La massima
Non integra gli estremi del delitto di concussione la condotta di chi remunera una persona informata sui fatti per le false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, non rivestendo detta persona la qualifica di pubblico ufficiale (Cassazione penale , sez. VI , 30/05/2018 , n. 39280).
Fonte: CED Cassazione Penale 2019
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La sentenza integrale
Cassazione penale sez. VI, 30/05/2018, (ud. 30/05/2018, dep. 30/08/2018), n.39280
RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di fiducia di C.P.G. propone tempestivo ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe, con cui la Corte d'appello di Torino, pronunciando sulle contrapposte impugnazioni formalizzate dal P.G. in sede e dall'imputato, ha confermato la declaratoria di colpevolezza di quest'ultimo, in relazione ai reati di corruzione di persona escussa a s.i.t. dalla G.d.F. e concorso in emissione di fatture per operazioni inesistenti - di cui, rispettivamente, ai capi b) e c) della rubrica - pur riducendo la pena relativa in aumento, ferma la già disposta unificazione per continuazione con altri fatti illeciti oggetto di pregressa condanna definitiva, a mesi otto di reclusione ed Euro 400,00 di multa (m. 4 ed Euro 200,00 per ciascun reato), per una pena definitiva totale pari ad anni quattro, mesi dieci di reclusione ed Euro 4.400,00 di multa.
2. Censura il legale ricorrente, in primo luogo, la ritenuta inammissibilità del motivo d'appello proposto in relazione alla condanna per corruzione: pur dando atto che, effettivamente, l'atto di gravame depositato mancava di una pagina, nondimeno "la sintetica motivazione residua era sufficiente a giustificare l'appello", giacchè la Corte distrettuale avrebbe dovuto tener conto dell'erronea formulazione del capo d'imputazione, come tale rilevabile d'ufficio, in ragione dell'assenza di uno degli "elementi strutturali" del reato contestato, vale a dire la qualità di pubblico ufficiale in capo al soggetto corrotto, E.D., peraltro neppure qualificabile come testimone, stante "il diritto di tacere e di mentire in base all'elementare principio nemo tenetur se detegere" riconoscibile al predetto E., quale soggetto emittente della falsa fattura oggetto delle domande rivoltegli dalla p.g., al di là della sua non perseguibilità penale, per mancato raggiungimento della soglia di rilevanza prescritta. Donde la conclusione che "non si è trattato... di una corruzione di teste ma dell'accordo di due correi sulla versione da offrire agli inquirenti", non essendo quindi configurabili nè il reato previsto e punito dall'art. 377 c.p., nè quello di cui all'art. 377 bis dello stesso codice.
Secondariamente, il difensore medesimo deduce violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), "in relazione agli artt. 133 e 62 bis c.p.", stante il ritenuto carattere "immotivato" del diniego delle attenuanti generiche, alla stregua del comportamento processuale dell'imputato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La fondatezza del solo primo motivo d'impugnazione comporta l'annullamento della sentenza impugnata, ovviamente circoscritto alla statuizione di colpevolezza oggetto di doglianza.
2. Il primo rilievo che s'impone è che, in conformità alla sintesi di cui sopra, la sentenza della Corte torinese si è risolta nel parziale accoglimento dell'appello a suo tempo proposto nell'interesse del C., limitatamente alla residuale censura in tema di trattamento sanzionatorio.
Logico corollario di quanto precede è che, al di là della ritenuta inammissibilità dello specifico motivo di gravame inerente alla corretta qualificazione giuridica del fatto contestato al capo b) della rubrica - tale valutata per via della mancata allegazione delle ragioni a base della tesi patrocinata, obiettivamente comprovata dalla materiale assenza della terza delle quattro facciate di cui si compone l'atto di appello de quo - in ogni caso la Corte territoriale, come sostanzialmente eccepito dalla difesa del ricorrente, era tenuta a prestare ossequio al disposto dell'art. 129 c.p.p., comma 1, là dove riconosce al giudice il diritto-dovere di rilevare l'assenza degli elementi costitutivi del reato per cui si procede.
In proposito, i dati fattuali di riferimento non possono che essere quelli posti dal Tribunale di Ivrea a fondamento della ricostruzione della vicenda, rimasta inalterata all'esito della pronuncia della sentenza impugnata; dati di cui è pertanto opportuna la sintesi, nei termini che seguono.
3. Dunque, è pacifico che l'intera e più ampia vicenda processuale ruota intorno alle indagini che, a seguito di segnalazione del 5 novembre 2009 proveniente dal Nucleo speciale polizia valutaria di Roma, furono avviate dalla Guardia di Finanza di Ivrea sul conto della società KOHA s.r.l., avente sede nella cittadina piemontese ed operante nel settore della compravendita di spazi pubblicitari relativi a competizioni automobilistiche.
Dette indagini sfociarono nella redazione di un'informativa in cui s'ipotizzavano reati tributari, sotto forma di emissione di fatture per operazioni inesistenti, e di riciclaggio a carico dei soggetti coinvolti nella gestione della menzionata società (era ipotizzata altresì, per via della durata e delle modalità di svolgimento delle indagini stesse, anche l'avvenuta commissione di un reato di corruzione, poi rivelatosi insussistente alla stregua della convergente decisione dei giudici di primo e secondo grado, avente quali protagonisti i componenti della pattuglia di militari inizialmente incaricati della verifica nei confronti della KOHA s.r.l., nonchè il C., che alle operazioni medesime aveva partecipato quale delegato dell'originario legale rappresentante della società).
Di qui l'intreccio con i paralleli accertamenti condotti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Rimini, innanzi alla quale la locale Agenzia delle Entrate aveva formalizzato, nel novembre 2011, "notizia di reato per operazioni inesistenti relative a corse di rally", con conseguente apertura di un procedimento penale per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2,5,8 e 10 di riciclaggio ed associazione per delinquere, che consentiva l'emersione di molteplici collegamenti dei soggetti ivi implicati con società della zona di Ivrea, fra cui giusto la KOHA s.r.l..
3.1 Il filone riminese delle indagini si concludeva - per quanto qui d'interesse - con l'emissione di sentenza di applicazione della pena del 20.12.2012, passata in cosa giudicata, nei confronti di tre dei principali imputati, ossia per l'odierno ricorrente C.P.G., tramite dei succitati collegamenti con le "cartiere" piemontesi, C.C. e E.D.A., per quest'ultimo, titolare della ditta individuale IDEA, in relazione (altresì) al reato di favoreggiamento personale posto in essere a beneficio del predetto C., mediante le false dichiarazioni rese alla G.d.F. di Ivrea, da cui era stato escusso nelle date del (OMISSIS).
Sul versante piemontese dell'inchiesta, rilevano nella presente sede i fatti di cui ai capi b) e c) della rubrica.
Più precisamente, quest'ultima imputazione - per la quale il ricorrente è confesso, donde il ristretto ambito del devoluto - inerisce alle fatture per operazioni inesistenti emesse dalle società ivi indicate, tutte amministrate di fatto dal C., a favore della Cooperativa San Michele, al fine di consentire a tale soggetto l'evasione delle imposte sui redditi ed ai fini I.V.A.. L'addebito sub b) ha invece ad oggetto la remunerazione corrisposta dal C. all' E., all'esito delle due audizioni del marzo 2012 in precedenza menzionate.
3.2 A tale ultimo riguardo - che solo rileva ai fini della presente decisione, al di là della più ampia premessa di tipo meramente conoscitivo che precede - va da subito puntualizzato che nessun elemento consente di affermare che la falsità delle dichiarazioni rilasciate dall' E. fosse stato oggetto di un preventivo e prezzolato accordo raggiunto con l'odierno ricorrente, di cui pure parla, del tutto impropriamente e genericamente, l'atto d'impugnazione. Al contrario, anzi, i giudici del Tribunale di Ivrea sono espliciti nel significare, per un verso, che fu il detto E., successivamente alla sua audizione, a contattare telefonicamente il C. (di cui aveva nel frattempo appreso il reale e significativo ruolo ricoperto in seno ai fatti, globalmente considerati), al quale rappresentò di aver detto il falso, quanto all'inesistente trasporto per cui aveva emesso una fittizia fattura; per altro verso, che fu l'anzidetto C., nel medesimo contesto, a manifestare la volontà di esprimere concreta gratitudine al proprio interlocutore ("nessun cane muove la coda per niente").
4. Tanto premesso, è da escludere, conformemente alla prospettazione difensiva, che all' E. vada riconosciuta la veste di pubblico ufficiale.
Se risponde a verità, infatti, che tale qualità compete al testimone, che l'acquista al momento della citazione, conservandola anche successivamente alla sua audizione, sino alla definizione del processo (cfr. Sez. 6, sent. n. 25150 del 03.04.2013, Rv. 256809), siffatto discorso non si attaglia alla persona informata sui fatti.
Invero, il testimone contribuisce, con la propria deposizione, alla formazione del convincimento del giudice, da ciò discendendo l'esigenza di tutelarne la libertà di deporre e la sincerità delle dichiarazioni, in ultima analisi, lo stesso prestigio della sua persona (v. in tal senso già Sez. 6, sent. n. 6406 del 10.05.1996, Rv. 205102); il che si correla al disposto dell'art. 357 c.p. e dà ragione dell'acquisizione della relativa qualità, in coincidenza con il provvedimento che abbia disposto l'ammissione della prova e comunque la citazione del soggetto indicato (cfr. Sez. 1, sentenza n. 15542 del 16.02.2001, Rv. 219262).
Così non è per la persona informata sui fatti, il cui contributo conoscitivo si colloca nella fase delle indagini preliminari, dunque in un momento in cui è ancora fluida l'acquisizione del materiale probatorio, che s'ignora addirittura se condurrà al rinvio a giudizio dell'indagato/imputato. Con la ovvia puntualizzazione che appunto in tale veste - conformemente al tenore dell'accusa cristallizzata nel capo d'imputazione in esame - fu sentito l' E., risultando dal ricorso che la falsa fattura dallo stesso rilasciata si collocava al di sotto della soglia di rilevanza prevista dalla norma incriminatrice penai-tributaria.
Nè potrebbe farsi luogo ad un indebito ampliamento della sfera di operatività del disposto dell'art. 357 c.p., vigendo in ambito penale il divieto di analogia in malam partem.
D'altra parte, è per certo indicativo che non valga ad integrare il reato di false informazioni al pubblico ministero, ex art. 371 bis c.p., la condotta di colui che non riveli quanto a sua conoscenza alla polizia giudiziaria, ancorchè la stessa abbia proceduto alla sua audizione su delega del magistrato titolare delle indagini, atteso che soggetto attivo del reato di cui trattasi è solo chi sia richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni utili ai fini delle indagini (cfr. sez. 5, sent. n. 37306 del 14.07.2010, Rv. 248641). Mentre sotto altro profilo, ancora diverso, è stato convincentemente affermato che proprio la fattispecie prevista e punita dal succitato art. 371 bis c.p. è stata introdotta nell'ordinamento allo scopo di colmare la lacuna derivante dalla mancata previsione della possibilità di perseguire penalmente chi abbia reso dichiarazioni false o reticenti al pubblico ministero (v. Sez. 6, sent. n. 5255 del 17.02.2000, Rv. 216139).
5. La già illustrata ricostruzione dei fatti non consente di pervenire, neppure sotto altro profilo, ad una loro difforme qualificazione giuridica.
Al di là della considerazione difensiva in ordine alla natura di reato di evento propria della fattispecie di cui all'art. 377 bis c.p., assorbente è la constatazione che detta ipotesi criminosa - com'è noto introdotta nel sistema codicistico dalla L. n. 63 del 2001, allo scopo di contrastare gli inconvenienti derivanti da un possibile uso strumentale ed insidioso della facoltà di tacere, ovvero anche di mentire, innanzi all'A.G. - ha conseguentemente come destinatari i soggetti su cui non grava l'obbligo di rispondere alla medesima A.G., ma che possono comunque rendere dichiarazioni utilizzabili in seno al procedimento penale (cfr., da ultimo, Sez. 6, sent. n. 10129 del 20.01.2015, Rv. 262906).
Discende da quanto sopra che la ricordata veste di persona informata sui fatti, propria dell' E. al momento della sua audizione, colloca la vicenda al di fuori dell'ambito di operatività della norma in questione, viepiù escluso dalla constatazione che, nel caso in esame, la promessa di pagamento e la successiva corresponsione del denaro - solo in tali termini potendo perciò parlarsi di accordo fra le parti - intervengono ex post, quando già le dichiarazioni sono state rese dall' E. alla p.g. delegata. Non senza osservare, in aggiunta, che nulla emerge dalle sentenze di merito - nè, tanto meno, dalla cristallizzazione dell'accusa contenuta nel capo d'imputazione in esame - in ordine ad eventuali sviluppi successivi: ciò che avrebbe potuto semmai avere rilievo per la sussistenza del (diverso) reato di corruzione in atti giudiziari, da ritenersi integrato in ipotesi di promessa e/o dazione di denaro al teste, che l'abbia accettata, cui abbia poi fatto seguito la falsa deposizione di quest'ultimo, al fine di favorire una parte del processo penale (cfr., per tale ipotesi, Sez. 6, sent. n. 40759 del 23.06.2016, Rv. 268009).
Allo stesso modo, non può qui ipotizzarsi neanche la fattispecie disciplinata dall'art. 377 c.p., che, al pari della disposizione di cui sopra, tutela anch'essa il corretto svolgimento dell'attività processuale e però in relazione a condotte provenienti da soggetti sui quali grava l'obbligo di rispondere, condotte volte a pregiudicare - per effetto dei comportamenti a tal fine indicati dalla norma - la serena acquisizione delle dichiarazioni di costoro (v. la citata sentenza n. 40759/2016).
In proposito, a prescindere dalle non condivisibili argomentazioni difensive in punto di applicabilità dell'art. 63, comma 2 del codice di rito - dovendosi a tal fine ribadire l'irrilevanza penale dell'emissione della falsa fattura di cui trattasi ad opera dell' E. - (anche) la figura criminosa de qua agitur richiede che la condotta del soggetto agente, pur non accettata dal destinatario, sia antecedente alle sue dichiarazioni.
In definitiva, la sentenza impugnata va annullata, quanto alla declaratoria di colpevolezza per l'anzidetto reato sub b), con eliminazione della relativa pena in aumento, nella misura sopra indicata di mesi quattro di reclusione ed Euro 200,00 di multa.
6. Inammissibile, per contro, è il motivo ulteriore, in punto di attenuanti generiche.
La Corte distrettuale ha fornito pur sintetica motivazione delle ragioni del proprio convincimento, ricondotte alla valenza preponderante della negativa personalità dell'imputato, dedotta "dall'elevato numero di condotte delittuose via via emerse, che denotano elevata pervicacia e capacità a delinquere", ad onta del suo recente passato di militare al servizio dello Stato, onde la censura difensiva risulta non consentita, atteso il carattere non certo manifestamente illogico del ragionamento testè sintetizzato. Non senza aggiungere che il comportamento processuale collaborativo del C., su cui la difesa ha posto l'accento, ha trovato comunque valutazione in sede di determinazione del trattamento sanzionatorio da parte della Corte piemontese.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2018