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Corruzione propria e corruzione per l'esercizio della funzione: rapporti e differenze tra le due fattispecie




Indice:



Corruzione propria e corruzione per l'esercizio della funzione: rapporti e differenze tra le due fattispecie

1. Premessa

II reato di corruzione, nelle sue varie declinazioni, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul "pactum sceleris" tra privato e pubblico agente.

Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto.

Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo se entrambe le condotte, del funzionario e del privato, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente e l'illecito sussiste alternativamente con l'accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell'utilità.

Ciò che deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all'esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia collegata, se quell'atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio.

In particolare, deve essere accertato il nesso tra l'utilità e l'asservimento della funzione ovvero con l'atto da compiere o compiuto da parte del pubblico ufficiale, e se il compimento dell'atto sia stato la causa della prestazione e dell'accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità.

Costituisce infatti principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui, ai fini dell'accertamento del reato di corruzione propria, nell'ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell'atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione dell'utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell'avvenuta dazione.



In linea con il dettato dell'art. 319 cod. pen., è infatti necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all'incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all'impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.

La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti».

Sotto altro profilo, la Corte ha già chiarito che in tema di corruzione, la mera accettazione da parte del pubblico agente di un'indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l'esercizio dell'attività sia stata condizionata dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l'interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l'esercizio della funzione (cfr, per tutte, Sez. 6 n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555).


2. Corruzione propria e impropria prima della Legge Severino

Nel sistema precedente alla riforma attuata con la legge 6 novembre 2012, n. 190, il reato di corruzione esprimeva una concezione c.d. mercantile; si incriminava la pattuizione avente ad oggetto la compravendita di singoli atti amministrativi, conformi o contrari ai doveri d'ufficio.

Nell'ambito dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, erano disciplinati i distinti reati di corruzione propria o per atti contrari ai doveri d'ufficio, di cui all'art. 319 cod. pen., e di corruzione impropria o per atto d'ufficio, punita dall'art. 318 cod. pen.

La relativa linea di discrimine riguardava l'oggetto del patto corruttivo e, in particolare, la conformità o meno ai doveri d'ufficio dell'atto compiuto.

Il chiaro riferimento all'atto dell'ufficio aveva tuttavia fatto emergere evidenti difficoltà in tutti i casi di sistemici rapporti "clientelari" tra soggetti pubblici e privati, cioè quei rapporti che prescindevano da una stretta logica di formale sinallagma, in quanto fondati non sul mercimonio dì specifici atti - singoli o molteplici - quanto, piuttosto, sull'asservimento della parte pubblica, che si poneva stabilmente a disposizione di quella privata.

In particolare, l'ineffettività del sistema, la sua incapacità a fornire una limpida risposta, la sua inadeguatezza strutturale emergeva in maniera evidente in tutti i casi in cui il patto corruttivo aveva ad oggetto "il rapporto" tra soggetto pubblico e privato e ruotava su interessenze sganciate "a monte" dal compimento di specifici atti, che, peraltro, in molti casi non erano rinvenibili nemmeno ex post.

Si trattava di casi in cui l'oggetto del patto corruttivo era, per così dire, muto, nel senso che al momento in cui l'accordo illecito veniva concluso, il pubblico ufficiale non "vendeva" atti , ma se stesso, il suo essere pubblico ufficiale, la sua funzione, il futuro esercizio del potere pubblico.

L'effetto che ne era conseguito era stato il sostanziale mutamento dell'oggetto dello scambio corruttivo, passato dall'atto alla funzione del pubblico agente.

Tale traslazione si era verificata nel corso del tempo attraverso:

a) la dematerializzazione dell'elemento di fattispecie di corruzione propria dell'atto di ufficio;

b) la inclusione nella nozione di atto d'ufficio dei meri comportamenti, ovvero l'affermazione di principio secondo cui sarebbe stato sufficiente la individuabilità nel genere dell'atto;

c) la interpretazione estensiva dello stesso concetto di atto contrario ai doveri d'ufficio, ravvisata anche nei casi in cui l'atto, pur formalmente legittimo, persegua "finalità diverse"; la questione, come meglio si dirà, attiene all'esercizio dell'attività discrezionale ed in tale contesto si era tendenzialmente ritenuto di ravvisare "sempre" la corruzione propria, addebitando al pubblico agente la violazione di doveri generali e, in particolare, di quello d'imparzialità, per il fatto oggettivo di avere ricevuto denaro o altra utilità;

d) l'affermazione secondo cui la corruzione propria era ravvisabile anche nel caso in cui la promessa o la dazione fossero riferiti nella previsione generica di eventuali, futuri, imprecisati atti, al fine di ottenere la benevolenza del soggetto corrotto;

e) l'inevitabile sostanziale ridimensionamento della corruzione impropria, sussistente nei soli casi in cui il mercimonio riguardasse specifici atti conformi ai doveri d'ufficio e cioè, in sostanza, solo nei casi di compimento di atti vincolati.


3. Il restyling dell'art. 318 c.p.

In tale contesto è intervenuta la legge n. 190 del 2012 che ha introdotto la nuova fattispecie di corruzione per la funzione prevista dall'art. 318 cod. pen.

Con la nuova fattispecie:

a) è scomparso il riferimento all'atto d'ufficio legittimo, adottato o da adottare da parte del pubblico ufficiale;

b) il patto corruttivo ha per oggetto l'esercizio dei poteri o delle funzioni: il compenso che il pubblico agente riceve non retribuisce più il compimento di un atto non contrario ai doveri dell'ufficio, ma, più in generale, rimunera "la presa in carico" degli interessi di cui è portatore il privato;

c) il consenso del funzionario pubblico alla pattuizione illecita deve essere accertato, atteso che l'accordo segna la linea di confine con la "nuova" istigazione alla corruzione (art. 322, comma 1, cod. pen.) in cui l'offerta e la promessa di denaro o altra utilità non è accettata dall'agente pubblico ovvero resta allo stadio di sollecitazione, se l'iniziativa proviene da quest'ultimo (art. 322, comma 3, cod. pen.);

d) è stato configurato un reato eventualmente permanente, almeno nei casi di plurime dazioni indebite che trovano una loro ragione giustificatrice nel fattore unificante dell'asservimento della funzione pubblica. (Sez. 6, n. 3043 del 27/12/2015 (dep. 2016), Esposito, Rv. 265619, in cui la Corte ha qualificato in termini di corruzione per l'esercizio della funzione la condotta di un indagato che aveva stabilmente asservito le proprie funzioni di consigliere comunale, nonché di presidente e vicepresidente di commissioni comunali, agli scopi di società cooperative facenti capo ad altro coindagato; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/9/2014, Chisso, Rv. 261355).

Entrambe le fattispecie criminose previste dagli artt. 318 - 319 cod. pen. descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato, il cui oggetto tuttavia deve essere accertato.

Concluso l'accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l'accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all'adozione dell'atto- legittimo o illegittimo che sia - ovvero all'esercizio della funzione.

Ciò che accomuna le due fattispecie è il divieto di "presa in carico" d'interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico; nella corruzione per l'esercizio della funzione, invece, la "presa in carico" realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivato e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo.

I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.


4. I rapporti strutturali tra le due fattispecie

Secondo un primo orientamento, autorevolmente sostenuto in dottrina, nella specie vi sarebbe un'ipotesi di concorso apparente di reati ex art. 15 cod. pen.; le due fattispecie sarebbero tra loro in rapporto di specialità unilaterale per specificazione.

Sarebbe generale la norma di cui all'art. 318 cod. pen. e speciale quella dell'art. 319 cod. pen.; il reato di corruzione propria sarebbe infatti configurabile solo in presenza di uno specifico atto, individuato o individuabile, oggetto dell'accordo corruttivo.

Un secondo orientamento fa invece riferimento al principio di sussidiarietà ed al disvalore giurid ico del fatto: tra due norme, che tutelano lo stesso bene giuridico, si dovrebbe applicare quella che realizza un'offesa maggiore.

Dunque, anche seguendo detta impostazione, l'art. 319 cod. pen. sarebbe applicabile solo in presenza di un accordo che preveda da parte del pubblico funzionario corrotto il compimento di un atto determinato o determinabile.

In definitiva, due diversi ambiti:

1) il primo, riferibile all'art. 319 cod. pen., in cui il patto corruttivo ha ad oggetto uno specifico atto, determinato o determinabile, che il funzionario si sia impegnato a compiere (o abbia compiuto) a favore del privato;

2) il secondo, relativo al nuovo art. 318 cod. pen., riguarda tutti i casi in cui l'agente pubblico si accorda con il privato corruttore, ma l'oggetto del patto attiene alla messa a disposizione della sua funzione o dei suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri, non specificati atti vantaggiosi e favorevoli per il privato; si tratta di casi in cui la dazione pone le condizioni per ottenere futuri favori.

Rispetto a tale quadro di riferimento, la questione riguarda se, anche dopo la nuova fattispecie di corruzione per la funzione, continuino ad essere riconducibili al reato di corruzione propria tutti quei fatti che, sulla base del diritto vivente precedente alla legge n. 190 del 2012, erano ricondotti all'art. 319 cod. pen. in ragione della indicata attività interpretativa estensiva, sostanzialmente fondata sul processo di smaterializzazione dell'atto oggetto del patto corruttivo.

In concreto, il tema attiene a tutti i casi in cui il pubblico ufficiale sia "solo" a "libro paga" e se la nuova fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. debba essere interpretata come se il suo dato testuale sia rimasto identico a quello precedente, nel senso di ritenere configurabile la fattispecie in questione solo in presenza di atti conformi ai doveri d'ufficio e, fra questi, solo in presenza di atti vincolati, atteso che, in presenza di patti prospettici ovvero di atti discrezionali, il reato sussistente sarebbe sempre quello di corruzione propria.

Secondo un primo orientamento, che parrebbe consolidato, all'art. 318 cod. pen. non potrebbero essere ricondotti i casi di generale asservimento dell'intera funzione, che continuerebbero ad integrare la fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio.

Gli argomenti sono molteplici, comunemente richiamati.

Si è sostenuto, da un lato, che il generico riferimento, anticipato dalla preposizione finalistica "per", all'esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale - espresso dal nuovo art. 318 cod. pen. - non consentirebbe una immediata decifrabilità delle concrete forme o espressioni che il mercimonio di funzioni e poteri può assumere in concreto, e, dall'altro, che sarebbe ben singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190 del 2012), tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatone di sempre più diffusi fenomeni di corruzione sistemica e a renderne più agevole l'accertamento e la perseguibilità, offra il fianco a possibili rilievi in termini di graduazione dell'offensività, di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.).

Il tema - in verità valorizzato prima della modifica della cornice edittale dell'art. 318 cod. pen., ad opera della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - ruota intorno all'assunto secondo cui non sarebbe sistemico che la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità ("venda") un solo suo atto contrario all'ufficio debba essere punito con una cospicua pena, mentre invece un pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri al servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistematici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o nemmeno specificamente individuabili ex post (in caso diverso si rifluirebbe, come è ovvio, nella previsione dell'art. 319 cod. pen.), debba essere irrazionalmente punito con una pena più mite.

Una diversa interpretazione, evidenzia l'impostazione in parola, troverebbe giustificazione solo sul presupposto, tuttavia non razionale sul piano sistematico, secondo cui vi sarebbe una maggiore offensività ed un più elevato disvalore giuridico e sociale nella condotta prevista dall'art. 318 cod. pen. rispetto a quella di cui all'art. 319 cod. pen.

Tali considerazioni spiegano l'affermazione tradizionale secondo cui, ai fini della integrazione del delitto di cui all'art. 319, non sarebbe necessaria l'individuazione di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, a condizione che, dal suo comportamento, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli ed a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, n. 22301 del 24/05/2012, Saviolo, Rv. 254055 che richiama, tuttavia, Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081; Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184; Sez. 6, n. 21192 del 26/02/2007, Eliseo, Rv. 236624; si tratta di pronunce tutte precedenti alla introduzione della nuova fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen.).

Dunque, la fattispecie prevista dall'art. 318 avrebbe sostanzialmente un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi solo nella ipotesi in cui la vendita della funzione abbia ad oggetto il mercimonio di un atto conforme ai doveri di ufficio, ovvero un atto non determinato (ex ante o ex post), ovvero non determinabile; il reato non sarebbe neppure sostanzialmente configurabile, come si dirà, nemmeno nel caso di atto discrezionale conforme ai doveri d'ufficio (sul tema, Sez. 6, n. 8211 del 11/2/2016, Ferrante, Rv. 266510; Sez. 6, n. 40237 del 7/7/2016, Giangreco, Rv. 267634; Sez. 6, n. 15959 del 23/2/2016, Caiazzo, Rv. 266735; Sez., 6, n. 47271 del 25/9/2014, Casarin, Rv. 260732; Sez. 6, n. 6056 del 23/9/2014, (dep. 2015), Stafferi, Rv. 262233, Sez. 6, n. 9883 del 15/10/2013, (dep. 2014), Terenghi, Rv.258521; conforme è anche Sez. 6, n. 24535 del 10 aprile 2015, Mogliani).

L'atto, peraltro, sarebbe sempre quantomeno determinabile in ragione della competenza e della sfera di influenza del pubblico ufficiale; nel contesto della interpretazione estensiva dell'art. 319 cod. pen. di cui è detto, l'indirizzo in esame si pone infatti in chiara continuità con il principio secondo cui, ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 319 cod. pen., sarebbe sufficiente la mera individuabilità del genus di atti da compiere, e detta operazione sarebbe possibile in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus. (tra le tante, Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216; Sez.6, n. 2818 del 02/10/2006, Bianchi, Rv. 235727).

Una interpretazione conservativa del nuovo art. 318 cod. pen., a cui viene attribuita una sostanziale funzione accessoria, di contorno, come se il testo della norma non fosse stato innovato.


5. Specialità e offensività

Restano tuttavia sullo sfondo delicate questioni che attengono, da una parte, al rapporto di specialità unilaterale che caratterizza il reato di corruzione propria rispetto a quello di cui all'art. 318 cod. pen, e, dall'altro, sul piano della offensività, alla progressione criminosa che viene a realizzarsi attraverso le due fattispecie.

Quanto a quest'ultimo profilo, si è già detto di come sia diffusa l'affermazione secondo cui la offensività della condotta del pubblico ufficiale che venda la funzione senza accordarsi per il compimento di un atto specifico, determinato o determinabile, contrario ai propri doveri di ufficio sarebbe comunque maggiore rispetto a quella del funzionario che, in ragione del patto corruttivo, compia anche solo un atto contrario ai propri doveri di ufficio.

Si tratta di un assunto che deve essere precisato.

Si è correttamente evidenziato come, se è vero che, attraverso l'art. 318 cod. pen. il legislatore abbia inteso punire di per sé la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di una utilità, "prenda a carico" un interesse privato a prescindere dal compimento di un atto dell'ufficio, è altrettanto vero che in tali casi l'incriminazione sembra rispondere alla logica della anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma - e, in particolare, della imparzialità dell'agire amministrativo- secondo lo schema del reato di pericolo.

In tal senso la fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen. rivela una offensività diversa e - probabilmente - minore rispetto al reato di corruzione propria, che è fondata, invece, sul danno in concreto arrecato e sull'accertamento di un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio.

Se infatti l'oggetto dell'accordo corruttivo con cui il pubblico ufficiale vende "solo" la sua funzione è l'impegno a considerare in futuro, cioè a curare, gli interessi del privato corruttore ed a tutelarlo, appaiono condivisibili le impostazioni dottrinarie e le affermazioni contenute in altre sentenze della Corte di cassazione secondo cui il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio).

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto» (ed in particolare, della imparzialità dell'azione amministrativa) meritando quindi una pena più severa (così, Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (dep. 2019), Palozzi, Rv. 274984; nello stesso senso, Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 261353, e sostanzialmente, Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Massobrio, Rv. 276783; Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801).

È fondato ritenere che la nuova formulazione dell'art. 318 cod. pen., ora rubricata come 'corruzione per l'esercizio della funzione', abbia inciso notevolmente sulla struttura della norma, mutandone la natura; mentre infatti nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno, connesso alla compravendita di un atto d'ufficio (purché non contrario ai doveri), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di 'compravendita della funzione' non connesse causalmente al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri di ufficio. Dunque, una offensività "diversa" e "minore", rispetto a quella insita nel reato di corruzione propria, che giustifica una risposta sanzionatoria minore.

L'art. 318 cod. pen. sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l'intesa programmatica - l'impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunché -, previene la compravendita degli atti d'ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione. «Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell'interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l'individuazione di un atto contrario ai doveri d'ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell'altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d'ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa» (così, Sez. 6, n. 4486, Palozzi, cit.).

In tale ottica, la modifica apportata all'art. 318 dalla legge n. 3 del 2019, che ha consistentemente aumentato la pena per il reato di corruzione per l'esercizio della funzione, ha indubbiamente eliso una delle argomentazioni maggiormente valorizzate dall'indirizzo che riconduce all'art. 319 cod. pen. "la messa a libro paga" del pubblico funzionario e contribuisce a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti.

Sotto altro profilo, se la fattispecie di reato di cui all'art. 319 cod. pen. è in rapporto di specialità unilaterale per specificazione rispetto a quella di cui all'art. 318 cod. pen., è necessario che l'atto contrario ai doveri d'ufficio sia specificamente individuato o individuabile, altrimenti il fatto non potrà che essere sussunto nella fattispecie generale, cioè nell'art. 318 cod. pen.

Assume decisiva valenza non il mero riferimento astratto ed onnicomprensivo alla competenza dell'ufficio, di cui si è in precedenza detto, quanto, piuttosto, il contenuto del patto corruttivo.

Il tema si incrocia con l'accertamento probatorio dei fatti e, in particolare, con il senso e la natura dell'accordo.

È possibile che il patto corruttivo sia solo apparentemente muto, ma in realtà il suo oggetto sia in concreto ricostruibile, nel senso che l'impegno da parte del pubblico ufficiale sia quello di compiere uno o più specifici atti contrari ai doveri d'ufficio; non importa che l'atto specifico sia successivamente compiuto, quanto, piuttosto, la esatta determinazione del contenuto del programma obbligatorio che il pubblico ufficiale assume.

Si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore - il senso ed il tempo della pretesa di questi-, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo.

Deve essere accertato il "colore" del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio; se il contenuto del patto non "attiene" al compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, la condotta è riconducibile all'art. 318 cod. pen.

Il patto può essere probatoriamente muto, nel senso che non sia individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere; è possibile che, a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore - anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) -, il pubblico ufficiale assuma solo l'impegno "di sorvegliare", "di vigilare" che gli interessi del privato, presi indebitamente "in carico", non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo.

Si tratta di ipotesi in cui la condotta sarà riconducibile all'art. 318 cod. pen.


6. Il rapporto tra esercizio della discrezionalità amministrativa e corruzione

Le considerazioni esposte assumono una maggiore complessità in tutti i casi in cui oggetto del mercimonio sia l'attività amministrativa discrezionale, cioè un'attività in cui la norma attributiva del potere consente all'amministrazione un ampio ambito di possibilità di azione.

Il tema del rapporto tra esercizio della discrezionalità amministrativa e corruzione involge l'interpretazione del sintagma "atto contrario ai doveri d'ufficio", di cui all'art. 319 cod. pen. ed assume una sua rilevanza problematica perché non tutte le regole che presiedono all'esercizio della funzione amministrativa discrezionale hanno lo stesso grado di precettività.

Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è diffusa l'affermazione secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 319 cod. pen., sono contrari ai doveri d'ufficio non solo gli atti illeciti o illegittimi perché assunti in violazione di norme giuridiche, riguardanti la loro validità ed efficacia, ma anche quelli che, "pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, dall'osservanza dei doveri istituzionali, espressi in norme di qualsiasi livello, compresi quelli di correttezza e di imparzialità" (Sez. 6, n. 46492 del 15/09/2017, Argenziano, Rv. 271383; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269347; Sez. 6, n. 29267 del 05/04/2018, Baccari, Rv. 273448).

La "sudditanza" del pubblico ufficiale al corruttore si tradurrebbe comunque in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati nell'an, nel quando o nel quomodo, si conformano all'obiettivo di realizzare l'interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, n. 29267 dei 05/04/2018, cit.).

In altri termini, anche se ogni singolo atto, di per sé considerato, corrisponda ai presupposti normativi - come nel caso in cui il funzionario si adoperi al solo fine di velocizzare la definizione di un procedimento senza tuttavia inficiarne l'esito -l'inquinamento "alla base" della funzione imporrebbe di ritenere integrato il reato di corruzione propria.

In tal senso si è ritenuto integrare il reato di cui all'art. 319 cod. pen. il comportamento del dipendente comunale addetto a istruire pratiche relative a gare d'appalto, che abbia percepito da un privato denaro o altre utilità al fine di "velocizzare" la liquidazione di fatture nell'interesse di quest'ultimo, poiché "l'accettazione di una indebita retribuzione, pur se riferita ad un atto legittimo, configura comunque una violazione del principio d'imparzialità" (Sez. 6, n. 22707 del 11/04/2014, Lo Cricchio, Rv. 260275; nello stesso sembra porsi, Sez. 6, n. 33032 del 24/05/2018, Mancuso, non massimata).

Una soluzione interpretativa sovrapponibile ai casi, tuttavia obiettivamente diversi, in cui il funzionario non si limiti solo ad accelerare la definizione delle pratiche cui è interessato il corruttore, ma per fare ciò faccia anche "altro", come ad esempio, inverta l'ordine di trattazione delle pratiche, così violando l'art. 13 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che impone al pubblico impiegato di trattare gli affari attribuiti alla sua competenza "tempestivamente e secondo l'ordine cronologico" (Sez. 6, n. 1777 del 21/11/2005, Abeysundera, Rv. 233114).

Ed invece, si assume, l'accettazione del compenso di per sé farebbe perdere al funzionario l'imparzialità fondamentale per l'esercizio del potere discrezionale: per il solo fatto di avere accettato una retribuzione, il pubblico ufficiale agirebbe in modo contrario ai suoi doveri d'ufficio, non orientando le proprie scelte verso l'interesse pubblico.

Astrattamente, la giurisprudenza sottolinea che, a fronte dell'esercizio di un potere discrezionale, gli estremi della corruzione propria ricorrono solo nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia accettato dietro compenso di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall'ordinamento oppure di usare tale discrezionalità in modo distorto, alterandone consapevolmente i fondamentali canoni di esercizio e ponendo perciò in essere una attività contraria ai suoi doveri di ufficio.

Detta affermazione, tuttavia, viene collegata al principio secondo cui "integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali spettantigli rinunciando a una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico", e questo perché, "ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla 'vendita' della discrezionalità accordata dalla legge" (Sez. 6, n. 5577 del 03/02/2016, Maggiore Rv. 267187, in fattispecie in cui l'indagato, in qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il ministero dell'economia e delle finanze, aveva ricevuto somme di denaro da un medico legale per far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti. In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto irrilevante, per escludere il reato, la circostanza che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, sarebbero stati comunque riconosciuti loro i benefici richiesti; nello stesso senso, Sez. 6, n. 4454 del 24/11/2016, dep. 2017, Fiorani, Rv. 269613, Sez. 6, n. 7903 del 17/01/2018, Morace, non massimata).

Si tratta di una interpretazione che deve essere esplicitata.

La questione non coincide con il tema del se la corruzione propria sia configurabile solo in presenza di un atto amministrativo illegittimo e, dunque, se il giudice penale debba compiere un sindacato sull'atto sovrapponibile a quello che compie il giudice amministrativo.

L'atto amministrativo non costituisce un presupposto del reato, ma è lo strumento di cui l'agente si serve per commettere il reato; l'atto viene in considerazione al fine della verifica del comportamento, della condotta che integra il reato.

Come sostenuto da autorevolissima dottrina, l'atto amministrativo viene "retrocesso a fatto"; non è l'atto a dover essere sindacato dal giudice penale ai fini della verifica della sussistenza del reato di corruzione propria, ma una condotta umana, e cioè come il pubblico ufficiale si sia posto rispetto alla funzione pubblica di cui è titolare e cosa abbia fatto in concreto per "giungere" all'atto.

Il giudice deve verificare la corrispondenza fra fatto storico e previsione normativa: deve stabilire se sia stata o meno realizzata una condotta abusiva, arbitraria, contraria a ciò che i doveri di ufficio imponevano di fare.

La legittimità dell'atto, della quale il giudice deve tenere eventualmente conto, serve solo perché "essa può concorrere a consentirgli di stabilire se si sia realizzata, o meno, una condotta abusiva o arbitraria".

Anche con riguardo all'attività discrezionale, se si ritiene che il fatto oggettivo della conclusione del pactum sceleris, che abbia ad oggetto il compimento di un atto discrezionale, sia di per sé sufficiente a configurare il reato di corruzione propria, la distinzione tra il reato di cui all'art. 319 e quello previsto dall'art. 318 cod. pen. resta di difficile riconoscibilità, perché anche nel reato di corruzione per l'esercizio della funzione, il pubblico ufficiale, accettando una remunerazione indebita, viola i doveri istituzionali di correttezza.

Ove si ritenga che la retribuzione del pubblico ufficiale implichi di per sé la violazione del dovere di imparzialità, la violazione di detto dovere finirebbe per costituire un contenitore generale al cui interno ricondurre una quantità indistinta di condotte la cui rilevanza, ai fini della integrazione della fattispecie di cui all'art. 319 cod. pen., sarebbe fatta derivare solo dalla esistenza dell'accordo corruttivo, "a prescindere" dalla concreta offesa della funzione amministrativa, dalla concreta violazione di questa, dalla inosservanza dei doveri specifici di ufficio.

Ciò che deve essere rivisto è il "presupposto, di tipo "presuntivo psicologico", secondo cui una volta concluso l'accordo corruttivo, "il successivo (futuro e incerto) esercizio del potere pubblico non potrà non essere inquinato, contaminato dall'interesse privato veicolato dell'intesa illecita"; si finisce per centrare il disvalore della fattispecie sul patto criminoso e per spostare l'antigiuridicità del comportamento del funzionario dai profili relativi alla condotta (la non conformità ai doveri di ufficio) a quelli che riflettono maggiormente l'elemento psicologico del reato (il dolo insito nell'accettazione del denaro o della sua promessa).

In realtà, si osserva correttamente, al di là delle infedeltà in quanto tali del pubblico ufficiale, ai fini della configurabilità del reato di corruzione propria rileva la violazione dei doveri che attengono al modo, al contenuto, ai tempi degli atti da compiere e delle decisioni da adottare, alla violazione, cioè, della regola "giusta" nel concreto operare della discrezionalità amministrativa. È necessario fare riferimento alle regole sottese all'esercizio dell'attività discrezionale e si tratta di verificare se l'interesse pubblico sia stato in concreto condizionato dalla "presa in carico" dell'interesse del privato corruttore; nel caso in cui l'interesse pubblico non sia stato condizionato, il fatto integrerà la fattispecie di cui all'art. 318 cod. pen.

Quello che deve essere verificato, cioè, è se l'interesse perseguito in concreto sia sussumibile nell'interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, se questo sia stato soddisfatto, ovvero se esso sia stato limitato, condizionato, inquinato dalla esigenza di soddisfare gli interessi privati posti a carico con l'accordo corruttivo.

È possibile che l'atto discrezionale, nonostante l'accordo corruttivo, realizzi l'interesse pubblico e che il comportamento del pubblico ufficiale non abbia violato nessun dovere specifico.

L'atto discrezionale ed il comportamento sottostante sono contrari ai doveri di ufficio nei casi in cui "siano state violate le regole sull'esercizio del potere discrezionale o ne siano stati consapevolmente alterati i fondamentali canoni di esercizio in vantaggio del corruttore".

L'esistenza di un potere discrezionale non basta a far ritenere integrata la fattispecie di corruzione propria, che, invece, sussiste solo ove sia dimostrata la violazione di una delle regole sull'esercizio del corrispondente potere.

E' necessario esaminare la struttura del patto corruttivo, da una parte, per accertare se sia o meno identificabile "a monte" un atto contrario ai doveri di ufficio; nel caso in cui ciò non sia possibile, occorre verificare la condotta del pubblico agente nei settori che interferiscono con gli interessi del corruttore, per comprendere se il predetto funzionario, al di là del caso di manifeste violazioni di discipline cogenti, di elusione della causa fondativa del potere attribuito, abbia, nonostante ed in conseguenza del patto, fatto o meno buon governo del potere assegnatogli, tenendo conto di tutti i profili valutabili, o se abbia pregiudizialmente inteso realizzare l'interesse del privato corruttore, a fronte di ragionevolmente possibili esiti diversi.

Anche in tal caso il profilo giuridico interferisce con quello processuale di accertamento probatorio dei fatti e assumerà rilevante valenza l'interpretazione dell'oggetto del patto corruttivo; è possibile, come in precedenza detto, che un privato si rivolga ad un funzionario non per esserne pregiudizialmente favorito, ma per assicurarsi che la valutazione non sia condizionata da pregiudizi in suo danno o da indebite interferenze altrui, ipotesi nelle quali non potrà prospettarsi a priori, nel caso in cui si compia un atto discrezionale, alcuna violazione dei doveri diversa da quella inerente all'indebita ricezione di un'utilità non dovuta (in tal senso, la Corte di cassazione si era in passato già espressa, Sez. 6, n. 9927 del 10/07/1995, Caliciuri, Rv. 202877;

Sez. 6, n. 11462 del 12/06/1997, Albini, Rv. 209699; Sez. 6, n. 1319 del 28/11/1997, Gilardino, Rv. 210442; Sez. 6, n. 3945 del 15/02/1999, Di Pinto, Rv. 213885).

In conclusione, se la pregiudiziale accertata rinuncia all'esercizio genuino della discrezionalità conduce all'adozione di atti contrari ai doveri di ufficio, non può dirsi il contrario, e cioè che sia configurabile la corruzione propria per il solo fatto che il pubblico ufficiale abbia ricevuto denaro in ragione del compimento della sua attività, anche discrezionale.


Fonte: Cassazione penale sez. VI, 08/06/2023, (ud. 08/06/2023, dep. 10/01/2024), n.1245

 

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