La massima
Non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, e i riferimenti personali e temporali (Cassazione penale sez. VI - 06/12/2021, n. 2598).
Fonte: CED Cass. pen. 2022
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La sentenza integrale
Cassazione penale sez. VI - 06/12/2021, n. 2598
RITENUTO IN FATTO
1.Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Ancona ha dato integrale conferma alla pronuncia di primo grado del 5.11.2018 con cui il Tribunale di Macerata ha accertato la penale responsabilità di F.M. per i reati di cui all'art. 336 c.p. e di cui all'art. 595 c.p., comma 3, così riqualificata l'originaria contestazione ex art. 341-bis c.p., uniti dalla continuazione, condannandolo alla pena di mesi quattro e giorni dieci di reclusione oltre al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili.
In particolare, all'imputato è stato contestato di aver espresso frasi minacciose nei confronti dei Carabinieri che lo avevano sorpreso nell'atto di orinare nella pubblica via e per aver in seguito pubblicato sul social network "(OMISSIS)" un post dal contenuto diffamatorio, sempre all'indirizzo del personale militare da cui era stato in precedenza condotto in caserma e identificato.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, adducendo cinque diverse doglianze.
2.1. Con il primo motivo si lamenta la violazione di legge e il travisamento dei fatti in cui sarebbe incorso il giudice di appello per aver apprezzato nei comportamenti del F. il carattere intimidatorio preteso dal fatto tipico di cui all'art. 336 c.p. Stando al ricorrente, invece, l'erronea presunzione dell'imputato di porre in essere una condotta lecita, abbinata alla posteriorità cronologica delle esternazioni minacciose rispetto allo svolgimento dell'attività doverosa da parte dei militari, priverebbero le frasi proferite di qualsivolgia capacità intimidatoria, ponendole al di fuori della tipicità propria della ipotesi di reato contestata.
2.2 Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge sul versante dell'omessa applicazione dell'art. 393-bis c.p. in combinato disposto con l'art. 59 c.p., comma 4. Premesso ancora una volta il convincimento dell'imputato rispetto alla liceità dell'atto osceno perché consumato nei pressi del proprio stabilimento balneare in orario notturno, la reazione ingiuriosa successiva andrebbe ascritta all'art. 393-bis c.p., letto dal ricorrente come scriminante la cui erronea supposizione priverebbe il fatto tipico del corrispettivo requisito soggettivo. Inoltre, i fatti sarebbero stati travisati anche a proposito della necessità per i Carabinieri di accompagnare l'imputato in caserma.
2.3 Il terzo motivo di censura attiene alla violazione dell'art. 521 c.p.p. in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di diffamazione aggravata. Non vi sarebbe coincidenza naturalistica tra il fatto contestato ab origine ai sensi dell'art. 341-bis c.p. e quello che risulta all'esito della riqualificazione da parte del giudice di primo grado. Segnatamente, la condotta diffamatoria concretatasi nella pubblicazione di un post sul social network "(OMISSIS)" non sarebbe materialmente approssimabile a quella fatta oggetto di contestazione nella relativa rubrica, posta in essere in occasione del primo contatto tra l'imputato e i pubblici ufficiali, che, ad avviso del primo giudice, non avrebbe dato corpo alla contestata ipotesi di cui all'art. 595 c.p. per la riscontrata assenza di uditori.
2.4 Con il quarto motivo, sempre sul fronte dell'error in iudicando, il ricorrente contesta il provvedimento oggetto di gravame nella parte in cui ravvisa la condotta diffamatoria aggravata benché nelle espressioni virtuali dell'imputato non vi sia alcun puntuale riferimento ai destinatari delle stesse, né la possibilità di desumerne indirettamente l'identità. In particolare, richiamando la giurisprudenza di legittimità in tema di determinatezza/determinabilità ed individualizzazione del soggetto passivo del delitto di diffamazione, si sostiene che l'omessa indicazione della Stazione di Porto Recanati (presso cui quella notte erano in servizio 16 unità) e dei nominativi dei Carabinieri non consentirebbe di ricondurre l'offesa in modo certo ed inequivoco alle attuali parti civili.
2.5 In ultimo la Corte di Appello di Ancona avrebbe violato la legge in relazione agli artt. 595 e 599 c.p., non avendo riguardo del fatto che tutta la vicenda si sia dispiegata quale conseguenza dell'erronea percezione dell'operato dei militari come un abuso determinante un perdurante stato d'ira.
2.6. Con memoria scritta inviata via "pec" la difesa delle costituite parti civili C.G., P.C. e Ca.En. ha concluso per la infondatezza de, motivi di ricorso, con condanna alle spese del grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso merita l'accoglimento e impone l'annullamento della decisione impugnata limitatamente alla ritenuta responsabilità per il fatto contestato ai sensi dell'art. 336 c.p. Per il resto, la sentenza va confermata avuto riguardo alla diffamazione aggravata (così riqualificato il fatto originariamente ricondotto nel capo di imputazione all'alveo dell'art. 341-bis), con conseguente rinvio alla Corte del merito al solo fine di rideterminare il trattamento sanzionatorio con riguardo all'unica ipotesi di reato residuata a fondamento del giudizio di responsabilità.
2. Muovendo dalle contestazioni mosse in relazione all'imputazione relativa all'ipotizzato reato di cui all'art. 336 c.p., osserva subito la Corte che la sentenza impugnata non merita censure quanto alla ritenuta forza intimidatoria, nell'ottica propria del reato contestato, ascrivibile al tenore della frase proferita dal ricorrente in direzione degli operanti.
Più in particolare, considerato il tenore della frase in questione ("Io ho un amico della digos che viene nel mio stabilimento balneare e che fa un lavoro serio, non come voi che non fate un cazzo. Poi mi informo con lui e vi faccio vedere lo come va a finire"), in linea di principio non sembra revocabile in dubbio che la stessa non possa ritenersi mera espressione di sentimenti ostili perché sostanziatasi in una puntualizzata prospettazione del relativo danno ingiusto tale da risultare idonea, anche solo potenzialmente, a turbare il pubblico ufficiale nell'assolvimento dei suoi compiti istituzionali.
3. Piuttosto, là dove la sentenza impugnata rassegna la sua fragilità argomentativa, è in relazione al momento di realizzazione della detta condotta che, per ritenere configurabile il reato contestato, per forza di cose deve collocarsi in una frazione temporale antecedente il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale: l'atteggiamento minatorio, per risultare punibile ai sensi della citata fattispecie, deve essere volto ad ostacolare la detta attività del soggetto qualificato, ancora non in atto.
La lettura delle due decisioni di merito consente di evidenziare in punto di fatto che la detta frase venne proferita in caserma, lì dove il ricorrente venne portato dagli operanti dopo essere stato in precedenza identificato in strada all'esito della consegna dei relativi documenti di identità.
Più in particolate, la Corte del merito, riprendendo la sentenza di primo grado nel rispondere al motivo di appello sollevato dalla difesa sul punto, consapevole della relativa problematica in diritto sottesa al rilievo, ha messo in evidenza che le condotte riscontrate davano corpo ad una ipotizzata violazione dell'art. 726 c.p. (all'epoca ancora sanzionata penalmente) e che tanto giustificava l'accompagnamento in caserma per procedere agli accertamenti di rito, assertivamente preceduti dalla citata condotta minatoria.
Vi e', tuttavia, che la sentenza impugnata difetta integralmente di precisare quali fossero questi accertamenti da svolgere: non essendo mai stata in dubbio la veridicità del dato emergente dai documenti di identità consegnati dal ricorrente al momento della identificazione, prima di venire condotto in caserma, di certo a tanto non si procedette ai sensi dell'art. 349 c.p.p., attesa l'evidente dubbia legittimità di un possibile fermo da identificazione (cfr. Sez. 6, sentenze n. 18957 del 2014 e n. 36162 del 2008).
Ma ciò che nel caso appare tranciante nel privare di rilievo la ricostruzione operata dalla Corte del merito è il fatto che né nella sentenza impugnata, né in quella di primo grado, viene dato conto del possibile riscontro, emergente dal relativo verbale redatto in occasione dei fatti di cui a giudizio, dell'avvenuta effettiva realizzazione di tali imprecisate incombenze d'ufficio: pacificamente, infatti, il ricorrente venne rimandato a casa senza il compimento di ulteriori atti d'ufficio e senza che in motivazione sia neppure stata paventata l'ipotesi che la relativa omissione di tali ulteriori atti successivi (ad una identificazione già compiutamente esitata su strada) venne determinata dal timore provocato dalle frasi minacciose proferite dal F..
Da qui la ritenuta non sussistenza del fatto contestato, tale da assorbire le ulteriori censure prospettate sul punto dalla difesa.
4. A una valutazione di segno opposto si perviene in ordine alla ritenuta responsabilità per la diffamazione aggravata realizzata dal ricorrente per aver pubblicato, il pomeriggio seguente, sul social network "(OMISSIS)" un "post" dal contenuto diffamatorio, sempre all'indirizzo del personale militare da cui era stato la notte precedente condotto in caserma.
4.1. In primo luogo è infondata l'eccepita nullità ex artt. 521 e 522 c.p.p..
Il capo di imputazione, nel contestare l'oltraggio (poi riqualificato in diffamazione) conteneva un puntuale riferimento anche alla condotta legata alla pubblicazione su "(OMISSIS)" delle frasi denigratorie rivolte ai carabinieri, colpevoli di asserite aggressioni fisiche e psichiche realizzate ai danni del ricorrente. Sul piano temporale, inoltre, si precisava espressamente che detta pubblicazione era intervenuta nel corso della stessa giornata (e' stata effettuata nel pomeriggio del (OMISSIS) mentre le originarie condotte contestate a titolo di oltraggio risalivano alla notte tra il (OMISSIS) e il (OMISSIS)).
E' dunque da escludere che nel caso vi siano spazi per una lesione delle prerogative difensive conseguenti alla riqualificazione operata in primo grado, puntualmente realizzata alla luce di elementi in fatto espressamente contenuti nel tenore della stessa imputazione.
4.2. Quanto alla possibilità di configurare la relativa condotta materiale, va rimarcato, in linea con quanto segnalato nel ricorso, che le frasi diffamanti erano riferite ai carabinieri in genere e non a specifici componenti dell'arma.
Ciò tuttavia non metteva in discussione la determinazione soggettiva dei destinatari effettivi delle relative denigrazioni.
4.2.1. Secondo la giurisprudenza di legittimità condivisa dal Collegio non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, se lo stesso sia ugualmente individuabile sia pure da parte di un numero limitato di persone (Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010, dep. 2011, A., Rv. 249601). L'individuazione del soggetto passivo deve avvenire attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, così che possa desumersi, con ragionevole certezza, l'inequivoca individuazione dell'offeso, sia in via processuale che come fatto preprocessuale, cioè come piena e immediata consapevolezza dell'identità del destinatario che abbia avuto chiunque sia entrato in contatto con la propalazione diffamatoria. Al verificarsi di tali presupposti, dunque, dovrà in coerenza ritenersi configurabile il reato in esame anche quando l'espressione lesiva dell'altrui reputazione risulti apparentemente riferita, in assenza di indicazioni nominative, ad un ampio novero di persone, identificato in ragione della appartenenza a un gruppo o una determinata categoria: ciò potrà verificarsi laddove, per le concrete dinamiche in fatto, la propalazione offensiva finisca per riguardare singole individualità ricomprese all'interno di tale più ampio novero di soggetti che siano (e possano sentirsi) concretamente e coerentemente individuabili come destinatarie di detta espressione (Sez. 5, n. 33442 del 08/07/2008, De Bortoli, Rv. 241548; Sez. 5, n. 18249 del 28/03/2008, Meli, Rv. 239831).
4.2.2. In questa ottica sono stati valorizzati dai giudici del merito e comunque emergono dal tenore delle due sentenze diversi elementi utili a una puntuale e coerente determinazione soggettiva delle citate espressione diffamanti, utili a dare corpo, anche sotto questo versante, alla ritenuta offensività della condotta.
In particolare, assume un rilievo decisivo la provenienza soggettiva del "post" diffamante, letta, in modo congiunto e sincronico, alla espressa localizzazione della condotta ricavabile dal messaggio (il ricorrente fece riferimento allo stabilimento balneare di sua proprietà, così da perimetrare il relativo ambito territoriale).
Di qui una conseguente delimitazione del campo soggettivo di riferimento ai componenti della stazione territorialmente competente, quella di Porto Recanati; delimitazione, si consideri ulteriormente, ancora più stringente laddove si tenga a mente che la relativa caserma non risulta composta da un gruppo estremamente numeroso di soggetti (il ricorso indica 16 unità) vieppiù circoscritte soggettivamente se si guarda al contenuto delle dichiarazioni denigratorie, riferito a condotte assertivamente rese in un determinato frangente temporale (la notte tra il (OMISSIS) e (OMISSIS)) ancor di più utile a definire il campo soggettivo di riferimento (ai soli componenti in servizio in quel determinato frangente). Il tutto in linea con le superiori indicazioni di principio e alla luce di una argomentazione immune a censure utilmente prospettabili sul piano della linea logica seguita.
4.3. Quanto, infine, alla rivendicata applicabilità dell'esimente ex art. 599 c.p., comma 2, il rilievo difensivo si mostra marcatamente infondato, dovendosi considerare al fine la non immediatezza della reazione diffamante (sono trascorse diverse ore tra i due momenti), sintomo logico di una riconducibilità della stessa a un sentimento di vendetta, espressione quantomeno di rancore, piuttosto che all'ira determinata dall'ingiusto accompagnamento in caserma.
Da qui la conferma della sentenza impugnata in parte qua e la conseguente necessita di rinviare alla Corte del merito competente per la rideterminazione della pena unicamente in ragione della ritenuta responsabilità per la diffamazione aggravata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui all'art. 336 c.p. perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso e dichiarata irrevocabile l'affermazione di responsabilità per il reato di diffamazione aggravata, rinvia alla Corte di appello Perugia per la determinazione della pena.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2022