
Il reato di diffamazione, disciplinato dall’art. 595 c.p., costituisce uno degli snodi centrali della riflessione penalistica contemporanea, non soltanto per la frequenza applicativa della norma, ma soprattutto per la sua funzione di cerniera tra valori costituzionali potenzialmente confliggenti.
Da un lato, infatti, esso tutela l’onore e la reputazione, ossia quel bene complesso che esprime la dimensione relazionale della dignità umana e che condiziona la possibilità dell’individuo di partecipare in modo pieno e credibile alla vita sociale; dall’altro, inevitabilmente interferisce con la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), considerata dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza convenzionale quale “fondamento essenziale di una società democratica”.
Il bilanciamento tra queste due esigenze, lungi dall’essere una questione meramente tecnica, incide sull’architettura stessa dello Stato costituzionale.
Il bene giuridico “reputazione” presenta, infatti, tratti di intrinseca indeterminatezza: la dottrina ha evidenziato come esso si collochi al crocevia tra dimensione soggettiva e oggettiva dell’onore, assumendo nel tempo configurazioni diverse (fattuale, normativa, mista). Tale fluidità rende l’intervento penale particolarmente problematico, esponendo la fattispecie al rischio di un’applicazione eccessivamente discrezionale, in tensione con i principi di tassatività e determinatezza.
A complicare ulteriormente lo scenario si è aggiunto, negli ultimi due decenni, il contesto comunicativo globale, segnato dalla diffusione di Internet, dei social network e delle piattaforme di condivisione.
L’“espansione” della comunicazione digitale non solo moltiplica la platea dei destinatari e la velocità di propagazione del messaggio, ma ne determina altresì la persistenza potenzialmente indefinita nel tempo (c.d. permanenza digitale).
In tal modo, i tradizionali criteri di delimitazione dell’offesa e di individuazione del locus commissi delicti risultano profondamente messi in discussione, con evidenti ricadute sul piano della competenza territoriale, della prova e della proporzionalità della risposta punitiva.
Un passaggio fondamentale in questa evoluzione è rappresentato dalla sentenza Corte cost. n. 150 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 13 della legge sulla stampa del 1948 nella parte in cui imponeva al giudice l’applicazione obbligatoria della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato.
La decisione ha segnato un momento di svolta, in quanto ha recepito il costante orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, che considera la pena carceraria per i reati di diffamazione compatibile con l’art. 10 CEDU solo in circostanze eccezionali (discorsi d’odio, istigazione alla violenza).
Tuttavia, l’eliminazione del vincolo non ha esaurito le criticità sistemiche: rimangono aperti i nodi concernenti il ruolo del giudice nella motivazione della scelta sanzionatoria, la definizione dei criteri di gravità “eccezionale” e, più in generale, l’adattamento della disciplina alle nuove forme di comunicazione digitale.
In tale prospettiva, l’analisi dell’art. 595 c.p. non può esaurirsi in una lettura meramente descrittiva della norma, ma impone un approccio multilivello: storico-dogmatico, per ricostruire l’evoluzione del concetto di onore e reputazione; costituzionale e convenzionale, per verificare la tenuta della fattispecie alla luce dei principi di libertà di espressione e proporzionalità della pena; tecnologico e comparatistico, per comprendere come le trasformazioni dell’ecosistema informativo e le soluzioni adottate in altri ordinamenti influenzino l’interpretazione e l’applicazione del diritto interno.
L’introduzione di questa prospettiva critica consente di affrontare il reato di diffamazione non solo come una fattispecie penale codicistica, ma come un laboratorio di bilanciamenti, nel quale si misura la capacità dell’ordinamento di coniugare la protezione dei beni personalissimi con la salvaguardia del libero dibattito pubblico, vero presupposto di una democrazia pluralista.
La collocazione sistematica dell’art. 595 c.p. tra i delitti contro l’onore evidenzia come il bene giuridico protetto sia la reputazione, intesa quale dimensione sociale dell’identità personale. La sua individuazione, tuttavia, non è priva di difficoltà teoriche e applicative, ed è stata oggetto di un ampio dibattito in dottrina e giurisprudenza.
Secondo la c.d. concezione fattuale dell’onore, la reputazione coincide con la valutazione che la collettività esprime sul soggetto, ossia con la stima sociale che l’individuo gode nell’ambiente in cui vive e opera.
Tale impostazione, di matrice positivistica, è stata a lungo dominante nella dottrina classica (Antolisei; Fiandaca-Musco) e trova ampio riscontro nella giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «per reputazione deve intendersi la stima di cui un soggetto gode nel contesto sociale di appartenenza» (Cass., sez. V, 10 ottobre 2012, n. 43184).
In questa prospettiva, il reato di diffamazione si configura come un reato di pericolo, poiché la condotta offensiva è punita non in ragione dell’effettivo pregiudizio subito dalla vittima, ma per la mera idoneità a ledere la considerazione sociale dell’individuo.
Tale impostazione consente di giustificare la rilevanza penale anche di offese che non abbiano determinato un danno concreto alla reputazione, valorizzando la funzione preventiva della norma.
La c.d. concezione normativa dell’onore, affermatasi in dottrina a partire dagli anni Settanta (Mantovani; Dolcini-Gatta), individua invece la reputazione come diritto fondamentale della persona a non essere denigrata mediante attribuzioni o espressioni idonee a lederne la dignità sociale.
In questa prospettiva, il bene protetto non è la percezione empirica della collettività, mutevole e condizionata da fattori culturali, bensì la proiezione giuridica della dignità personale, garantita a livello costituzionale dagli artt. 2 e 3 Cost.
Secondo questa impostazione, il delitto di diffamazione assume i contorni di un reato di danno, poiché l’offesa penalmente rilevante è tale solo se incide in modo concreto sulla sfera giuridica della persona, e non semplicemente in ragione della sua idoneità offensiva.
Una parte della dottrina e della giurisprudenza più recente ha tentato di comporre le due prospettive, approdando a una concezione mista.
La reputazione viene qui intesa come un bene “ibrido”: da un lato, riflette la percezione sociale dell’individuo; dall’altro, si radica nella dignità costituzionale della persona, quale valore indisponibile che l’ordinamento deve garantire.
Questa impostazione risulta oggi la più coerente con l’evoluzione costituzionale e convenzionale: la Corte EDU ha infatti più volte sottolineato che il diritto alla reputazione rientra nel perimetro di protezione dell’art. 8 CEDU, in quanto espressione del diritto al rispetto della vita privata (Axel Springer AG c. Germania, Grande Camera, 7 febbraio 2012).
La duplice natura della reputazione – bene sociale e diritto fondamentale – rende necessario il bilanciamento con la libertà di espressione, sancita dall’art. 21 Cost. e dall’art. 10 CEDU.
La Corte costituzionale ha più volte ribadito che il diritto di cronaca e di critica rappresenta «pietra angolare dell’ordinamento democratico» (Corte cost. n. 84/1969; n. 86/1974).
La Corte di Strasburgo, a sua volta, ha chiarito che la tutela della reputazione può legittimare restrizioni alla libertà di espressione solo se necessarie in una società democratica e proporzionate allo scopo perseguito (Lingens c. Austria, 8 luglio 1986; Cumpănă e Mazăre c. Romania, Grande Camera, 17 dicembre 2004).
Ne discende che la disciplina penalistica della diffamazione deve essere interpretata e applicata alla luce di un principio di proporzionalità, che tenga conto non soltanto della gravità intrinseca dell’offesa, ma anche del contesto comunicativo, del ruolo pubblico dei soggetti coinvolti e dell’interesse collettivo alla conoscenza dei fatti.
La sentenza Corte cost. n. 150/2021 si colloca proprio in questa direzione. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 l. stampa, la Consulta ha evidenziato che l’automatismo sanzionatorio del carcere era incompatibile con un bilanciamento ragionevole tra libertà di espressione e tutela dell’onore, imponendo al legislatore e al giudice un approccio flessibile e calibrato.
Il delitto di diffamazione è un reato comune, che può essere commesso da chiunque.
La norma non richiede qualità soggettive particolari, sicché l’autore può essere un privato cittadino, un giornalista, un rappresentante istituzionale o l’amministratore di una piattaforma digitale.
La dottrina (Fiandaca-Musco, Parte speciale) sottolinea come l’assenza di requisiti soggettivi rifletta la funzione di tutela generalizzata della reputazione, svincolata dalla posizione dell’offensore.
La qualificazione soggettiva può tuttavia assumere rilievo sul piano delle cause di giustificazione (es. immunità parlamentari, art. 68 Cost.; immunità giudiziarie) o delle circostanze aggravanti (diffamazione a mezzo stampa, ex art. 13 l. 47/1948; diffamazione tramite atto pubblico).
Il bene giuridico tutelato è attribuito in primo luogo alle persone fisiche.
La giurisprudenza ha chiarito che la tutela si estende anche ai minori, agli incapaci di intendere e di volere e persino ai soggetti che, pur in stato di incoscienza (coma, sonno), non siano in grado di percepire l’offesa (Mantovani).
La Cassazione ha affermato che «anche i soggetti la cui reputazione sia già compromessa restano titolari del bene giuridico e possono dolersi della lesione ulteriore» (Cass., sez. V, 27 giugno 2008, n. 35032).
Si tratta di un approdo coerente con la concezione normativa della reputazione, che la considera espressione della dignità personale indisponibile.
Un tema dibattuto concerne la possibilità che anche gli enti collettivi siano soggetti passivi del reato.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza vi hanno risposto affermativamente, riconoscendo agli enti un “onore sociale” o “buon nome commerciale” (Dolcini-Gatta).
La Cassazione ha precisato che la reputazione di un ente «non si identifica con quella dei singoli che lo compongono, ma riflette l’immagine complessiva della collettività organizzata» (Cass., sez. V, 30 giugno 2011, n. 27383). È stato altresì riconosciuto che i partiti politici possono essere destinatari di condotte diffamatorie (Cass., sez. V, 26 gennaio 1996, n. 901), a conferma della natura “relazionale” del bene giuridico.
La tutela della memoria dei defunti non rientra direttamente nell’art. 595 c.p., poiché i defunti non sono più “persone” ai sensi del codice. Tuttavia, l’art. 597 c.p. estende la protezione, attribuendo ai prossimi congiunti il diritto di proporre querela in caso di offesa alla memoria del defunto.
Secondo la Cassazione, la querela in questi casi si fonda su un diritto proprio dei congiunti, che tutelano non solo l’immagine del defunto, ma anche il riflesso sulla loro stessa reputazione familiare (Cass., sez. V, 15 luglio 2021, n. 31530).
Affinché il reato si configuri, il destinatario dell’offesa deve essere determinato o determinabile.
Non è necessaria la menzione nominativa: è sufficiente che, dal contesto complessivo, chi legge o ascolta l’affermazione possa riconoscere con ragionevole certezza l’identità della persona.
La Cassazione ha ribadito che l’individuazione deve avvenire sulla base di criteri oggettivi, non potendosi ricorrere a mere congetture soggettive (Cass., sez. V, 24 agosto 2017, n. 39763).
Sono stati individuati, quali parametri: la natura e la portata dell’offesa, le circostanze di tempo e di luogo, i riferimenti personali, le caratteristiche del contesto (Cass., sez. V, 10 marzo 2022, n. 8208).
Ne deriva che, anche in assenza del nome, una persona può essere offesa se il riferimento sia chiaro e univoco: ad esempio, l’indicazione di un incarico, di un ruolo professionale o di un tratto distintivo inequivocabile.
Viceversa, qualora l’allusione sia generica o riguardi una pluralità indifferenziata di soggetti, non è configurabile la diffamazione, salvo che non sia individuabile un sotto-gruppo ristretto di destinatari.
L’elemento oggettivo del reato di diffamazione è tradizionalmente scomposto in tre requisiti essenziali:
l’assenza dell’offeso;
la comunicazione con più persone;
l’offesa alla reputazione.
Ciascuno di essi svolge un ruolo definitorio nella tipicità, contribuendo a distinguere la diffamazione da altre figure (in particolare dall’ingiuria, oggi depenalizzata) e a delinearne il disvalore specifico.
La diffamazione si caratterizza per l’assenza della persona offesa nel momento in cui l’offesa viene pronunciata o diffusa.
Tale elemento, che costituisce il discrimen rispetto all’ingiuria (art. 594 c.p., depenalizzato dal d.lgs. 7/2016), accentua la maggiore gravità del reato: la vittima non è posta in condizione di replicare o difendersi immediatamente dall’addebito.
Secondo Antolisei, l’impossibilità per l’offeso di percepire l’offesa costituisce l’aspetto che giustifica la risposta penale più severa.
La giurisprudenza ha ribadito che se l’offesa è rivolta direttamente all’interessato, anche alla presenza di terzi, non si configura diffamazione, ma – oggi – solo una responsabilità civile per ingiuria (Cass., sez. V, 11 marzo 2019, n. 10313).
Il secondo elemento è la comunicazione a più persone, vale a dire almeno due, anche non contemporaneamente.
La Corte di cassazione ha chiarito che il reato si consuma con la percezione del contenuto da parte della seconda persona (Cass., sez. V, 12 gennaio 2022, n. 323).
Il requisito è stato oggetto di numerosi adattamenti giurisprudenziali con l’evoluzione tecnologica:
è sufficiente che il contenuto offensivo sia condiviso in forma privata con più persone, non occorrendo una divulgazione pubblica (Antolisei).
l’invio di una email a più destinatari, anche se tra questi figura l’offeso, integra la diffamazione, in quanto la ricezione è non contestuale e l’offesa si diffonde oltre la sfera bilaterale (Cass., sez. V, 13 aprile 2021, n. 13252).
la pubblicazione su Facebook di un contenuto lesivo è qualificata come diffamazione aggravata “con altro mezzo di pubblicità” (art. 595, co. 3 c.p.), in ragione della potenzialità diffusiva del mezzo, che rende l’offesa accessibile a una pluralità indeterminata di soggetti (Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 13979).
se il contenuto è condiviso in una chat di gruppo ristretta, la giurisprudenza valuta la reale capacità del messaggio di circolare tra più persone. Non vi è diffamazione, ad esempio, quando l’offesa è rivolta direttamente all’offeso in una videochat alla presenza di altri (Cass., sez. V, 24 marzo 2020, n. 10905).
L’estensione del concetto di “comunicazione a più persone” ai contesti digitali evidenzia il passaggio da una dimensione “interpersonale” a una dimensione plurale e potenzialmente virale della comunicazione.
Il nucleo essenziale della condotta è costituito dall’offesa alla reputazione. Secondo Fiandaca-Musco (Parte speciale), ciò che rileva è la comunicazione di un contenuto idoneo ad attribuire al soggetto offeso qualità negative o a diffonderne una rappresentazione degradante.
La giurisprudenza ha elaborato alcuni criteri:
non ogni espressione sconveniente o inopportuna è penalmente rilevante. Restano fuori dalla tipicità le mere sconvenienze o le offese alla suscettibilità individuale (Cass., sez. V, 8 maggio 2018, n. 21128).
l’offesa può derivare da un sottinteso, da un accostamento suggestivo o da insinuazioni allusive, purché idonee a intaccare la considerazione sociale della vittima (Cass., sez. civ., I, 12 ottobre 1984, n. 5259).
anche una rappresentazione simbolica (immagine, caricatura, meme) può costituire diffamazione se intrinsecamente idonea a screditare l’onore del soggetto. La Cassazione ha ritenuto diffamatoria la diffusione online di fotografie modificate di docenti con intento denigratorio (Cass., sez. V, 24 luglio 2018, n. 36076).
la valutazione dell’offensività va sempre rapportata al contesto in cui l’espressione è utilizzata, alla qualità delle persone coinvolte e alla rilevanza sociale dell’informazione (Cass., sez. V, 18 giugno 2020, n. 17944: esclusa la diffamazione per l’augurio provocatorio rivolto online a un intervistatore critico).
La dottrina non è univoca nel qualificare il delitto.
Secondo Antolisei e la concezione fattuale, la diffamazione è un reato di pericolo concreto, poiché è sufficiente la potenzialità lesiva dell’affermazione. Diversamente, la concezione normativa dell’onore la qualifica come reato di danno, esigendo l’effettiva compromissione della dignità giuridica del soggetto.
La giurisprudenza, nella prassi, oscilla tra le due impostazioni, tendendo però a privilegiare l’approccio del reato di pericolo: l’idoneità dell’espressione a ledere la reputazione è sufficiente per integrare la fattispecie (Cass., sez. V, 15 marzo 2015, n. 15643).
Il reato di diffamazione è punibile esclusivamente a titolo di dolo generico.
Non è dunque richiesto che l’agente persegua uno scopo particolare di nuocere all’altrui reputazione (c.d. animus diffamandi), essendo sufficiente la coscienza e volontà di comunicare a più persone un contenuto idoneo a ledere la reputazione.
La Cassazione ha più volte ribadito che «il dolo consiste nella consapevolezza della natura offensiva delle espressioni utilizzate e nella volontà che queste vengano percepite da più persone» (Cass., sez. V, 21 febbraio 2013, n. 8419).
In dottrina, Fiandaca-Musco (Parte speciale) sottolineano come la configurazione del dolo generico rifletta l’impostazione fattuale della tutela penale dell’onore, orientata a colpire la condotta potenzialmente lesiva indipendentemente dall’intenzione finale perseguita.
Un consolidato indirizzo giurisprudenziale esclude la rilevanza dell’animus diffamandi, ossia dell’intento specifico di danneggiare la vittima. La Suprema Corte ha chiarito che «non occorre la prova di un intento diffamatorio, essendo sufficiente che l’agente si rappresenti la natura offensiva delle proprie parole e ne voglia la diffusione» (Cass., sez. V, 1 febbraio 2012, n. 4364; Cass., sez. V, 16 giugno 1999, n. 7597).
Questa impostazione è coerente con la funzione preventiva della norma: ciò che rileva è l’oggettiva idoneità della condotta a ledere la reputazione, non l’intenzione soggettiva di recare danno.
La giurisprudenza ha ammesso la compatibilità del dolo eventuale con il delitto di diffamazione.
In tale prospettiva, il reato è configurabile quando l’agente, pur non volendo direttamente la lesione dell’altrui reputazione, accetti il rischio che l’offesa venga diffusa e percepita da più persone.
La Cassazione ha affermato che «risponde di diffamazione colui che, pur non perseguendo lo scopo di diffamare, accetta consapevolmente il rischio che le proprie parole siano offensive e comunicate ad altri» (Cass., sez. V, 21 febbraio 2013, n. 8419). In dottrina, Mantovani (Parte speciale, p. 253) evidenzia come la riconduzione al dolo eventuale consenta di colmare le zone grigie tra consapevolezza e imprudenza, evitando vuoti di tutela.
Il dolo può essere escluso nei casi in cui l’agente versi in errore su elementi essenziali della fattispecie:
se l’autore ritiene, secondo gli standard della comunità di riferimento, che l’espressione non sia idonea a ledere la reputazione, il dolo è escluso. Ciò può accadere in contesti culturali o linguistici particolari. Mantovani richiama il caso dell’agente che non padroneggi la lingua e utilizzi un termine senza percepirne la valenza denigratoria.
quando l’autore ritiene, erroneamente, che l’affermazione non possa essere percepita da più persone, ad esempio credendo di inviare un messaggio privato e invece diffondendolo a un gruppo più ampio, può mancare l’elemento soggettivo (Mantovani).
la giurisprudenza ha riconosciuto che il giornalista può invocare l’esimente della verità putativa se abbia svolto adeguate verifiche sulla fonte, pur cadendo in errore (Cass., sez. V, 14 maggio 2010, n. 19046). In caso contrario, si configura dolo eventuale.
La diffamazione è reato esclusivamente doloso: la colpa non è sufficiente. Ciò genera problemi interpretativi nei casi di negligenza giornalistica, in cui la notizia diffamatoria venga diffusa senza adeguate verifiche.
Parte della dottrina ha proposto l’applicazione dell’art. 59, co. 4, c.p. (errore sulle cause di giustificazione) per escludere la punibilità nei casi in cui l’agente agisca in buona fede e con colpa nell’accertamento della verità.
Tuttavia, la giurisprudenza prevalente tende a ritenere comunque integrata la fattispecie dolosa, riconducendo tali condotte al dolo eventuale (Cass., sez. V, 15 maggio 2007, n. 23282; Cass., sez. V, 17 aprile 2015, n. 15643).
Il reato di diffamazione ha natura di reato istantaneo di evento. La consumazione si perfeziona nel momento in cui l’offesa diventa percepibile da almeno due persone, cioè nel momento in cui si realizza la comunicazione plurima.
La dottrina (Antolisei, Fiandaca-Musco) sottolinea come non sia necessario un effettivo danno, essendo sufficiente la concreta percepibilità del messaggio offensivo.
La Cassazione ha ribadito che la consumazione coincide con la percezione da parte della seconda persona (Cass., sez. V, 12 gennaio 2022, n. 323), anche se in tempi diversi, e che il reato non può dirsi prolungato per il solo fatto che l’affermazione continui a circolare.
Nei casi di diffamazione commessa a mezzo stampa, il momento consumativo coincide con la pubblicazione e diffusione del giornale.
In particolare, la giurisprudenza ha individuato come luogo di consumazione quello in cui è avvenuta la stampa del quotidiano o del periodico (Cass., sez. I, 8 ottobre 2002, n. 41038).
La diffusione successiva non prolunga il reato, ma ne costituisce soltanto un effetto permanente: la lettura del giornale da parte di terzi non integra nuove fattispecie, sebbene accresca il pregiudizio della vittima (Mantovani).
Per la diffamazione commessa mediante trasmissioni televisive in diretta, la consumazione coincide con il momento in cui il contenuto offensivo viene percepito dal pubblico. La Cassazione ha chiarito che la competenza territoriale si radica nel luogo in cui avviene tale percezione (Cass., sez. V, 9 agosto 2016, n. 33287).
Particolare attenzione merita la disciplina dettata dall’art. 30 l. n. 223/1990, che prevedeva, per i reati di diffamazione radiotelevisiva consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, l’applicazione delle sanzioni dell’art. 13 l. stampa.
A seguito della sentenza Corte cost. n. 150/2021, l’automatismo sanzionatorio del carcere è stato dichiarato incostituzionale, ma resta fermo – come precisato dalla Cassazione (sez. V, 15 marzo 2024, n. 26919) – il criterio di competenza per territorio fondato sul luogo di residenza della persona offesa.
Con l’avvento del web, si è posto il problema del momento consumativo della diffamazione digitale.
La giurisprudenza prevalente colloca la consumazione nel momento in cui il contenuto diventa accessibile online e quindi potenzialmente percepibile da una pluralità di soggetti.
Internet e siti web: il reato si consuma al momento dell’immissione del contenuto in rete (Cass., sez. V, 6 giugno 2012, n. 23624).
YouTube e piattaforme video: trattandosi di reato istantaneo, la consumazione coincide con la pubblicazione del video, e da quel momento decorre la prescrizione (Cass., sez. V, 24 giugno 2022, n. 24585).
Social network: la pubblicazione di un post o commento offensivo su Facebook configura diffamazione aggravata ex art. 595, co. 3 c.p., e la consumazione si perfeziona al momento della messa online (Cass., sez. V, 13 luglio 2018, n. 40083).
Cache e condivisioni: la successiva permanenza del contenuto sul web (cache, screenshot, condivisioni) non dà luogo a nuove consumazioni, ma amplifica gli effetti dannosi. È stata esclusa la configurabilità di un “reato permanente”, trattandosi di mera propagazione di un evento già consumato.
La qualificazione come reato istantaneo comporta che la prescrizione decorra dal momento della pubblicazione o della prima diffusione.
Per i contenuti digitali, la Cassazione ha precisato che rileva l’atto di immissione in rete e non la successiva visualizzazione da parte dei singoli utenti (Cass., sez. V, 21 settembre 2015, n. 31677).
Tale impostazione evita di trasformare la diffamazione online in un reato “eterno”, pur riconoscendo che la persistenza dei contenuti può aggravare gli effetti sul piano risarcitorio e della tutela civilistica.
La configurabilità del tentativo dipende dalla qualificazione della fattispecie.
Se si considera la diffamazione un reato di pericolo, il tentativo appare difficilmente configurabile, poiché la condotta è già tipica al momento della comunicazione offensiva.
Se invece la si considera un reato di danno, è teoricamente possibile ipotizzare il tentativo, ad esempio quando l’agente predisponga un messaggio diffamatorio che non giunga alla conoscenza di più persone per cause indipendenti dalla sua volontà (Dolcini-Gatta, Commentario, p. 94).
In giurisprudenza, le ipotesi di tentativo restano marginali, ma sono state ritenute configurabili quando la comunicazione offensiva sia stata impedita in limine (es. intercettazione di una lettera diffamatoria prima della consegna).
L’art. 595 c.p. disciplina una fattispecie base (comma 1) e una serie di forme aggravate (commi 2-4), calibrate sull’intensità dell’offesa e sui mezzi di diffusione utilizzati. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dimostra come la ratio sia quella di graduare la risposta punitiva in relazione alla specificità dell’addebito e alla potenzialità lesiva del mezzo impiegato.
Il primo aggravamento riguarda le ipotesi in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato.
La ratio è evidente: l’imputazione di un fatto specifico è reputata più insidiosa della generica denigrazione, poiché si presenta con l’apparenza di una verità accertata e, perciò, più credibile agli occhi dei destinatari.
La dottrina classica (Antolisei, Mantovani) ha definito il “fatto determinato” come quello caratterizzato da concretezza e circostanze storicamente individuate. La giurisprudenza, oscillante, ha richiesto ora la specificazione di tempo, luogo e modalità (Cass., sez. V, 18 giugno 1996, n. 7713), ora la mera indicazione di elementi sufficienti a rendere plausibile l’addebito (Cass., sez. V, 23 febbraio 1999, n. 7599; Cass., sez. V, 15 luglio 2021, n. 26512).
In ogni caso, l’aggravante è riconosciuta quando la narrazione trascenda l’astratta valutazione critica e si concreti in un’accusa che il pubblico possa percepire come verificabile e, quindi, più gravemente lesiva.
Il terzo comma prevede un aggravamento quando l’offesa è recata a mezzo stampa, con qualsiasi altro mezzo di pubblicità o in atto pubblico.
Ai sensi dell’art. 1 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, per “stampa” si intendono le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o chimici destinate alla pubblicazione, comprendendo quindi giornali, riviste, libri e persino la stampa clandestina.
La giurisprudenza, con orientamento costante, ha poi esteso la nozione di “mezzi di pubblicità” a qualsiasi strumento idoneo a diffondere il messaggio a una pluralità indeterminata di soggetti (Cass., sez. V, 28 maggio 2008, n. 31392), includendo in questa categoria anche Internet e i social network.
Quanto agli atti pubblici, l’offesa contenuta al loro interno – come verbali o delibere – è ritenuta di particolare gravità in ragione dell’autorevolezza del documento e della sua potenzialità diffusiva.
La Cassazione ha costantemente affermato che la pubblicazione su Facebook o altre piattaforme integra l’aggravante del comma 3 (Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 13979), trattandosi di mezzo che consente una diffusione incontrollata del contenuto.
La legge sulla stampa del 1948, all’art. 13, prevedeva un aggravamento specifico nel caso in cui la diffamazione a mezzo stampa consistesse nell’attribuzione di un fatto determinato.
Questa disposizione è stata al centro di una lunga vicenda giurisprudenziale e convenzionale. La Corte EDU ha ripetutamente condannato l’Italia per l’applicazione automatica della pena detentiva ai giornalisti (Belpietro c. Italia, 2013; Sallusti c. Italia, 2019).
Con la sentenza Corte cost. n. 150/2021, è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 13 nella parte in cui imponeva il carcere obbligatorio, ritenuto sproporzionato rispetto all’art. 21 Cost. e all’art. 10 CEDU. Oggi il giudice può ancora applicare la pena detentiva, ma solo in casi eccezionali, debitamente motivati, quando la condotta integri profili di straordinaria gravità (discorsi d’odio, campagne di disinformazione).
L’espansione dei mezzi digitali ha imposto un ripensamento delle aggravanti.
La giurisprudenza ha affrontato con particolare attenzione le nuove forme di comunicazione online.
La Cassazione ha qualificato come diffamazione aggravata i contenuti denigratori pubblicati su blog, ritenendo responsabile a titolo di concorso anche il gestore che, pur venuto a conoscenza del messaggio offensivo, non provveda alla sua rimozione (Cass., sez. V, 24 marzo 2019, n. 12546). Le Sezioni Unite hanno poi equiparato le testate giornalistiche telematiche a quelle cartacee, con conseguente applicabilità delle aggravanti previste dall’art. 595, comma 3, c.p. e della responsabilità del direttore ai sensi dell’art. 57 c.p. (Cass., SU, 29 luglio 2015, n. 31022).
Diverso il discorso per i provider: la Suprema Corte ha infatti escluso che l’art. 57 si applichi ai gestori di forum, blog e social network non registrati come testate giornalistiche, ma ha comunque riconosciuto la loro responsabilità per concorso quando risultino consapevoli del contenuto illecito diffuso attraverso le piattaforme da loro gestite (Cass., sez. V, 26 aprile 2018, n. 16751).
Dottrina recente (Di Ciommo, Foro it., 2019; Rubino-Langè, ilpenalista.it, 2020) ha messo in luce la tensione tra responsabilità degli intermediari e principio di tassatività, evidenziando il rischio di un “vuoto di tutela” nei confronti delle vittime di diffamazione online.
Il quarto comma dell’art. 595 prevede un aggravamento quando l’offesa è rivolta a corpi politici, amministrativi o giudiziari, o a un’autorità costituita in collegio. La ratio risiede nella maggiore incidenza dell’offesa, che si riverbera non solo sul singolo ma sull’istituzione.
Tuttavia, questo aggravamento pone in tensione la libertà di critica politica: la Cassazione ha chiarito che l’attribuzione di condotte di “mafiosità” a un sindaco, senza fondamento oggettivo, non rientra nella critica politica ma costituisce diffamazione (Cass., sez. V, 6 novembre 2020, n. 31263). La Corte EDU, d’altra parte, ha sempre sottolineato la necessità di garantire un ampio margine alla critica nei confronti dei rappresentanti pubblici (Lingens c. Austria, 1986).
Le cause di giustificazione assumono nel reato di diffamazione un ruolo decisivo, poiché operano come strumento di bilanciamento tra la protezione dell’onore individuale e la garanzia costituzionale e convenzionale della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.; art. 10 CEDU).
Il diritto penale si trova così chiamato a modulare la sua funzione repressiva in modo da non tradursi in un ostacolo alla libera circolazione delle idee e delle informazioni, soprattutto quando esse rivestano un interesse pubblico.
Il diritto di cronaca, espressione qualificata della libertà di stampa, è scriminato dall’art. 51 c.p., purché siano rispettati i noti tre requisiti elaborati dalla giurisprudenza:
Verità del fatto – intesa non in senso assoluto, ma con riferimento al nucleo essenziale della notizia. La Cassazione ha riconosciuto che errori marginali non escludono la scriminante (Cass., sez. V, 14 luglio 2009, n. 28258). La dottrina (La Rosa) distingue tra verità oggettiva e verosimiglianza, ammettendo che il giornalista possa confidare in buona fede in fonti attendibili. Tuttavia, un orientamento più rigoroso richiede la corrispondenza tra fatti narrati e fatti accaduti (Cass., sez. V, 21 aprile 2005, n. 12859).
Pertinenza – la notizia deve avere un interesse pubblico alla conoscenza, che giustifichi la compressione della reputazione individuale. La Cassazione distingue tra interesse “immediato”, connesso a fatti di intrinseca rilevanza sociale, e interesse “mediato”, quando circostanze della vita privata assumono rilievo per la carica pubblica o la funzione del soggetto (Cass., sez. V, 23 gennaio 1997, n. 1473).
Continenza – le modalità espositive devono essere corrette, senza travalicare in espressioni gratuite o insultanti. La Corte ha escluso la scriminante quando l’articolo si traduca in un’aggressione verbale, con linguaggio sproporzionato o insinuazioni malevole (Cass., sez. V, 14 maggio 2005, n. 19381).
La Corte EDU ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca è protetto dall’art. 10 CEDU, ma può incontrare limiti quando non ricorrano tali condizioni (Axel Springer AG c. Germania, GC, 2012). In materia di cronaca giudiziaria, ha distinto l’interesse pubblico all’informazione dall’obbligo di rispettare la presunzione di innocenza (Allen c. Regno Unito, GC, 2013).
La critica, intesa come espressione di opinioni e valutazioni, presenta margini più ampi rispetto alla cronaca, poiché ha natura soggettiva e valutativa. Tuttavia, anch’essa incontra limiti:
deve fondarsi su un nucleo di verità storica (Cass., sez. V, 13 febbraio 2014, n. 7715);
deve essere pertinente all’oggetto discusso;
deve mantenere un livello di continenza, pur ammettendo l’uso di toni aspri e polemici (Cass., sez. V, 16 luglio 2018, n. 32027).
Particolare rilievo assume la critica politica, che gode di un margine di tolleranza maggiore, essendo funzionale al controllo democratico. La Cassazione ha chiarito che essa non può però degenerare in accuse infondate di criminalità (Cass., sez. V, 6 novembre 2020, n. 31263, su sospetto di “mafiosità” attribuito a un sindaco). La Corte EDU conferma che i politici sono soggetti a un grado più elevato di esposizione alla critica (Lingens c. Austria, 1986).
Uguale rilievo ha la critica giudiziaria: la Suprema Corte ha ammesso toni anche aspri nei confronti dell’operato di magistrati, purché la critica non si traduca in attacchi personali idonei a minarne l’indipendenza (Cass., sez. V, 27 luglio 2017, n. 37226).
La satira è una forma peculiare di critica, caratterizzata dall’uso di linguaggi simbolici, paradossali e iperbolici. La giurisprudenza la considera espressione costituzionalmente protetta, purché non degeneri in aggressioni personali gratuite. La Cassazione ha affermato che il giudice deve tener conto della specificità del linguaggio satirico, ma può escludere la scriminante quando l’autore oltrepassi i limiti, esponendo la vittima al pubblico disprezzo (Cass., sez. V, 30 settembre 2013, n. 37706).
Il tema della verità putativa si collega al problema dell’errore. La Cassazione ha riconosciuto che il giornalista che abbia svolto un serio lavoro di verifica, pur cadendo in errore, può invocare l’esimente putativa del diritto di cronaca (Cass., sez. V, 14 maggio 2010, n. 19046). Diversamente, se l’errore dipende da colpa o da scarsa diligenza, l’esimente non opera e può configurarsi dolo eventuale.
La Corte EDU ha più volte condannato l’Italia per condotte giudiziarie ritenute sproporzionate.
Nel caso Magosso e Brindani c. Italia (2020), ha censurato la condanna di due giornalisti che avevano pubblicato un’intervista, ritenendo sproporzionata la restrizione alla libertà di stampa.
Nel caso Sallusti c. Italia (2019), ha ritenuto la pena detentiva per diffamazione incompatibile con l’art. 10 CEDU, salvo circostanze eccezionali.
Il principio che emerge è che la diffamazione deve essere sempre valutata alla luce del criterio di necessità e proporzionalità: solo quando l’offesa raggiunga livelli di eccezionale gravità può giustificarsi un sacrificio incisivo della libertà di espressione.
Il reato di diffamazione è procedibile a querela di parte (art. 595 c.p.). La querela costituisce, dunque, condizione di procedibilità, funzionale a bilanciare l’interesse punitivo con l’esigenza di evitare la criminalizzazione di condotte bagatellari o prive di reale lesività.
Fanno eccezione i casi in cui ricorrano circostanze aggravanti che determinano l’innalzamento della competenza al Tribunale: in tali ipotesi si applica l’art. 4 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
Particolare attenzione merita la diffamazione a mezzo stampa: la Corte costituzionale, pur avendo dichiarato illegittimo l’automatismo carcerario (sent. n. 150/2021), non ha inciso sulla procedibilità, che resta subordinata alla querela della persona offesa.
La legittimazione spetta alla persona offesa.
Tuttavia, la giurisprudenza ha ampliato la nozione di soggetto passivo:
anche gli enti collettivi possono proporre querela, in quanto titolari di un “onore sociale” (Cass., sez. V, 30 giugno 2011, n. 27383);
nel caso di diffamazione del defunto, la querela può essere presentata dai prossimi congiunti, iure proprio, per l’offesa riflessa alla loro reputazione (Cass., sez. V, 15 luglio 2021, n. 31530);
quando l’offesa è rivolta a un corpo politico o istituzionale, il diritto di querela spetta ai soggetti che ne hanno la rappresentanza (Cass., sez. V, 21 ottobre 2015, n. 34395).
La Cassazione ha inoltre affermato che la remissione della querela nei confronti di un giornalista si estende all’intervistato, poiché l’intervista integra un’unica condotta offensiva (Cass., sez. V, 14 gennaio 2022, n. 319).
La competenza è così ripartita:
Giudice di pace: diffamazione semplice (commi 1 e 2);
Tribunale monocratico: diffamazione aggravata ex commi 3 e 4 o quando ricorrano aggravanti ex art. 4, co. 3, d.lgs. 274/2000.
Sul piano territoriale, il criterio generale è quello dell’art. 8 c.p.p. (luogo di consumazione).
Per la diffamazione a mezzo stampa: rileva il luogo di pubblicazione.
Per quella a mezzo televisione: rileva il luogo in cui l’offesa è percepita (Cass., sez. V, 9 agosto 2016, n. 33287).
Per quella online: la Cassazione ha individuato il momento consumativo nell’immissione del contenuto in rete e la competenza nel luogo di caricamento (Cass., sez. V, 21 settembre 2015, n. 31677). Tuttavia, in caso di pluralità di persone offese, può applicarsi l’art. 9 c.p.p., radicando la competenza nel luogo di immissione originaria (Cass., sez. V, 15 marzo 2024, n. 26919).
La diffamazione, per la sua cornice edittale, non consente né arresto né fermo, né la custodia cautelare in carcere. L’art. 595 non rientra infatti tra i delitti per i quali l’art. 280 c.p.p. ammette la custodia.
Non sono consentite neppure altre misure cautelari personali.
Tuttavia, sul piano reale, è stato discusso il sequestro preventivo di giornali e siti web. Le Sezioni Unite hanno escluso l’ammissibilità del sequestro preventivo delle testate giornalistiche online, in analogia con la stampa cartacea, salvo casi tassativi (Cass., SU, 29 luglio 2015, n. 31022). La Cassazione ha poi esteso tale principio, ritenendo la testata telematica equiparabile alla stampa tradizionale (Cass., sez. V, 11 gennaio 2019, n. 1275).
Essendo reato istantaneo, la prescrizione decorre dal momento della consumazione:
pubblicazione (stampa),
trasmissione (TV, radio),
immissione in rete (web, social).
La permanenza del contenuto online non prolunga il reato, ma solo gli effetti dannosi. La Cassazione ha escluso che si tratti di reato permanente (Cass., sez. V, 24 giugno 2022, n. 24585).
Il discrimine classico tra diffamazione (art. 595 c.p.) e ingiuria (art. 594 c.p., oggi depenalizzato ex d.lgs. 7/2016) è l’assenza dell’offeso:
nell’ingiuria, l’offesa è comunicata direttamente all’interessato, anche alla presenza di terzi;
nella diffamazione, l’offesa è comunicata a più persone in assenza dell’offeso, il quale non può replicare.
La Cassazione ha precisato che integra ingiuria, non diffamazione, la condotta di chi rivolga offese all’offeso in una chat vocale alla presenza di altri utenti (Cass., sez. V, 24 marzo 2020, n. 10905). Viceversa, quando il messaggio è indirizzato ad altri, anche se in copia all’offeso, si configura diffamazione (Cass., sez. V, 21 luglio 2016, n. 30318).
Il rapporto con la calunnia (art. 368 c.p.) è di specialità. La diffamazione si distingue perché l’addebito non integra l’accusa di un reato, mentre la calunnia consiste nell’incolpare qualcuno di un reato sapendolo innocente.
Se l’addebito diffamatorio si traduce in un’accusa di reato, l’ipotesi è assorbita dalla calunnia (Cass., sez. VI, 26 giugno 2003, n. 26994).
L’oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341-bis c.p.) presenta elementi specializzanti:
il soggetto passivo deve essere un pubblico ufficiale,
l’offesa deve avvenire in sua presenza,
deve sussistere un nesso funzionale con l’esercizio delle funzioni.
La diffamazione, invece, riguarda comunicazioni a più persone in assenza del pubblico ufficiale. In questo senso, l’oltraggio è fattispecie speciale rispetto all’ingiuria, ma distinta dalla diffamazione (Gatta).
La diffamazione può concorrere con il reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) quando le condotte diffamatorie si inseriscano in un contesto di molestia sistematica. La Cassazione ha ammesso il concorso, sottolineando che i due reati proteggono beni giuridici differenti (la reputazione e la libertà morale) (Cass., sez. V, 15 dicembre 2014, n. 51718).
Non integra diffamazione l’invio di un esposto alle autorità volto a segnalare presunte violazioni disciplinari o deontologiche, quando l’iniziativa sia circoscritta alle finalità istituzionali e redatta con forma contenuta. La Cassazione ha riconosciuto l’applicazione dell’art. 51 c.p. come esercizio di un diritto (Cass., sez. V, 10 ottobre 2016, n. 42576; Cass., sez. V, 18 settembre 2018, n. 42587).
In tema di concorso, la Cassazione ha affermato che il direttore responsabile di una testata online risponde non per omesso controllo ex art. 57 c.p., ma per concorso ex art. 110 c.p. se risulti la sua adesione al contenuto diffamatorio (Cass., sez. V, 14 novembre 2017, n. 52743).
Analogamente, il blogger che mantenga consapevolmente un commento diffamatorio pubblicato da terzi sul proprio sito è responsabile a titolo di concorso, avendo contribuito alla diffusione del messaggio (Cass., sez. V, 24 marzo 2019, n. 12546).
Fax: integra diffamazione aggravata l’invio di documenti dal contenuto offensivo tramite fax, in quanto mezzo idoneo a raggiungere una pluralità di destinatari (Cass., sez. V, 10 febbraio 2015, n. 6081).
Cartelli condominiali: l’affissione di un avviso con i nominativi dei condomini morosi al portone condominiale integra diffamazione, poiché non vi è alcun interesse pubblico alla diffusione della notizia, ancorché veritiera (Cass., sez. feriale, 26 settembre 2014, n. 39986).
Facebook: la pubblicazione di un post con accuse immotivate verso un docente (manipolazione psicologica degli studenti) è stata ritenuta diffamatoria, per travalicamento dei limiti della continenza (Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 13979).
YouTube: l’immissione di un video offensivo integra un reato istantaneo, consumato al momento della pubblicazione online, con decorrenza della prescrizione da quel momento (Cass., sez. V, 24 giugno 2022, n. 24585).
Peer to peer: diffamazione aggravata è stata riconosciuta nella condivisione su reti P2P di filmati sessuali falsamente attribuiti alla persona offesa, data la potenzialità diffusiva dello strumento (Cass., sez. V, 14 ottobre 2015, n. 41276).
Fotomontaggi: la pubblicazione su siti accessibili a tutti di fotografie alterate di docenti costituisce diffamazione, trattandosi di immagini intrinsecamente offensive (Cass., sez. V, 24 luglio 2018, n. 36076).
Caricature: la satira, pur godendo di ampia protezione, perde tutela quando trascende in dileggio gratuito. La Cassazione ha escluso la scriminante quando la caricatura riduceva l’immagine del politico a un mero oggetto di scherno, privo di finalità critica (Cass., sez. V, 30 settembre 2013, n. 37706).
Notizia inesatta ma non diffamatoria: non integra diffamazione l’erronea indicazione che un soggetto fosse stato rinviato a giudizio, anziché destinatario di avviso di conclusione delle indagini, trattandosi di imprecisione marginale (Cass., sez. V, 18 maggio 2020, n. 15093).
Denuncia-querela: è scriminato il giornalista che si limiti a riportare il contenuto essenziale di una denuncia, senza arbitrarie aggiunte, nel rispetto della verità e della continenza (Cass., sez. V, 18 maggio 2020, n. 15086).
Interviste: la Cassazione ha riconosciuto l’esimente del diritto di cronaca al giornalista che riporti fedelmente dichiarazioni offensive rilasciate da un personaggio pubblico, se l’intervista è di interesse generale (Cass., sez. V, 15 giugno 2020, n. 16959; Cass., sez. II, 13 maggio 2021, n. 19889).
Errore sul patteggiamento: esclusa l’esimente nei confronti del giornalista che aveva falsamente riferito che l’imputato avesse chiesto il patteggiamento, trattandosi di circostanza sostanziale (Cass., sez. V, 14 gennaio 2020, n. 7008).
Epiteto “idiota” su Facebook: la Suprema Corte ha escluso la diffamazione per l’uso dell’epiteto rivolto a un poliziotto non identificato, ritenendo prevalente il diritto di critica sull’operato delle forze dell’ordine (Cass., sez. V, 18 maggio 2020, n. 15089).
Giudice corrotto: al contrario, è stata ritenuta gravemente diffamatoria l’espressione “giudice corrotto”, poiché l’integrità morale è requisito essenziale per la funzione giurisdizionale (Cass., sez. V, 19 giugno 2018, n. 27930).
Espressioni dispregiative riferite a disabilità: integra diffamazione il riferimento a un handicap reale espresso in termini denigratori (Cass., sez. V, 26 luglio 2016, n. 32789).
Offese razziali: è stata ritenuta aggravata dalla finalità di discriminazione razziale l’espressione «se ne ritorni nella giungla dalla quale è uscito», rivolta a un politico di origine africana (Cass., sez. V, 16 febbraio 2017, n. 7859).
Critica sindacale: è stata invece riconosciuta la scriminante del diritto di critica sindacale per l’uso dell’espressione “sottocultura da letamaio”, riferita a una condotta di sfruttamento padronale, in quanto funzionale alla disapprovazione delle idee razziste del datore di lavoro (Cass., sez. V, 13 maggio 2022, n. 17784).