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Diffamazione: non è applicabile al direttore del giornale la riparazione pecuniaria


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione a mezzo stampa, non è applicabile l'istituto della riparazione pecuniaria, previsto dall'art. 12 l. 8 febbraio 1948 n. 47, al direttore del giornale che sia dichiarato responsabile del delitto di omesso controllo colposo della pubblicazione ai sensi dell'art. 57 c.p., in quanto l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce una sanzione civile che consegue al reato di diffamazione, dei cui elementi costitutivi presuppone l'accertamento (Cassazione penale sez. V - 10/10/2019, n. 44117)


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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano ha prosciolto M.G. dal reato di cui all'art. 57 c.p., art. 595 c.p., commi 1 e 3, e L. n. 47 del 1948, art. 13 perchè estinto per prescrizione; mentre ha confermatò le statuizioni civili in favore di B.L., comprensive della condanna al pagamento della somma di Euro 15.000,00 a titolo di riparazione pecuniaria L. n. 47 del 1948, ex art. 12.


1.1 Il Tribunale di Milano aveva affermato la penale responsabilità del M. - limitata, però, a titolo, sottotitolo e composizione grafica dell'articolo - perchè, in qualità di direttore responsabile del settimanale "(OMISSIS)", aveva omesso di esercitare il necessario controllo sul contenuto del periodico, così permettendo la pubblicazione sul numero (OMISSIS), di un articolo a firma del giornalista A.G.O., così intitolato: "Al mercato delle toghe Promozioni, trasferimenti, bocciature: ad aiutare la cosiddetta P3, che tentava di mercanteggiare nomine al C.S.M. erano magistrati di ogni schieramento. La gogna però è scattata solo per alcuni. Mentre per altri, insospettabili, nessuno si è indignato. Ecco le loro storie". Dette espressioni erano considerate lesive della reputazione di B.L., all'epoca dei fatti Presidente del Tribunale di (OMISSIS).


Il giudice di primo grado aveva mandato assolto l'articolista dal reato di diffamazione a mezzo stampa in quanto, da un lato, aveva ritenuto lo stesso estraneo alla scelta di titolo e, dall'altro lato, aveva riconosciuto in suo favore la scriminante di cui all'art. 51 c.p. rispetto al contenuto dell'articolo, che costituiva legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca giudiziaria.


Il diverso esito processuale era dovuto al fatto che, secondo il Tribunale, la titolazione non rispecchiava il contenuto dell'articolo.


Faceva da sfondo la vicenda della cd. loggia P3, all'epoca di scottante attualità a seguito del recente arresto di L.P., Ma.Ar., C.F..


In quei giorni, sui quotidiani, erano stati pubblicati, tra gli altri, tre colloqui intercettati dai quali risultava che Ca.Ug., Presidente della Regione (OMISSIS), si era rivolto a Ma.Ar. affinchè intercedesse presso il magistrato F.C., membro togato del C.S.M., in favore di B.L., nei cui confronti pendeva un procedimento di trasferimento di ufficio per incompatibilità con la propria moglie, all'epoca Presidente del Tribunale per i minorenni di (OMISSIS); Ma., rispondendo alla sollecitazione di Cappellacci, prendeva contatto con la segreteria di F.C., quindi richiamava Cappellacci assicurandogli una imminente telefonata da parte del consigliere del C.S.M..


Traendo spunto da questi fatti di cronaca, l'articolo di A., pubblicato su (OMISSIS), sosteneva che, grazie a quell'interessamento e all'aiuto ricevuto da alcuni componenti "di sinistra" del C.S.M., non invece da F.C. che aveva votato contro, l'organo di autogoverno della magistratura aveva archiviato la pratica di trasferimento d'ufficio nei confronti di B.. Il giornalista aveva commentato la notizia come segue: "se m. è brutto, sporco e cattivo, quando l'ipotetica loggia sostiene giudici progressisti come B.L., Presidente del Tribunale di (OMISSIS), la presunzione di innocenza è imprescindibile".


Il Tribunale osservava che: "il filo rosso che attraversa l'articolo, connotandolo, è la convinzione di A. che la P3 sia un'organizzazione incapace di modificare le logiche di fondo e le decisioni del Consiglio Superiore della magistratura, le cui determinazioni sono mosse dalle correnti che le compongono" (pag. 20); quindi, nell'occuparsi delle espressioni diffamatorie, rilevava come il giornalista avesse escluso l'efficacia della raccomandazione rivolta da Ca. al F. e mai avesse alluso ad una connivenza tra Ca. e B., definito un "raccomandato a sua insaputa".


Il giudice di primo grado ravvisava in tale situazione i presupposti dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica (pag. 26 e ss.):


- l'interesse generale alla conoscenza della notizia;


- il nucleo essenziale di verità dei fatti, su cui si innestavano legittimi contenuti di carattere critico, espressi per lo più in forma ironica;


- il rispetto della continenza formale.


Era invece opposta la valutazione espressa dal medesimo giudice sulla titolazione: "essa, infatti, nell'introdurre le "storie" narrate dall'articolo dell' A. (ivi compresa, pertanto, la vicenda del B.), evidenziava che la loggia P3 era favorita da magistrati di ogni schieramento: solo per alcuni era, tuttavia, scattata la gogna; per altri nessuno si era indignato" (pag. 35).


Il Tribunale rilevava che: "il titolo e il sommario evidenziavano, dunque, un'interazione ricercata tra magistrati e appartenenti alla P3 nel pilotare trasferimenti e nomine ed individuava un sistema connotato da stabili tratti comuni: "un mercato" - appunto - costituito d'intesa tra giudici e P3, diretto a "pilotare" promozioni e trasferimenti. La storia del B. veniva dunque inserita a pieno titolo tra quelle oggetto di apposito mercanteggiamento".


Evidenziava inoltre il portato offensivo ottenuto tramite l'inserimento, sopra l'articolo, delle fotografie ritraenti C.F., L.P. e, accanto, delle fotografie di B.L. con la didascalia "non trasferito", e m.a. con la didascalia "nel mirino", lasciando immediatamente intendere al lettore che entrambi i magistrati avevano ottenuto l'aiuto della P3, ma solo per il secondo era scattata la gogna.


Perveniva alla conclusione che "Nei titoli vi è una sensibile distanza dal contenuto e dal senso complessivo dell'articolo redatto da A.G.. La vistosa divergenza determina un'insinuante mistificazione della realtà, giacchè induce nel lettore la mendace rappresentazione che la parte civile fosse collusa con il sistema criminale della P3" (pag. 36); "tale dato, allusivamente evocato dal titolo è, dunque, falso nè poteva sfuggire alla redazione di "(OMISSIS)" che si era occupata dei titoli, dal momento che l'intervista resa dal Ca. all'Unione sarda (quella in cui il Presidente della Regione si era attribuito l'esclusiva paternità dell'iniziativa) era di epoca anteriore alla pubblicazione del numero della rivista che ci occupa. L'evocata attitudine dell'uomo e del magistrato B.L. a "mercanteggiare" il proprio trasferimento con personaggi appartenenti alla P3 e la paventata collateralità dello stesso con l'organizzazione criminale in questione, risultano lesivi dell'onore della parte civile, ben potendo incrinare l'immagine pubblica di un magistrato di indiscusso pregio e di altissima dirittura morale" (pag. 37).


1.2 Investita del gravame proposto da M.G., la Corte di appello di Milano ha confermato il giudizio di responsabilità a fini civili, mentre, agli effetti penali, ha dichiarato l'estinzione del reato per prescrizione.


La decisione si fonda sul rilievo che la titolazione, nella sua composizione comprensiva anche delle fotografie, violi il canone della "continenza formale" ovvero dell'onere di rappresentazione misurata della notizia.


L'affermazione riposa sulle seguenti considerazioni: "che vi fosse stata una telefonata tra Ma. e Ca. e quindi il tentativo di interlocuzione con un consigliere del C.S.M. è notizia vera, ma riferirlo sotto il titolo "(OMISSIS)" con associazione anche del nome di B.L. a tale fatto significava ipotizzare, a tacer d'altro, manovre quantomeno irregolari e deontologicamente discutibili del magistrato mentre dell'interessamento del medesimo magistrato a tali manovre non veniva fornita alcuna prova: il tutto in tono gratuitamente allusivo anche attraverso la stigmatizzazione di comportamenti affini ma trattati in modo diverso faceva intendere che appartenere a una corrente piuttosto che a un'altra della magistratura fosse in grado di spostare equilibri all'interno del CSM, anche sensibile a condizionamenti esterni" (pagg. 12 e 13).


2. Avverso la pronuncia ricorre l'imputato, tramite il difensore, articolando quattro motivi.


2.1 Con il primo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione sul contenuto diffamatorio di titolo e sottotitolo.


L'interpretazione offerta dalla Corte di appello sul significato della titolazione sarebbe inconferente rispetto al senso proprio delle parole utilizzate:


il titolo "(OMISSIS)" va riferito all'azione di "mercanteggiare nomine al CSM", azione che effettivamente è stata posta in essere dai componenti della loggia P3 ("P3 che tentava di mercanteggiare);


- non si attribuiscono a B.L. "manovre quantomeno irregolari e deontologicamente discutibili". Al contrario il magistrato è indicato non come "soggetto" che fa mercato del proprio ruolo, ma come "oggetto" del mercato. E questa seconda proposizione è vera poichè, come riportato nell'articolo, dalle intercettazioni telefoniche era emerso l'interessamento di componenti della P3 presso il CSM per evitare il trasferimento di B.;


lo spostamento di equilibri all'interno del C.S.M. in base alle correnti era la materia trattata dall'articolo che citava le prove a conforto di tale affermazione;


la composizione iconografica dell'articolo, non oggetto di formale contestazione, era priva di offensività, poichè si limitava a riprodurre le effigi delle persone citate nell'articolo: B., m., Ma. e C.. La percezione soggettiva del B., che non ha gradito l'accostamento, non si riverbera necessariamente sul carattere lesivo della pubblicazione.


2.2 Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge sul punto della ritenuta responsabilità del direttore del periodico.


Sarebbe mancata qualsivoglia verifica in merito alle concrete modalità del fatto: nulla si dice su chi ha composto l'articolo e su chi ha apposto titolo e sottotitolo; mentre trattavasi di accertamento preliminare, poichè proprio su tale condotta commissiva dolosa si innesterebbe la responsabilità del direttore del giornale per omesso controllo.


Si potrebbe ipotizzare che un componente dello staff (rimasto ignoto) sia incorso in un errore nella titolazione e sottotitolazione, ma in tal caso il comportamento presupposto, di natura colposa, non potrebbe sostenere la responsabilità ex art. 57 c.p..


2.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che il giudice di secondo grado non avrebbe risposto alla specifica doglianza con cui si sollecitava una verifica sulla condotta dolosa del soggetto terzo che ebbe ad apporre titolo e sottotitolo.


2.4 Con il quarto deduce violazione di legge e vizio di motivazione sulla irrogazione della pena pecuniaria L. n. 47 del 1948, ex art. 12, poichè tale sanzione, diretta a colpire l'autore della diffamazione, non sarebbe applicabile al direttore responsabile, chiamato a rispondere a titolo di colpa per omesso controllo.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato limitatamente al motivo concernente l'applicazione della riparazione pecuniaria L. n. 47 del 1948, ex art. 12.


2. Il primo motivo è infondato.


La responsabilità civile di M.G., per la condotta colposa di "omesso controllo", si basa sul ritenuto carattere diffamatorio di "titolo, sottotitolo e composizione iconografica" dell'articolo sopra illustrato nella esposizione del fatto.


2.1 La pubblicazione, oggetto di addebito, è così composta.


- la prima doppia pagina è occupata dalla titolazione: "(OMISSIS) - Promozioni, trasferimenti, bocciature: ad aiutare la cosiddetta P3, che tentava di mercanteggiare nomine al C.S.M. erano magistrati di ogni schieramento. La gogna però è scattata solo per alcuni. Mentre per altri, insospettabili, nessuno si è indignato. Ecco le loro storie".


- segue l'articolo a firma del giornalista A.G.O., che è preceduto da quattro fotografie, anch'esse in doppia pagina, ritraenti i volti di C.F., L.P., appartenenti alla loggia P3, B.L. e ma.al., magistrati. Nelle sottostanti didascalie, sono riportate alcune sommarie notizie sui soggetti rappresentati, con l'aggiunta, per B., delle parole "non trasferito", e per m. "nel mirino".


2.2 Secondo i giudici di merito: "Nei titoli vi è una sensibile distanza dal contenuto e dal senso complessivo dell'articolo redatto da A.G.. La vistosa divergenza determina un'insinuante mistificazione della realtà, giacchè induce nel lettore la mendace rappresentazione che la parte civile fosse collusa con il sistema criminale della P3".


2.3 La conclusione cui pervengono i giudici di merito, sulla scorta di ampio e scrupoloso apparato motivazionale, non presenta vizi logici e si pone nel solco del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui sussiste la responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore responsabile di un periodico per la pubblicazione di un titolo di copertina che travisi ed enfatizzi in termini diffamatori il contenuto di un articolo, in quanto il titolo presenta attitudine offensiva autonoma e anche più insidiosa capacità diffusiva, essendo suscettibile di colpire l'attenzione del lettore "di passaggio" che potrebbe non accedere alle informazioni chiarificatrici contenute nell'articolo (Sez. 5, n. 6112 del 14/12/2018, dep. 2019, Hamaui, Rv. 275497).


In particolare "il titolo di un articolo di stampa può assumere carattere diffamatorio non solo per il suo contenuto intrinseco ma anche per la sua efficacia suggestiva rispetto al testo dell'articolo, in specie ove esso ne travisi e amplifichi il contenuto" (Sez. 5, n. 4558 del 09/12/2010, dep. 2011, Mauro, Rv. 249264).


Nella specie la titolazione comunica la notizia che alcuni magistrati tra cui il B., effigiato e presentato in fotografia, avevano "aiutato" "la cosiddetta P3, che tentava di mercanteggiare nomine al C.S.M."; in ciò non rispecchiando affatto il contenuto dell'articolo che invece presenta B. come "raccomandato a sua insaputa".


La costruzione della frase è chiara, i magistrati, di cui parla il titolo, sono indicati come gli autori dell'aiuto alla P3 e non meri "oggetti" di mercanteggio come sostenuto dal ricorrente.


L'affermazione è certamente lesiva della reputazione di B.L. al quale viene falsamente attribuita una condotta illecita, di estrema gravità per un magistrato.


3. Il secondo e il terzo motivo sono infondati.


3.1 L'art. 57 c.p. prevede un reato colposo proprio del direttore responsabile, che ha carattere autonomo rispetto al distinto reato doloso di diffamazione.


"In materia di reati di stampa la responsabilità del direttore, a titolo di colpa, per non avere impedito la commissione del reato, è ben diversa da quella a titolo di concorso, la quale ultima in tanto può sussistere in quanto siano presenti tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell'art. 110 c.p., tra i quali in primo luogo il dolo. Per affermare il concorso nella diffamazione commessa dall'autore dello scritto occorre dimostrare che il direttore ha voluto la pubblicazione nell'esatta conoscenza del suo contenuto lesivo e, quindi, con la consapevolezza di aggredire la reputazione altrui. Quando invece al direttore è addebitabile solo l'omissione del controllo dovuto ci si trova in presenza della diversa fattispecie colposa di cui all'art. 57 c.p. rispetto alla quale l'eventuale diffamazione si configura come l'evento dello specifico reato previsto a carico del direttore" (per tutte Sez. 5, n. 11494 del 02/05/1990, Bertoni, Rv. 185122).


In sostanza il direttore responsabile, assumendo la paternità di ciò che viene pubblicato, si pone, ex art. 57 c.p., in una posizione di garanzia, in virtù dell'obbligo di controllo diretto ad impedire che, con la pubblicazione, siano commessi reati (Sez. 5, n. 42309 del 02/05/2016, Clemente, Rv. 268460).


Invero il direttore responsabile, oltre a vigilare a che nessuno venga offeso attraverso gli articoli del giornale, ha la funzione di disporre, o quanto meno approvare, l'impaginazione e quindi la presentazione degli articoli, attraverso la loro disposizione nelle pagine, e la redazione grafica e letterale dei titoli (Sez. 5, n. 8622 del 26/05/2000, Graldi, Rv. 216714; Sez. 5, n. 6112 del 14/12/2018, dep. 2019, Hamaui, in motivazione).


Alla luce di tali principi, ai fini della responsabilità ex art. 57 c.p., è irrilevante svolgere accertamenti sull'autore della diffamazione e sulle relative condotte, poichè, una volta appurato il carattere diffamatorio della pubblicazione nella sua consistenza oggettiva, il direttore responsabile risponde a titolo di colpa per omesso controllo, in ragione del fatto che, come detto, in tale particolare ipotesi la diffamazione si configura come evento dello specifico reato previsto a carico del direttore.


4. Il quarto motivo è fondato.


4.1 La L. n. 47 del 1948, art. 12, sotto la rubrica "riparazione pecuniaria", stabilisce che: "Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 c.p., una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato".


In forza di tale previsione la persona offesa dal reato può richiedere una somma a titolo di riparazione che non rientra nel risarcimento del danno nè costituisce una duplicazione delle voci di danno risarcibile, ma integra una ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata prevista per legge (da ultimo Sez. 3 civ. n. 29640 del 12/12/2017, Rv. 646655).


4.2 Secondo il consolidato orientamento delle sezioni civili della Corte di cassazione la "sanzione privata" in rassegna non può applicarsi al direttore responsabile ex art. 57 c.p.: "L'irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dalla L. n. 47 del 1948, art. 12, nell'ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, presuppone l'accertamento della sussistenza, a carico del direttore responsabile, di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione. Essa pertanto non può essere comminata ove la responsabilità del direttore responsabile sia dichiarata per omesso controllo colposo della pubblicazione, e non per concorso doloso nel reato di diffamazione (Sez. 3 civ. n. 16054 del 29/07/2015, Rv. 636182; Sez. 3 civ. n. 17395 del 08/08/2007, Rv. 598663; Sez. 3, n. 14485 del 07/11/2000, 541462; Sez. 3, n. 9672 del 03/10/1997, Rv. 508529).


4.3 Le sezioni penali, in origine orientate in conformità a quelle civili (Sez. 5, n. 1188 del 26/10/2001, dep. 2002, Scalfari, Rv. 220814), hanno registrato invece alcune pronunce divergenti (Sez. 5, n. 13198 del 05/03/2010, Belpietro, Rv. 246904; Sez. 5, n. 15114 del 15/03/2002, Battista, Rv. 221318) che tuttavia non paiono supportate da convincente apparato motivazionale, laddove fanno leva sulla circostanza che il riferimento alla diffamazione contenuto nella L. n. 47 del 1948, art. 12 debba essere interpretato come "evento di reato" e non come reato completo dei suoi elementi costitutivi (Sez. 5, n. 13198 del 05/03/2010, Belpietro, in motivazione).


4.4. Il collegio ritiene di aderire all'orientamento prevalente secondo cui la sanzione pecuniaria in oggetto, in ragione della natura sanzionatoria che la contraddistingue, postula la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione a carico del soggetto nei cui confronti venga applicata.


Questa opzione ermeneutica trova conferma nella lettura dei lavori preparatori della L. n. 47 del 1948, che fu approvata dalla Assemblea Costituente.


"La sottocommissione di detta Assemblea all'uopo costituita osservò nella sua Relazione che il progetto governativo considerava la riparazione (prevista nell'art. 25 di detto progetto, divenuto l'art. 12 della legge) "come un aggiunta, non solo ai danni patrimoniali, ma anche a quelli non patrimoniali". La Commissione espresse qualche perplessità, ma alla fine decise "di mantenere il testo ministeriale" sulla base della considerazione che "si devono rendere più sensibili le conseguenze per l'offensore della diffamazione libellistica" (Assemblea Costituente, Atti parlamentari, documento n. 15 - A, pag. 5). Detta Commissione qualificò la riparazione aggiuntiva al risarcimento del danno come "pena privata".


Dai lavori preparatori del citato art. 12 si desume che la riparazione pecuniaria ivi prevista costituisce una sanzione civile che consegue al reato di diffamazione a mezzo stampa e che è rafforzativa della sanzione penale. Essa, perciò, presuppone l'accertamento degli elementi costitutivi di tale reato, che può peraltro essere compiuto anche dal giudice civile" (Sez. 3, n. 14485 del 07/11/2000, in motivazione).


Dalla individuata natura giuridica della riparazione pecuniaria prevista dal citato art. 12, deve coerentemente desumersi che tale sanzione non può essere applicata nei confronti del direttore responsabile della pubblicazione ove a suo carico risulti una responsabilità a norma dell'art. 57 c.p., per omesso controllo (colposo) sul contenuto dello stampato da lui diretto, e non un concorso (doloso) nel reato di diffamazione a mezzo stampa ai sensi dell'art. 110 c.p..


4.5 In applicazione del citato orientamento giurisprudenziale, che va qui ribadito, non può ritenersi consentita la condanna al pagamento della riparazione pecuniaria ex art. 12 del direttore M.G., chiamato a rispondere del fatto soltanto ai sensi dell'art. 57 c.p..


5. Discende che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al punto relativo alla riparazione pecuniaria di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 12, sanzione che va eliminata.


Il ricorso va rigettato nel resto. Il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che, tenuto conto della parziale soccombenza, si liquidano in complessivi Euro 1.500,00 oltre accessori.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alla riparazione pecuniaria di cui alla L. n. 47 del 1948, art. 12, che elimina. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi Euro 1.500,00 oltre accessori.


Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.


Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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