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Reati tributari: il giudice penale non è vincolato dalle valutazioni della Commissione tributaria


Reati tributari: il giudice penale non è vincolato dalle valutazioni della Commissione tributaria

Con la sentenza in argomento, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che in tema di reati tributari, il giudice penale non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, ma può, con adeguata motivazione, apprezzare gli elementi induttivi ivi valorizzati, per trarne elementi probatori, idonei a sorreggere il suo convincimento. (Fattispecie relativa al reato di omesso versamento dell'IVA, in cui si è ritenuta corretta la decisione che, nel determinare l'imposta evasa, aveva fatto riferimento al calcolo eseguito dall'Agenzia delle Entrate, recepito dalla Commissione tributaria territoriale).


Cassazione penale sez. III, 14/03/2023, (ud. 14/03/2023, dep. 06/06/2023), n.24225

RITENUTO IN FATTO

1. E' impugnata la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte d'appello di Milano ha confermato quella emessa dal Tribunale di Varese che aveva condannato il ricorrente alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi sei di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter perché, nella sua qualità di legale rappresentante p.t. della " R. s.r.l." con sede legale in (Omissis), non versava l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, per complessivi Euro 278.209, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo d'imposta successivo ((Omissis)).


2. Il ricorso è articolato sulla base di un unico, complesso, motivo, con il quale il ricorrente deduce il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p.) per contraddittorietà in relazione alla specifica doglianza difensiva di cui al primo motivo di appello nonché il travisamento della prova da cui sarebbe derivata una motivazione insanabilmente illogica e contraddittoria.


Sostiene che l'impugnata sentenza merita censura in quanto viziata per contraddittorietà ed illogicità della motivazione, con riferimento al rigetto del primo motivo di appello, poiché sostanzialmente avrebbe basato il proprio convincimento su una prova inesistente o, comunque, su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale.


L'errore in cui sarebbe incorsa la Corte di appello è consistito, ad avviso del ricorrente, nel considerare la società " R. s.r.l." una società controllata e la " R. s.r.l." la controllante: nella realtà, infatti, sarebbe esattamente l'inverso, e ciò si deduce sia dalla sentenza di primo grado che dai motivi di appello, oltre che dalla documentazione presente in atti.


Il ricorrente assume che tale circostanza di fatto sarebbe assai rilevante per le seguenti ragioni.


Nei motivi di appello, e segnatamente dalla pag. 3 alla pag. 5 del ricorso, era stato eccepito l'errore nel metodo di calcolo dell'imposta evasa, operato dall'Agenzia delle Entrate e fatto proprio dal Tribunale, tale per cui l'importo dell'imposta si sarebbe collocato al di sotto della soglia di punibilità.


La Corte di Appello, tuttavia, a pag. 5 della motivazione, dopo aver dato conto brevemente delle due tesi contrapposte, ha affermato (sestultimo rigo): "... invero la somma dovuta dalla verificata R. s.r.l., facente parte del gruppo di società controllate dalla capogruppo R. s.r.l. emerge dalla dichiarazione fiscale presentata per l'anno d'imposta 2014 dalla società contribuente stessa, R. S.r.l., mentre è noto che le eventuali compensazioni dell'IVA infragruppo debbono essere effettuate sempre ed unicamente dalla capogruppo e non, viceversa, dalle controllate ( R. S.r.l. all'epoca della presentazione il 29/12/2014 della dichiarazione fiscale della controllata era stata dichiarata fallita con sentenza 23/12/2014, sia pure poi revocata nel 2015, ragione per cui la verificata si determinò ad effettuare direttamente la compensazione. Si tratta pertanto di un ulteriore argomento ugualmente fattuale e del tutto ostativo all'avallo della tesi difensiva, che ne impedisce l'accoglimento".


Il ricorrente sottolinea che, nei motivi di appello, aveva proposto una diversa valutazione dei fatti rispetto ai calcoli automatici effettuati dall'Agenzia delle Entrate, su cui il Tribunale ovviamente non si era soffermato e su cui, viceversa, la Corte di Appello, sollecitata dalla difesa con i propri motivi, aveva giustamente posto la propria attenzione; tuttavia la Corte territoriale aveva ritenuto di non doversi adeguare alla tesi difensiva esclusivamente sulla base di due ordini di motivi: il primo relativo ad una pronuncia della Commissione Tributaria di segno contrario alle istanze del ricorrente; il secondo costituito dalla circostanza fattuale - erroneamente ritenuta dalla Corte - che, seppure fossero stati corretti i calcoli operati dalla difesa, la compensazione avrebbe potuto essere operata solo da parte della società controllante (per la Corte erroneamente la R. S.r.l.) e non della controllata (per la Corte erroneamente la R. S.r.l.), quando, nella realtà, la compensazione è stata operata - giustamente - dalla R. S.r.l. in qualità proprio di Società capogruppo.


Ad avviso del ricorrente, tale circostanza fattuale, erroneamente travisata dalla Corte di appello, non sarebbe di poco rilievo sia in considerazione del fatto che la decisione della Corte di merito si fonda quasi esclusivamente su di esso e sia per il fatto che la Corte d'appello si sarebbe certamente determinata diversamente, qualora avesse avuto una corretta percezione di questo dato.


Ed infatti, se è vero che la compensazione è stata correttamente e legittimamente operata dalla R. S.r.l. nella qualità di società controllante e, dunque, prendendo in considerazione l'intero gruppo R., seguendo il ragionamento operato dalla difesa ed il sistema di calcolo alternativo dalla stessa proposto - effettuato nell'ottica di una compensazione dell'IVA di gruppo e non della singola società R. S.r.l. - il danno erariale che si è verificato sarebbe obbiettivamente al di sotto della soglia di punibilità prevista dal D.L. n. 74 del 2000, art. 10-ter.


Il ricorrente, infine, sostiene che neppure può ritenersi solido e coerente l'impianto motivazionale dell'impugnata sentenza solo con riferimento all'elemento fattuale a sostegno della tesi accusatoria costituito dalla pronuncia della Commissione Tributaria di Varese, posto che, in considerazione del principio dell'autonomia dei procedimenti penale e tributario, il Giudice penale può utilizzare quanto emerso nel procedimento tributario solo ed esclusivamente attribuendo a tale materiale un mero valore indiziario e non può limitarsi al rinvio agli schemi presuntivi o ai criteri probatori propri del sistema tributario stante la presunzione di non colpevolezza stabilita dalla Cost., art. 27 e dall'art. 6 CEDU.


Tale principio è stato da ultimo ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (sentenza della S.C. n. 7242 del 18 febbraio 2019 in merito alla utilizzabilità delle presunzioni legali in ambito penale).


3. Il Procuratore generale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.


4. Il ricorrente ha presentato una memoria di replica alle conclusioni del procuratore generale, osservando, da un lato, come il gravame non abbia sollecitato alcuna valutazione di merito e come non siano state colte le doglianze formulate con il ricorso, al quale il ricorrente stesso si è riportato.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per le seguenti ragioni.


2. La sentenza impugnata, come lo stesso ricorrente mostra di ritenere, fonda l'epilogo decisorio sua una doppia e distinta ratio decidendi.


2.1. La Corte di merito ha respinto l'appello sulla base di due argomenti ossia che il calcolo eseguito dal fisco, per determinare l'imposta evasa e, quindi, la soglia di punibilità, fosse corretto ed errato il calcolo eseguito ex adverso dalla difesa, circostanza convalidata anche dal fatto che la Commissione tributaria aveva rigettato il ricorso della società contribuente (prima ratio decidendi), e che "la somma dovuta dalla verificata R. s.r.l. (...) emerge(va) dalla dichiarazione fiscale presentata per l'anno di imposta 2014 dalla società contribuente stessa, R. s.r.l. (...)" (seconda ratio decidendi).


Effettivamente, nel pervenire a tale seconda conclusione, la Corte d'appello ha invertito, per mero errore materiale, il rapporto intercorrente tra società controllata e società controllante, ossia il rapporto tra la R.M. s.r.l. e la R. s.r.l., ma resta ferma la sostanza della decisione in parte qua e cioè che già sulla base della dichiarazione fiscale Iva presentata per l'anno di imposta 2014 emergesse l'importo, superiore alla soglia di punibilità, del versamento Iva omesso.


La circostanza che la Corte territoriale sia incorsa in un errore materiale si desume da una lettura della sentenza impugnata nel suo complesso e, in particolare, dal riepilogo che la Corte di merito ha compiuto della sentenza del Tribunale, confermata e dalla quale, ricapitolando anche gli esiti istruttori, ha preso le mosse per rispondere ai motivi di appello (v. pag. 1 e 2 della sentenza impugnata), evidenziando con chiarezza, e ripetutamente, che la R. s.r.l. era la società controllante e la R.M. s.r.l. la società controllata.


2.2. Ne consegue come la doglianza del ricorrente sia, sul punto, manifestamente infondata, al pari della censura circa le modalità di calcolo dell'imposta evasa che non è stata affatto determinata presuntivamente e neppure sulla base di elementi indiziari, con la conseguenza che il motivo di ricorso si connota, in parte qua, per la sua natura tipicamente fattuale, che perciò sfugge al sindacato di legittimità in presenza, come nella specie, di una congrua motivazione priva di vizi di manifesta illogicità.


In buona sostanza, come emerso dalla istruttoria dibattimentale di primo grado, la R. S.r.l., nella dichiarazione IVA 2014, relativa al periodo d'imposta 2013, aveva portato in compensazione le eccedenze di credito IVA, pur non potendo usufruire di tale beneficio, in quanto la media dei versamenti confluiti nel conto fiscale era di Euro 85.196,84, ma nel biennio precedente era stata già interamente utilizzata in compensazione, senza prestazione di garanzia, con ciò violando l'art. 6, comma 3, Decreto Ministeriale n. 11065 del 1979.


Tale disposizione normativa prevede che i crediti risultanti dalle dichiarazioni annuali dell'imposta sul valore aggiunto della società controllante o di quella controllata, che vengono in tutto o in parte compensati con i debiti IVA dalle altre società partecipanti alla procedura di liquidazione di gruppo, devono essere garantiti nelle forme previste dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38-bis, comma 2, prestando cauzione in titoli di Stato o garantiti dallo Stato, al valore di borsa, ovvero fideiussione rilasciata da un'azienda o da altro istituto di credito o mediante polizza fideiussoria rilasciata da un istituto o impresa di assicurazione. Nel caso in cui detta garanzia non venga prestata, l'importo corrispondente alle eccedenze del credito compensate deve essere versato all'ufficio entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale.


La Corte d'appello, nel convalidare l'approdo cui era giunto il Tribunale, ha ritenuto corretti i calcoli effettuati dall'organo dell'accertamento erariale, secondo il quale, riepilogando la liquidazione dell'IVA di gruppo 2014, era emersa una compensazione infragruppo illecita pari ad Euro 278.209, essendo stata già interamente utilizzata in compensazione nel biennio precedente l'intera eccedenza, calcolata sulla media dei versamenti confluiti nel conto fiscale ed essendo mancata la prestazione della prevista garanzia.


La Corte d'appello, nel prendere atto della versione completamente opposta allegata dall'imputato circa la questione tecnico-tributaria in materia di calcolo delle compensazioni lecitamente effettuabili, ha rammentato come, in fatto, l'imputato avesse comunque ammesso un'avvenuta indebita compensazione, sebbene al di sotto della soglia penalmente rilevante e determinata a suo dire unicamente da una grave crisi di liquidità ed ha annotato come la questione strettamente tecnico-tributaria, risolta dall'Agenzia delle Entrate nel senso in precedenza richiamato, sia stata analizzata negli identici termini e risolta in sede di ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di Varese, che ha ritenuto conforme alla normativa tributaria in vigore il metodo adottato e corretti i calcoli aritmetici eseguiti dall'amministrazione fiscale.


2.3. Chiarito che l'erario non ha fatto uso di presunzioni nel calcolare l'imposta evasa, è appena il caso di precisare che, in materia di reati tributari, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento fiscale, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare, così come avvenuto nel caso di specie, tutti gli elementi, anche se del caso induttivi, in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo (Sez. 3, n. 8319 del 10/06/1994, De Filippis, Rv. 198777 - 01).


Ciò posto, va osservato, al riguardo, che la disciplina della compensazione delle eccedenze di credito IVA con i debiti di imposta risultanti dalle dichiarazioni annuali della società controllante e delle società da questa controllate è dettata dal D.M. n. 13 dicembre 1979, emanato in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 73, ultimo comma, alla luce del quale con propri decreti il Ministro delle finanze può regolare le modalità e i termini delle dichiarazioni e dei versamenti dei gruppi di società. Tale disciplina, come opportunamente sottolineato nella sentenza impugnata, prevede, all'art. 6 del citato decreto del 1979, che la società il cui credito sia stato estinto debba prestare garanzia secondo "le disposizioni del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38-bis" (vale a dire mediante cauzione o fideiussione), altrimenti è tenuta a versare l'importo corrispondente alle eccedenze di credito compensate nel termine di presentazione della dichiarazione.


Ne consegue che, in tema di IVA, qualora una società si avvalga della facoltà di compensare in tutto o in parte le proprie eccedenze di credito con somme che avrebbero dovuto essere versate da un ente o una società che la controlla o da altre società ad essa collegate, le garanzie a tal fine richieste dal D.M. n. 13 dicembre 1979, art. 6, comma 3, sono volte ad assicurare il recupero di quanto dovuto all'Erario, ove successivamente al rimborso ne sia accertata la mancanza dei presupposti giustificativi: esse, pertanto, devono essere prestate in sede di presentazione della dichiarazione annuale della società il cui credito è stato estinto per compensazione, occorrendo altrimenti versare all'Ufficio finanziario, entro il termine di presentazione della dichiarazione, l'importo corrispondente alle eccedenze di credito compensate (Cass. civ., Sez. 5, n. 6835 del 20/03/2009, Rv. 607353 - 01).


Ed è pacifico che, nella presente vicenda, alcuna garanzia sia stata prestata.


3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi dell'art. 616 del codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.


Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.


Così deciso in Roma, il 14 marzo 2023.


Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2023

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