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Arresti domiciliari: negata l'autorizzazione al lavoro se comporti spostamenti incontrollabili


Arresti domiciliari: negata l'autorizzazione al lavoro se comporti spostamenti incontrollabili

Con la sentenza n. 21758/2020, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di arresti domiciliari, i presupposti per la prescrizione del braccialetto elettronico, che implica un giudizio sulla capacità dell'indagato di autolimitare la propria libertà personale e di rispettare il divieto di non uscire dal domicilio coatto, sono diversi da quelli per la concessione dell'autorizzazione al lavoro che non può essere concessa ove determini continui e incontrollabili spostamenti snaturando il regime stesso della custodia domestica, con la conseguenza che non è contraddittoria la motivazione dell'ordinanza con cui il giudice decida di non applicare il braccialetto elettronico e di negare l'autorizzazione al lavoro, ove gli orari e gli spostamenti collegati all'attività lavorativa non consentano di esercitare i dovuti controlli.


Cassazione penale , sez. IV , 26/06/2020 , n. 21758

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Roma, con ordinanza resa in data 17/1/2020, in parziale accoglimento dell'appello proposto nell'interesse di C.M., ha sostituito l'originaria misura della custodia cautelare in carcere applicata al predetto con quella degli arresti domiciliari. Nel corpo della motivazione si chiarisce che la sostituzione è stata concessa in ragione della entità della pena riportata dal C., a cui è stata inflitta, all'esito del giudizio di primo grado, una pena detentiva inferiore ad anni tre di reclusione.


2. Il ricorrente, a mezzo del difensore, ha articolato nell'atto di ricorso due distinti motivi di doglianza, così riassumibili giusta il disposto di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.


Con il primo motivo deduce omessa motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di esigenze cautelari; motivazione apparente del provvedimento impugnato.


Il Tribunale del riesame, secondo quanto si assume nel ricorso, non avrebbe valutato e non si sarebbe espresso su fatti sopravvenuti, specificamente indicati nell'atto di appello, idonei ad incidere sulla ricorrenza delle esigenze cautelari. La motivazione prodotta non consentirebbe di comprendere le ragioni giuridicamente apprezzabili che abbiano indotto il Collegio a ritenere la persistenza delle esigenze cautelari.


Con il secondo motivo lamenta l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione riguardante il mancato accoglimento della richiesta inerente all'autorizzazione allo svolgimento di lavoro; violazione di legge in relazione agli artt. 274 e 275 c.p.p..


3. Il P.G., con requisitoria scritta, ha concluso per la declaratoria d'inammissibilità del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I motivi di ricorso risultano infondati, pertanto il ricorso deve essere rigettato.


2. Occorre rilevare come la giurisprudenza di legittimità sia concorde nel ritenere che, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione che deduca l'assenza dei gravi indizi o delle esigenze cautelari, sia ammissibile solo se denunci la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando siano proposte censure che riguardino la ricostruzione dei fatti, o che si risolvano in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (così Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, Rv. 270628; Sez. 4, Sentenza n. 18795 del 02/03/2017, Rv. 269884 - 01).


3. Il Tribunale ha dato atto in maniera congrua delle ragioni fondanti il provvedimento di sostituzione, rilevando come il ricorrente abbia riportato, all'esito del giudizio di primo grado, una condanna inferiore a tre anni di reclusione.


Come è noto, ai sensi dell'art. 275 c.p.p., comma 2-bis, salvo quanto previsto dal medesimo art., comma 3 e ferma restando l'applicabilità dell'art. 276, comma 1-ter e art. 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Richiamando tale disposizione e, in ossequio all'orientamento di legittimità che impone al giudice della cautela di tenere conto, nella valutazione delle esigenze cautelarì e nei criteri di scelta delle misure, degli elementi che emergano dalla sentenza di condanna, anche non definitiva, il Tribunale ha ritenuto correttamente di provvedere alla sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari (cfr. Sez. 4 n. 12890 del 13/02/2019, Rv. 275363 - 01 che, in un caso analogo al presente, ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale, in sede di appello, era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere, dopo che l'imputato aveva già patteggiato una pena inferiore a tre anni di reclusione).


4. In ordine alle ulteriori richieste difensive, il Collegio del riesame, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha puntualizzato, con motivazione concisa ma esaustiva, che sono tuttora sussistenti, in capo al ricorrente, esigenze cautelari da tutelare, evidenziando la permanenza del pericolo di reiterazione del reato, desumibile dalle allarmanti modalità del fatto richiamate nello stesso provvedimento (possesso di quantitativi rilevanti di stupefacenti di diversa qualità, possesso di contabilità inerente all'attività di spaccio). Tali circostanze, idonee a fondare un giudizio prognostico negativo in ordine al pericolo di reiterazione del reato, si legge in motivazione, non possono ritenersi superate dal decorso del tempo e dal contenuto dell'interrogatorio reso al P.M., la cui efficacia realmente collaborativa non risulta essere emersa in atti.


Alla luce di tali puntuali valutazioni risulta del tutto destituita di fondamento la lamentata carenza di motivazione in cui sarebbe incorso il Tribunale, essendo il provvedimento impugnato dotato di adeguato apparato argomentativo, in alcun modo censurabile sotto il profilo logico.


5. Quanto all'aspetto riguardante l'autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa, il Tribunale ha sostenuto in motivazione che le modalità di svolgimento del lavoro, per cui è stata avanzata richiesta di autorizzazione, risultano incompatibili rispetto alle esigenze cautelari da tutelare.


La difesa critica sotto il profilo logico tale affermazione, assumendo la sua incompatibilità con quanto viene detto subito dopo, nella parte in cui il Tribunale nega la necessità di applicazione del "braccialetto elettronico", sostenendo che: "la personalità del prevenuto induce a ritenere che lo stesso darà osservanza spontaneamente alle prescrizioni relative alla misura".


Ebbene, la prospettata contraddizione è soltanto apparente. La previsione di cui all'art. 275-bis c.p.p., che consente al giudice di prescrivere, con gli arresti domiciliari, l'adozione del cosiddetto "braccialetto elettronico", attiene alle modalità esecutive della misura degli arresti domiciliari e riguarda il limitato giudizio afferente alla capacità dell'indagato di autolimitare la propria libertà personale e di rispettare gli obblighi inerenti al divieto di non uscire dal domicilio coatto.


Diverso è il giudizio da compiersi in relazione alla concessione dell'autorizzazione al lavoro la quale non può essere concessa ove determini continui e incontrollabili spostamenti di lunga durata, snaturando il regime stesso della custodia domestica (cfr. Sez. 3, n. 3472 del 20/12/2012, dep. 23/01/2013, Rv. 254428 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 9004 del 17/02/2015 Rv. 263237 - 01).


Di conseguenza, è ben possibile, che il Giudice decida, in relazione al regime degli arresti domiciliari, di non applicare il braccialetto elettronico e di negare l'autorizzazione al lavoro, ove gli orari e gli spostamenti collegati all'attività lavorativa non consentano di esercitare i dovuti controlli.


Da ultimo è d'uopo rilevare come, in base a consolidato orientamento di legittimità, l'autorizzazione al lavore possa essere concessa solo in presenza della ineludibile condizione dell'assoluta indigenza, condizione che non viene menzionata nei motivi di ricorso (cfr. ex multis Sez. 3, n. 24995 del 13/02/2018, Rv. 273205 - 01).


6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 26 giugno 2020.


Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2020



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