Il reato di diffamazione ex art. 595 cp
1. In che cosa consiste il reato di diffamazione?
3. Diffamazione a mezzo stampa (art. 595 co. 3 e 596-bis c.p.).
5. Quando non si configura: il diritto di cronaca (o di critica).
1. In che cosa consiste il reato di diffamazione?
Il reato di diffamazione è previsto dall’art. 595 c.p. tra i “delitti contro l’onore” e ricorre quando taluno, comunicando con più interlocutori, offende volontariamente la reputazione di un altro.
Affinché sussista il reato di diffamazione, ai sensi del comma 1 dell’art. 595 c.p., l’offesa deve essere comunicata in assenza dello specifico destinatario e, contestualmente, alla presenza di almeno due persone.
Pertanto, il reato di diffamazione si realizza quando il soggetto leso nella sua reputazione non percepisca immediatamente l’offesa e quando, allo stesso tempo, la notizia diffamante raggiunga un certo grado di diffusività.
I presupposti che integrano il reato di diffamazione sono, dunque, i seguenti:
-
l’inconsapevolezza (o l’oggettiva incapacità di percepire l’offesa) del soggetto diffamato;
-
la presenza di almeno due ascoltatori (anche non fisicamente e contestualmente presenti);
-
una notizia diffamante.
Secondo la giurisprudenza, tuttavia, l’elemento che connota il reato di diffamazione è l’oggettiva circolazione di una notizia in grado di pregiudicare la stima che altri abbiano del soggetto diffamato.
In quest’ottica, pertanto, non è necessario che gli interlocutori del soggetto diffamante siano almeno due (com’è secondo l’orientamento tradizionale), perché può rivelarsi sufficiente all’integrazione del reato di diffamazione anche che la notizia sia trasmessa ad un solo soggetto che, poi, a sua volta, la trasmetta ad altri (e così via).
Si immagini, allora, che Tizio e Caia abbiano per lungo tempo una relazione extraconiugale in una piccola realtà provinciale e che il legame venga brutalmente interrotto da Tizio.
Si metta il caso che Caia, in preda al rancore, cominci a raccontare in giro che Tizio è un uomo infedele e meschino, al punto tale che la clandestina relazione extraconiugale tra i due, oltre che la presunta viltà di Tizio, diventi di pubblico dominio. Tizio è stato senz’altro invaso nella sfera della sua riservatezza e, al contempo, Caia ha avuto una condotta che integra pienamente il reato di diffamazione.
Il reato di diffamazione di cui al comma 1 dell’art. 595 c.p. si consuma nel momento e nel luogo in cui la notizia offensiva viene appresa (o percepita) dagli interlocutori.
E, tuttavia, perché si realizzi il reato di diffamazione, l’offesa deve essere rivolta verso un soggetto determinato: senonché, la giurisprudenza prevalente esclude che si realizzi il reato di diffamazione tutte le volte che vengano pronunciate da taluno frasi offensive nei confronti di un destinatario solo vagamente evocato e, quindi, non specificamente individuabile (ex multis si vd. Cass. Pen., 24065 del 2016).
Se, ad esempio, durante una trasmissione radiofonica, uno degli intervistati dichiari che “gli abitanti di Palermo sono tutti mafiosi”, il reato di diffamazione non si configura, perché la generica affermazione offensiva, a cui è sotteso un bigotto luogo comune, rivolta agli abitanti di un’area geografica italiana, per quanto specifica, non costituisce un contenuto in grado di diffamare un soggetto precisamente identificabile.
Ciò non significa, però, che il soggetto verso cui è rivolta la condotta diffamante debba essere nominativamente individuato (si veda tra le tante, Cass. Pen., 7410 del 2011): la circostanza che il soggetto sia individuabile, sulla base delle informazioni fornite dal soggetto diffamante, pur in assenza di specifici riferimenti nominali, è sufficiente ad integrare il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. (sempre che sussistano gli altri presupposti).
2. Quando è aggravata?
Inalterati i presupposti della diffamazione (si veda il paragrafo precedente), ricorre l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi del comma 2 dell’art. 595 c.p., quando l’offesa diffusa consista nell’attribuzione ad un soggetto specifico di un fatto determinato.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, un fatto s’intende determinato, quando ne siano specificato, ad opera del soggetto che diffama, il contenuto.
Se, dunque, una volta che il soggetto abbia trasmesso la notizia diffamante ad altri, sia possibile per questi ultimi, sulla scorta delle sole informazioni ricevute, ricostruire concretamente il fatto appreso nei suoi contenuti, sussiste il reato di diffamazione aggravata ai sensi del comma 2 dell’art. 596 c.p.: ciò comporterà un aumento di pena.
È intuitivo che la comunicazione a più persone di un fatto concreto e specifico lo renda più verosimile e, quindi, potenzialmente in grado di indurre un numero maggiore di persone a diffonderlo.
Il responsabile di diffamazione aggravata dall’aver attribuito un fatto determinato non può dimostrare di non aver commesso il reato introducendo nel processo come prova la verità o la notorietà del fatto attribuito al soggetto diffamato (ai sensi dell’art. 595 c.p.) se non in eccezionali ipotesi indicate dal codice penale.
La legge ammette, tuttavia, la possibilità che il soggetto offeso e l’offensore decidano in comune accordo di far accertare la verità del fatto in un separato procedimento.
Ricorre altresì l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi del comma 4 dell’art. 595 c.p., quando l’offesa è rivolta ad un rappresentante del “corpo politico, amministrativo o giudiziario”; anche in questo caso l’affermazione della responsabilità penale del soggetto diffamante comporterà un aumento di pena a suo carico.
Il presupposto dell’aggravante di cui al comma 4 dell’art. 595 c.p. e, quindi, della diffusione di contenuti che diffamino figure istituzionali, deve individuarsi nell’esigenza di evitare che un generale discredito deteriori la percezione collettiva di un rappresentante delle Istituzioni, fino a compromettere l’esercizio delle funzioni che gli sono affidate.
Si faccia il caso di un ex-sindaco che tappezzi la città che ha smesso di amministrare con manifesti rappresentanti il volto del sindaco in carica unitamente ad epiteti dispregiativi volti a ledere la sua reputazione e ad alimentare la sfiducia della collettività nei suoi confronti: questa sarebbe indubitabilmente una condotta di diffamazione aggravata ai sensi del comma 4 dell’art. 595 c.p.
3. Diffamazione a mezzo stampa.
Il comma 3 dell’art. 595 c.p. descrive un’ulteriore ipotesi di diffamazione aggravata che ricorre quando “l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico”.
In tema di diffamazione a mezzo stampa, la nozione di “stampa” di cui al co. 3 dell’art. 595 c.p. ricomprende qualunque riproduzione grafica, in qualsiasi modo realizzata, purché destinata ad essere diffusa presso una platea indeterminabile di destinatari. Secondo la Corte di Cassazione è, quindi, del tutto irrilevante l’ampiezza della platea o il numero di lettori effettivamente raggiunti dai contenuti diffamatori diffusi.
Si pensi all’ipotesi della pubblicazione di un libro che contenga espressioni diffamatorie nei confronti di un personaggio pubblico: lo scrittore sarà senz’altro responsabile del reato di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p., al di là della consistenza numerica dei lettori del libro.
Nelle ipotesi di diffusione di contenuti diffamatori a mezzo stampa, colui che li ha prodotti non risulta l’unico responsabile del reato di diffamazione di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p.; ciò in quanto l’art. 596-bis c.p. stabilisce che, quando la diffamazione è commessa con il mezzo della stampa, sono penalmente responsabili, ai sensi degli artt. 57, 57-bis e 58 c.p., anche il direttore (o il vice-direttore) in caso di stampa periodica e l’editore in caso di stampa non periodica che abbiano omesso di vigilare sull’adeguatezza dei contenuti redatti.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, questi ultimi sono costantemente obbligati, insieme al giornalista (o redattore), a verificare la verità dei fatti esposti e l’appropriatezza delle modalità narrative, proprio al fine di evitare che venga alimentato un ingiustificato e diffuso discredito sull’altrui reputazione.
Rientra nella nozione di stampa di cui all’art. della l. n. 47 dell’8 febbraio 1948 anche la testata giornalistica telematica: sicché, secondo la Corte di Cassazione, sono applicabili alle condotte di diffamazione commesse mediante la pubblicazione di articoli online le medesime disposizioni di legge (ovvero l’art. 595 comma 3 c.p. e l’art. 57 c.p.).
4. Diffamazione a mezzo web.
La circostanza che i contenuti che circolano in rete (come tra i social network facebook, instagram, tik tok) siano potenzialmente in grado di raggiungere, con un’impressionante rapidità, un numero indefinito di utenti, rende le condotte diffamatorie commesse a mezzo web equiparabili a quelle tradizionalmente commesse a mezzo stampa.
Il comma 3 dell’art. 595 c.p. dispone che “se l’offesa è recata […] con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” la condotta integra il reato di diffamazione e, pertanto, la diffusione nel web di contenuti lesivi della dignità o della reputazione altrui integra la fattispecie di diffamazione aggravata a tutti gli effetti.
L’amministratore del sito internet o del social network mediante cui sono stati eventualmente diffusi contenuti diffamatori, secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, non è responsabile al pari del direttore o dell’editore di una testata giornalistica online e ciò in quanto i vari mezzi telematici di diffusione del pensiero non rientrano nella nozione legale di “stampa” né possono dirsi destinati ad un’attività di informazione professionale.
Nel mondo del web e dei social network, quindi, l’unico responsabile del reato di diffamazione sarà il soggetto che ha pubblicato contenuti diffamatori.
Ne consegue che la pubblicazione di un messaggio diffamatorio nei confronti di taluno su di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595 comma 3 c.p., dal momento che il messaggio è potenzialmente capace di raggiungere un numero significativo di persone.
5. Quando non si configura: il diritto di cronaca.
Il reato di diffamazione a mezzo stampa non si configura quando il soggetto sia restato nei limiti dell’esercizio del proprio diritto di cronaca o di critica.
La condotta diffamatoria non sussiste se il contenuto diffuso a mezzo stampa rispetti i canoni, elaborati dalla giurisprudenza nel tempo, di verità, continenza e pertinenza.
Ciò vuol dire che se una notizia, diffusa da una testata giornalistica, è verificata nella sua veridicità, è espressa in maniera appropriata, e risulta adeguata (o relativa) al complessivo contesto informativo, non sussistono i presupposti di una diffamazione aggravata, nonostante la notizia possa aver avuto un impatto notevole (o possa aver destabilizzato il soggetto coinvolto).
C’è, quindi, a carico dei redattori un dovere di verifica dei fatti esposti e delle relative fonti.
Qualora il soggetto lo faccia, la condotta diffamatoria non è punibile, in quanto scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca.
Si pensi, ad esempio, ad un articolo di stampa in cui si critichi l’operato di un magistrato inquirente. Se, in un ipotetico giudizio promosso da quest’ultimo a carico del redattore dell’articolo, dovesse emergere che nello scritto siano state riportate notizie veritiere ed obiettive al solo fine di garantire l’informazione pubblica, il reato di diffamazione non si sarebbe realizzato (si vd., a tal proposito, Cass. Pen., 19960 del 2019).
In tema di diffamazione a mezzo stampa o a mezzo web, pertanto, il reato non sussiste, se l’esercizio del diritto di critica (o di cronaca) non degrada nell’aggressione pubblica e verbale del soggetto criticato o coinvolto nella notizia di cronaca e, quindi, a condizione a che non sia ravvisabile nei contenuti diffusi “un attacco personale direttamente alla sfera privata [o professionale] dell’offeso e non sconfini nella contumelia e nella lesione della [sua] reputazione”.
6. Regime di procedibilità.
Il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. è procedibile a querela della persona offesa.
La legge riconosce primariamente al soggetto diffamato la possibilità di segnalare all’autorità giudiziaria il reato commesso ai propri danni.
Il comma 3 dell’art. 597 c.p., tuttavia, stabilisce che, qualora dovesse verificarsi un’eccezionale circostanza impeditiva, come la morte del soggetto diffamato, possono sporgere querela i suoi prossimi congiunti.
Si pensi anche all’ipotesi in cui la condotta diffamatoria consista nell’offesa alla memoria di un defunto: anche in tal caso possono proporre querela nei termini previsti dalla legge i suoi congiunti.
La querela dovrà essere sporta entro tre mesi dal momento in cui il soggetto (o i congiunti) ha appreso di essere stato diffamato.
Il reato di diffamazione si consuma in assenza del destinatario dei contenuti offensivi e, per tale ragione, il termine entro il quale è possibile sporgere una querela per diffamazione non decorre dal giorno in cui i contenuti offensivi sono stati diffusi ma dal giorno in cui il soggetto diffamato ne ha avuto notizia.
Il ritiro della querela comporta l’estinzione del reato e, quindi, la non punibilità del colpevole.
7. Le pene.
La fattispecie di diffamazione di cui al co. 1 dell’art. 595 c.p. è punita con la reclusione fino ad un anno e con la multa fino a 1.032 euro.
In tutti i casi di diffamazione aggravata, le pene sono aumentate, a seconda della gravità della fattispecie.
La diffamazione aggravata dall’aver attribuito un fatto determinato, di cui al comma 2 dell’art. 595 c.p., è punita con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a 2.065 euro.
La diffamazione aggravata dal mezzo della stampa o da qualunque altro mezzo di pubblicità, di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p., è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni e con una multa almeno di 516 euro.
Il direttore della testata giornalistica o l’editore della pubblicazione, se altrettanto responsabili del reato di diffamazione, sono soggetti a pene più lievi e, in particolare, alle pene previste per ciascuna delle fattispecie di diffamazione diminuite fino ad un terzo (come stabilisce l’art. 57 c.p.).
Va evidenziato che una sentenza di condanna per il reato di diffamazione costituisce anche il titolo per ottenere in sede civile il risarcimento dei danni subiti a causa della condotta diffamatoria.
8. Diffamazione o calunnia?
C’è una sostanziale differenza tra il reato di diffamazione e il reato di calunnia.
Il reato di calunnia, pur ledendo comunque la reputazione del destinatario, si realizza quando taluno attribuisca falsamente ad un altro la commissione di un reato, denunciandolo alle autorità competenti.
Si faccia il caso di Tizio che sporge una denuncia all’autorità giudiziaria in cui riferisce che Sempronio ha commesso una truffa ai danni dello Stato, sebbene sia in realtà consapevole che la truffa non si è mai verificata: Tizio ha calunniato Sempronio.
La calunnia sussiste, quindi, tutte le volte che taluno incolpi un altro di aver commesso un reato.
La diffamazione, invece, pur potendo consistere nell’attribuzione a taluno di un fatto determinato, non dipende dalla connotazione del fatto ma consiste, piuttosto, nell’illecita attività di divulgazione di notizie personali o riservate, al di là di ogni loro possibile rilevanza giuridica.
Inoltre, proprio per la diversa gravità, mentre il reato di diffamazione è procedibile a querela di parte (si il paragrafo 6), quello di calunnia è procedibile d’ufficio.
Se ha bisogno di aiuto può chiamarci al numero +393922838577 o inviare una mail a info.avvocatodelgiudice@gmail.com.