariamente essere pari alla durata della pena principale (Cassazione penale , sez. VI , 27/05/2020 , n. 16508).



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 27/05/2020 , n. 16508

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, il Tribunale di Milano ha applicato a C.A. la pena di anni tre e mesi dieci di reclusione in relazione a molteplici episodi di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, falso ideologico in atto pubblico, accesso a un sistema informatico e procurata inosservanza di pena. C. è stato, inoltre, dichiarato interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.


2. Avverso la sentenza ricorre per cassazione il difensore di fiducia deducendo la violazione dell'art. 317-bis c.p., comma 2 in relazione alla mancanza di motivazione della durata della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, che, nel caso di specie, essendo stata riconosciuta a C. l'attenuante di cui all'art. 323-bis c.p., comma 2, andava quantificata nell'ambito della cornice edittale stabilita dall'art. 317-bis c.p..


3. Il Procuratore Generale presso questa Corte in data 27 febbraio 2020 ha rassegnato le proprie conclusioni scritte ex art. 611 c.p.p. chiedendo l'inammissibilità del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere annullata limitatamente alla durata della pena accessoria con rinvio al Tribunale di Milano per nuovo giudizio sul punto.


2. Va premesso che, a mente dell'art. 448 c.p.p., comma 2-bis, novellato dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, l'imputato può proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza.


Il caso di specie, tuttavia, non ricade nell'alveo precettivo della norma appena citata, posto che la pena accessoria oggetto di impugnazione non ha formato oggetto di accordo tra le parti (argomento da Sezioni Unite del 26/09/2019, Savin, informazione provvisoria n. 19, motivazione in corso di deposito).


Ferma la proponibilità astratta dell'impugnazione, appare utile tracciare dapprima il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento delle pene accessorie e successivamente affrontare la questione specifica della motivazione delle pene accessorie in caso di patteggiamento ove la pena accessoria non faccia parte del patto.


3. Con la sentenza Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014 (dep. 12/02/2015), B., Rv. 262328, sono state ritenute riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata doveva essere dal giudice uniformata, ai sensi dell'art. 37 c.p., a quella della pena principale inflitta.


La fissazione di questo principio non era che la diretta conseguenza della configurazione delle pene accessorie come effetti penali, legali, della sentenza di condanna e, come tali, sottratti a qualsiasi infiltrazione di discrezionalità giudiziale che investa l'an della loro applicazione o il quantum della loro durata.


3.1. La sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo la L. Fall., art. 216, u.c., nella parte in cui prevedeva che la condanna per uno dei fatti da essa contemplati comportava per una durata fissa di anni dieci l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, inserendo nella disposizione, per renderla compatibile con il quadro dei principi che devono informare le sanzioni penali, l'avverbio "sino" a un massimo di dieci anni; l'esito è stato la trasformazione della pena accessoria fissa in pena di durata. La sentenza in questione, ha, quindi, cercato di adeguare al quadro dei principi che devono informare le sanzioni penali anche le pene accessorie reclamando la necessità di una loro individualizzazione.


Il "suggerimento" espresso dalla Corte costituzionale di affidare la determinazione della durata della pena accessoria alla discrezionalità del giudice è, per così dire, diretta conseguenza della tensione ideale che percorre la sentenza n. 222/2018: l'esigenza, costituzionalmente imposta, della doverosa individualizzazione di ogni tipo di sanzione non si arresta alla denuncia dell'incostituzionalità della pena accessoria della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità di esercitare uffici direttivi, nella misura fissa di dieci anni; ma, una volta corretto il dettato legislativo con l'inserimento dell'avverbio sino a dieci anni, si spinge oltre, fino a coinvolgere anche i criteri di quantificazione di queste pene per rendere davvero effettiva l'individualizzazione.


Diversamente opinando, l'individualizzazione della sanzione accessoria sarebbe raggiunta solo a metà. La Corte costituzionale critica perciò il ricorso all'art. 37 c.p. osservando in proposito come la scelta di ancorare la durata concreta delle pene accessorie a quella della pena principale inflitta "finirebbe per sostituire l'originario automatismo legale con un diverso automatismo, che rischierebbe altresì di risultare distonico rispetto al legittimo intento del legislatore storico di colpire in modo severo gli autori dei delitti di bancarotta fraudolenta, considerati a buon diritto come gravemente lesivi di interessi, individuali e collettivi, vitali per il buon funzionamento del sistema economico".


La Corte costituzionale, infrangendo un caposaldo della disciplina delle pene accessorie, suggerisce che trattandosi di pene, pur di afflittività meno marcata rispetto alla pena detentiva, la loro durata vada fissata discrezionalmente dal giudice facendo riferimento, come per tutte le altre pene, ai criteri dell'art. 133 c.p..


Il Giudice delle leggi, quindi, non si è limitato a censurare dal punto di vista costituzionale le pene accessorie di durata fissa, ma si è spinto oltre sino a indicare che la loro durata sia determinata discrezionalmente dal giudice.


3.2. In questo contesto si pone la recente sentenza delle Sezioni unite (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286) che ha fatto propria l'interpretazione data alla L. Fall., art. 216, u.c., dalla sentenza della Corte costituzionale escludendo, dopo attento e scrupoloso vaglio, che la durata possa essere determinata in base all'art. 37 c.p..


La sentenza delle Sezioni unite in esame si discosta, quindi, dopo solo quattro anni, in maniera decisa e argomentata dall'enunciazione di un principio di diritto fissato proprio dalle stesse Sezioni unite su un analogo caso. L'impulso a tale interpretazione, come già rilevato, è dato sicuramente dalla sentenza n. 222/2018 della Corte costituzionale, che assurge a elemento legittimante questo deciso mutamento di rotta.


4. Ciò premesso, e ritornando al caso di specie, deve osservarsi che si verte in ipotesi di c.d. "patteggiamento allargato" (la pena applicata è superiore a due anni di reclusione) e dunque ricorre quella editio maior che - a parte la clausola di equiparazione della sentenza ex art. 444 c.p.p. a una pronuncia di condanna ex art. 445 c.p.p., comma 1-bis, ultima parte - "comporta l'obbligo del pagamento delle spese processuali, l'applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza" (Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518).


L'art. 317-bis c.p., comma 2, come modificato dalla L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 1, lett. m) stabilisce che la condanna per il reato di cui all'art. 319 c.p., quando ricorre come nel caso in esame la circostanza attenuante prevista dall'art. 323-bis c.p., comma 2, importa le sanzioni accessorie di cui al comma 1 per una durata non inferiore ad un anno nè superiore a cinque anni.


Nel caso di specie deve, quindi, trovare applicazione la norma così come novellata in quanto più favorevole, poichè il testo dell'art. 317-bis c.p. in vigore all'epoca di commissione dei fatti prevedeva nel caso di condanna a pena non inferiore a tre anni di reclusione l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.


4.1.Deve ora chiedersi se, pur operando la pena accessoria ex lege, in quanto estranea al patto intercorso tra le parti, l'applicazione della stessa necessiti di adeguata motivazione da parte del giudice.


Rileva il Collegio che, nell'ipotesi in cui il giudice disponga una statuizione sulla quale le parti non hanno convenuto nulla, il potere di impugnazione non può non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento e ciò trova il proprio fondamento giustificativo nella norma generale di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, (argomento da Sezioni Unite del 26/09/2019, Savin, informazione provvisoria n. 19, motivazione in corso di deposito). Un potere di impugnazione, dunque, conformato sul tipo di statuizione e sul rapporto tra quest'ultima e il contenuto del patto (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, Lika, Rv. 273830; Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018, Daouk, non mass.).


In altre parole, il giudice che disponga, con una sentenza di patteggiamento una statuizione non concordata ha l'onere di motivare specificatamente sul punto e la decisione è impugnabile con il ricorso per cassazione anche per vizio di motivazione.


4.2. Nel caso di specie, il Tribunale di Milano si è limitato a sostenere che "trattandosi di patteggiamento allargato, l'imputato va condannato alle spese del procedimento e alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque".


Così facendo è stata integralmente omessa la motivazione che ha portato in concreto i Giudici ad applicare la pena accessoria nella sua durata massima a fronte, peraltro, del riconoscimento di un importante apporto collaborativo del C., che gli ha concesso di beneficiare della relativa attenuante nella sua massima estensione.


Deve osservarsi che - alla luce della sentenza a Sez. U. Suraci - la piena realizzazione dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell'ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell'episodio criminoso e dei parametri dell'art. 133 c.p., di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione.


Si è detto che l'art. 317-bis, prevede nell'ipotesi in cui la condanna inflitta all'imputato non sia inferiore a tre anni di reclusione e a quest'ultimo sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis c.p., comma 2 che la durata della pena accessoria non sia inferiore ad un anno, nè superiore a cinque anni.


Il Tribunale di Milano, senza fare alcun riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., come previsto dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, ha, invece, seccamente applicato l'interdizione temporanea dai pubblici uffici nella misura di anni cinque, senza svolgere alcun apprezzamento di fatto in ordine alla congruità della pena accessoria, così viziando la sentenza impugnata.


4.La sentenza deve, pertanto, essere annullata limitatamente alla pena accessoria e rinviata per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Milano.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria e rinvia per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Milano.


Così deciso in Roma, il 27 maggio 2020.


Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020



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