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Diffamazione: per la provocazione, fatto ingiusto non può essere un atto amministrativo


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione, ai fini della applicabilità della causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma 2, c.p., l'illegittimità intrinseca che deve connotare il "fatto ingiusto" altrui non può essere individuata sulla base dei criteri che presiedono al riconoscimento dell'illegittimità di un atto amministrativo, ma si configura solo in comportamenti che ictu oculi non possano, neppure astrattamente, trovare giustificazione in disposizioni normative ovvero nelle regole comunemente accettate della convivenza civile (Cassazione penale sez. V - 20/01/2021, n. 4943).

Fonte: CED Cass. pen. 2021



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V - 20/01/2021, n. 4943

RITENUTO IN FATTO

1. La sentenza impugnata è stata emessa l'11 ottobre 2019 dal Tribunale di Teramo, che ha riformato quoad poenam la decisione del Giudice di pace della stessa città che aveva condannato P.B., sia ai fini penali che civili, per due episodi di diffamazione, entrambi ai danni di M.M. e S.M.R., rispettivamente, responsabile ed istruttore esecutivo dell'ufficio tributi del Comune di Tortoreto. Le espressioni diffamatorie erano contenute in due missive inviate - il (OMISSIS) - da P. al Sindaco ed al Segretario comunale del Comune suddetto e, la seconda, anche all'ufficio tributi in cui prestavano servizio le due persone offese.


Nella prima missiva - secondo quanto si legge nel capo di imputazione, era scritto: "Azzittirò quelle due facinorose esaltate che pretendono che lo vada a prostrarmi e intercedere", "opporre ostacoli e burocrazia è comportamento tipico e consacrato di chi ha recondite intenzioni", "verrò a capo della spregiudicatezza e ignoranza dell'ufficio tributi", "la M. un A-Be-Ce-Dario per questa matta scriteriata, da novella Pinocchio rimandatela a scuola".


Nella seconda missiva si leggeva: "L'ufficio tributi per mano di un'asina incompetente, Dott.ssa approssimata di laurea breve e a nome S., cosa altro dice una concessione secondo le due teste gloriose dell'ufficio tributi...rapaci avvelenati sull'osso dell'incentivazione e allora che vanno cercando le due facinorose esaltate" e "non ha temuto di abusare del potere connesso alle sue funzioni pubbliche pur di nuocermi sta quattr'ossi senza culo e senza tette...sta vipera velenosa".


2. Contro l'anzidetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell'imputato, ricorso suddiviso in tre motivi.


2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia violazione di legge e lamenta la mancata assoluzione, quantomeno ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2, dell'imputato. La tesi del ricorrente - per cui si tratterebbe di ingiuria e non di diffamazione - muove dal presupposto che l'immediata conoscenza, da parte delle persone offese, delle due missive avesse fatto venire meno un elemento essenziale del reato. Si legge nel ricorso che l'imputato sapeva che le missive sarebbero state immediatamente comunicate alle due interessate e, comunque, la seconda missiva era indirizzata anche all'ufficio tributi dove le due persone offese erano in servizio, oltre che al Sindaco ed al Segretario comunale. Il Tribunale aveva errato nel ritenere che l'iniziativa di comunicare la missiva alle due interessate fosse stata del Segretario comunale e che gli scritti fossero stati diramati agli uffici interessati dopo la ricezione da parte del Sindaco e del segretario comunale; ciò in quanto le due interessate avevano avuto immediata contezza dei due esposti, come confermato dai testi escussi. Ne conseguirebbe che non si tratta di diffamazione ma di ingiuria, non più prevista dalla legge come reato.


2.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta il mancato riconoscimento della scriminante di cui all'art. 599 c.p., anche nella forma putativa. Vi sarebbe prova in atti - si sostiene nell'impugnativa - che l'imputato è stato provocato dai comportamenti delle due persone offese, che avevano avuto un atteggiamento persecutorio, in spregio anche ai provvedimenti giudiziali positivi per il ricorrente, ignorati dalle due dipendenti comunali. In dibattimento, la M. aveva incredibilmente negato di conoscere gli aspetti delle lamentele di P., ancorchè avesse risposto ad una precisa interrogazione del Segretario comunale e fosse stata sollecitata dall'assessore all'urbanistica. La risposta fornita circa il fatto che le ragioni dell'imputato, ancorchè fondate, non potessero essere tutelate perchè egli non aveva impugnato il piano regolatore, sarebbe provocatoria. Oltre a rimarcare che l'ente avrebbe dovuto provvedere in autotutela - sostiene il ricorso -il Tribunale avrebbe ignorato la sentenza della Commissione tributaria provinciale, che aveva dato ragione al prevenuto, ed una dichiarazione di un assessore, che aveva invitato l'imputato a soprassedere per "quieto vivere". Conclude l'impugnativa sostenendo che P. non voleva offendere la reputazione delle querelanti, ma solo formulare un critica feroce sulla loro mancanza di competenza.


2.3. Il terzo motivo di ricorso denunzia l'eccessività del risarcimento del danno liquidato dal Giudice di pace, perchè le persone offese non avevano dimostrato alcun danno e comunque si trattava di liquidazione eccessiva e disancorata da qualsiasi criterio equitativo.


3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha sostenuto l'inammissibilità del ricorso perchè:


- il primo motivo contiene una ricostruzione alternativa ed è versato in fatto; errata in diritto sarebbe la tesi secondo cui, se gli obiettivi delle invettive sono tra le destinatarie dello scritto, non vi sarebbe diffamazione;


- il Tribunale, quanto all'invocata provocazione, aveva attinto alla giurisprudenza consolidata di questa Corte;


- non sarebbe sindacabile, in questa sede, la quantificazione del danno.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è complessivamente infondato e, pertanto, va respinto.


1. Il primo motivo di ricorso - che insiste sul tema della conoscenza del contenuto delle due missive da parte delle persone offese, onde sostenere che si tratti non già di diffamazione, ma di ingiuria- è infondato.


Quanto alla prima delle due missive, essa non era indirizzata nè alle persone offese, nè all'ufficio cui esse prestavano servizio, il che fa senz'altro escludere che l'azione posta in essere dall'imputato fosse diretta anche alla contestuale comunicazione delle espressioni diffamatorie alle due donne, a nulla valendo la circostanza che ciò fosse prevedibile (o che l'imputato lo prevedesse), date le dimensioni ridotte dell'apparato comunale, perchè non può attribuirsi rilievo ad una mera supposizione dell'agente.


In disparte questa considerazione, il Collegio osserva che neanche se la missiva fosse stata espressamente indirizzata anche alle due donne, ciò farebbe escludere la diffamazione, trattandosi di una tema - quello della coeva comunicazione anche alle persone offese - ininfluente ad escludere la penale rilevanza del fatto ex art. 595 c.p., come si dirà nel prosieguo a proposito della seconda missiva.


In ordine a quest'ultima, infatti, la circostanza che l'ufficio in cui le persone offese prestavano servizio fosse indicato nell'indirizzario della missiva non è idonea a far ritenere che si tratti di ingiuria, dal momento che l'invio dello scritto a più destinatari, con il prevedibile arrivo del medesimo in momenti diversi, non garantiva quella contestualità di conoscenza tra persone offese e terzi destinatari che potrebbe giustificare l'assimilazione all'ingiuria.


A questo proposito, l'esegesi di questa Corte, se pure con sfaccettature diverse, non milita nel senso auspicato dal ricorrente, perchè in nessun caso consente di escludere, in una vicenda come quella in discorso, la diffamazione.


Secondo un orientamento, allorchè l'offesa sia arrecata con una comunicazione scritta indirizzata sia alla persona offesa, sia a più altri destinatari, che ne vengono quindi messi a conoscenza, si realizza il concorso fra il reato di ingiuria ex art. 594 c.p., comma 2, ormai depenalizzato, e quello di diffamazione ex art. 595 c.p., Infatti allorchè l'offesa sia arrecata a mezzo di uno scritto e sia indirizzata all'interessato ed a terzi estranei, non è lo stesso fatto ad assumere rilievo, ma due fatti ben distinti, ossia la trasmissione della lettera al diretto interessato e la trasmissione delle altre missive, seppur di analogo contenuto, ai terzi destinatari, per la cui realizzazione occorre porre in essere distinte condotte, sorrette dal correlativo coefficiente psicologico (Sez. 5, n. 34484 del 6/7/2018, n. m.; Sez. 5, n. 48651 del 22/10/2009, Nascè e altro, Rv. 245827; Sez. 5, n. 12160 del 04/02/2002, Gaspari A, Rv. 221252; Sez. 5, n. 2498 del 07/07/1983, Loy, Rv. 160454).


Altri precedenti hanno affermato il principio secondo cui la missiva a contenuto diffamatorio diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa (Sez. 5, n. 18919 del 15 marzo 2016, Laganà, Rv. 266827; con riferimento alle mail, Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, Nastro, Rv. 254044).


In nessun caso, come è evidente, i condivisibili insegnamenti di questa Corte consentono di escludere che l'invio di uno scritto diffamatorio anche alla persona offesa, oltre che a più altri destinatari, consenta di addebitare al reo solo l'ingiuria (per una rievocazione dei due orientamenti, proprio per negare che fatti come quelli sub iudice ricadano nella sola ingiuria, cfr. Sez. 5, n. 12603 del 02/02/2017, Segagni, Rv. 269517, n. m. sul punto).


2. Il secondo motivo di ricorso - che lamenta il mancato riconoscimento della scriminante di cui all'art. 599 c.p., - è inammissibile in quanto portatore di una critica caotica che, come già era accaduto con l'appello, non lascia individuare quale sarebbe esattamente l'atto provocatorio imputabile alle due diffamate, denunziando genericamente il comportamento delle funzionarie, che non avrebbero accolto non meglio precisate richieste di P., ma senza specificare esattamente quale o quali specifici atti avessero provocato la reazione del prevenuto. Peraltro il ricorso è altresì aspecifico rispetto alla sentenza impugnata dove, pur dando atto dell'aspecificità dell'appello, il Tribunale ha fatto uno sforzo autonomo di individuazione degli atti in tesi provocatori, evincendoli dai riferimenti contenuti negli stessi scritti ed osservando altresì come P. fosse risultato soccombente in diversi giudizi tributari, come, di conseguenza, gli avvisi di accertamento fossero legittimi e come gli atti riferibili alle due vittime non lasciassero trasparire malanimo nei confronti dell'imputato, ma solo l'applicazione della legge e dei parametri urbanistici.


Tutto questo non è stato puntualmente contestato, essendo la censura del ricorrente affidata ad un'apodittica e a tratti disorganica summa di rivendicazioni.


Anche l'evocazione, da parte del Giudice di appello, di pertinente giurisprudenza di questa Corte circa i rapporti tra azione amministrativa e provocazione non è stata smentita. Si è, infatti, condivisibilmente sostenuto che, ai fini del riconoscimento della provocazione di cui all'art. 599 c.p., comma 2, l'illegittimità intrinseca che deve connotare il "fatto ingiusto" altrui, non può essere individuata sulla base dei criteri che presiedono al riconoscimento della illegittimità di un atto amministrativo, ma trova la sua realizzazione solo in comportamenti i quali, ictu oculi, non possano, neppure astrattamente, trovare giustificazione alcuna in una qualche disposizione normativa ovvero nelle regole comunemente accettate della civile convivenza (Sez. 5, n. 39456 del 12/4/2013, n. m; Sez. 5, n. 13779 del 21/11/2012, n. m.; Sez. 5, n. 11648 del 23/1/2012, n. m.; Sez. 5, n. 13570 del 13/03/2008, Stella e altro, Rv. 239830).


3. Il terzo motivo di ricorso - che riguarda il quantum del risarcimento del danno - è inammissibile perchè la liquidazione è stata motivata dalla Corte di merito facendo riferimento alla tipologia, molteplicità e gravità delle offese, consistenti sia nella denigrazione della professionalità e preparazione delle due funzionarie, sia in riferimenti offensivi all'aspetto fisico della S., sia alla perpetrazione di comportamenti delittuosi.


Peraltro, va ricordato che la liquidazione del danno morale è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, tuttavia, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha quantificato il risarcimento (Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015, Lucchelli e altro, Rv. 263450; Sez. 5, n. 6018 del 23/01/1997, Montanelli ed altri, Rv. 208084).


4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.


Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2021

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