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Abuso d'ufficio: il dolo intenzionale è desumibile anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale non presuppone l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda dal mero comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto. (Fattispecie in cui la Cassazione ha confermato la decisione impugnata che ha desunto l'esistenza del dolo intenzionale dal fatto che l'imputato, nella qualità di dipendente comunale cui era stata demandata la verifica della legittimità di opere edili, manteneva una condotta inerte e dilatoria, nonostante la macroscopica illegittimità dell'opera e le insistenti richieste di procedere a verifica.

Fonte: CED Cassazione Penale 2019



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 27/09/2018, (ud. 27/09/2018, dep. 23/11/2018), n.52882

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Lecce, sez. dist. di Taranto, confermava la sentenza del Tribunale di Taranto nella parte in cui aveva condannato P.R. per il reato di cui all'art. 323 c.p..


In particolare, all'imputato era stato contestato di non aver, nella qualità di capo della sezione Urbanistica del Comune di Ginosa, adottato alcuna verifica della legittimità amministrativa di una DIA, presentata il 9 settembre 2008 per attività edilizie - la cui illegittimità gli era stata segnalata con più note da G.A., proprietario di un fondo limitrofo, in quanto le attività prevedevano un incremento di volume e di sagoma dell'edificio preesistente così impedendo che venissero adottati i provvedimenti conseguenti di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 27 e procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale ai proprietari e incaricati dei lavori.


1.1. In primo grado, il Tribunale aveva ritenuto che il P. fosse stato il responsabile del procedimento relativo alla pratica edilizia in esame almeno a partire dal 26 marzo 2009, allorquando, a seguito della presentazione degli esposti da parte del G., il dirigente gli aveva conferito tale qualifica (come da annotazione a margine dell'esposto del 21 marzo 2009), e, comunque, era il capo della Sezione Urbanistica del Comune (e quindi responsabile dell'ufficio ex L. n. 241 del 1990 rectius L. n. 380 del 2001).


Pertanto, il P. avrebbe dovuto recarsi in loco, disporre gli opportuni accertamenti tecnici e l'immediata sospensione dei lavori, pur a fronte degli esposti del G. (che aveva chiesto più volte delle verifiche) e delle disposizioni del dirigente O. (che il 26 marzo 2009 lo aveva sollecitato a verificare la regolarità dell'opera e poi lo aveva diffidato a seguito di nuovo esposto del G. a disporre la verifica della regolarità dell'opera) e, avendo già con la documentazione disponibile per constatare la illegittimità della DIA, agevolmente constatare che si trattava di intervento soggetto a permesso a costruire (tenuto conto della massima volumetria realizzabile). Di contro, il P. si era limitato a attività pretestuose e dilatorie (chiedendo documentazione integrativa con particolare riguardo all'atto di asservimento richiamato dal G. nel suo esposto - superfluo al fine della richiesta verifica, visto che tale atto risultava espressamente individuato col numero di protocollo nell'esposto).


Il Tribunale rilevava che fosse del tutto priva di riscontro documentale e smentita dalla nota della Polizia municipale del 31 luglio 2009 indirizzata al P. la circostanza che l'imputato avesse invitato l'impresa costruttrice a sospendere i lavori.


In definitiva, secondo il primo giudice, il P., violando il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23, aveva omesso di vigilare, determinando intenzionalmente (come era desumere dalla macroscopica illegittimità della condotta omissiva) un vantaggio patrimoniale all'impresa costruttrice.


1.2. In sede di appello, la difesa aveva sostenuto che non vi fosse la prova sia della intenzionale condotta a favore di chi stava costruendo sia della illegittimità macroscopica dei suoi atti.


Difettava, secondo l'imputato, la prova di rapporti e cointeressenze con i soggetti favoriti, avendo questi agito in modo trasparente e prudente.


In particolare, l'imputato, nonostante che all'epoca dei fatti non fosse responsabile dell'ufficio e non competente ad emettere alcun ordine di sospensione di competenza del dirigente o del responsabile del settore), aveva infatti sospeso con raccomandata del 5 agosto 2008 l'efficacia della DIA dell'11 marzo 2008.


L'imputato inoltre era stato delegato dal responsabile del settore con disposizione del 6 luglio 2009 alla verifica delle regolarità tecnica e amministrativa dell'opera, ma, sulla base di un precedente ordine di servizio mai revocato, era tenuto alla sola verifica cartolare della documentazione presentata.


La richiesta dell'atto di asservimento non era dilatoria o pretestuosa ma essenziale per ricostruire la genesi della pratica e la sua legittimità.


Era dibattuta in dottrina e giurisprudenza il ricorso per nuove costruzione alla c.d. super DIA.


1.3. La Corte di appello riteneva il gravame infondato.


Era pacifico che l'opera da realizzare necessitasse in base alla normativa dell'epoca del permesso di costruire (trattandosi di demolizione e ricostruzione con variazione di volume e sagoma).


Secondo la Corte di appello, non veniva in discussione il potere di sospensione (non oggetto di contestazione), ma la omessa verifica della suddetta illegittimità: anche a voler tacere che il sollecito del suo dirigente O. del 6 luglio 2009 gli era stato addirittura notificato e anche a voler ammettere che il suddetto ordine non derogasse al pregresso ordine di servizio (in ordine al mero controllo cartolare), doveva ritenersi sufficiente anche una semplice verifica cartolare per verificare che la ricostruzione venisse a stravolgere l'esistente edificio per sagoma e per volume, per cui era evidentissimo che l'opera non potesse essere compiuta con la mera DIA.


D'altronde il P. aveva sostenuto di aver sospeso il 5 agosto 2009 l'efficacia della successiva DIA presentata in data 11 marzo 2009, sospensione (tra l'altro neppure desumibile dalla dedotta raccomandata) che non avrebbe avuto alcun senso se non per riscontrate rilevate irregolarità.


La prova del dolo intenzionale era tratta dalla Corte di appello non solo dalla macroscopica illegittimità dell'opera da realizzare, ma anche dalle varie sollecitazioni ricevute dal G. e dallo stesso dirigente del P. (che in modo formale gli aveva chiesto di relazionare in termini brevi).


2. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..


2.1. Violazione di legge in relazione all'art. 323 c.p..


Difetterebbe l'accertamento della intenzionalità del vantaggio, non essendo emersi cointeressenze, rapporti personali o patrimoniali tra il p.u. e i soggetti privati.


Gli elementi "rivelatori" esposti dalla Corte di appello non avrebbero alcuna consistenza, posto che se correttamente interpretati dimostrerebbero la prudente e trasparente condotta tenuta dal ricorrente conforme all'assetto normativo dell'epoca, non essendo stata neppure specificata quale disposizione di legge sia stata violata dal predetto.


L'imputato non aveva alcun potere per emettere l'ordine di sospensione dei lavori (che spettava al Responsabile di settore) ed era ciononostante intervenuto per sospendere i lavori, così dimostrando di azionare una prudente e interlocutoria iniziativa dopo le segnalazioni ed in attesa dei controlli cartolari.


Sulla base dell'ordine di servizio del 2004, mai revocato, l'imputato era stato delegato dal Responsabile di settore ad esercitare controlli, verifiche e accertamenti in materia urbanistica unicamente sulla base della documentazione presentata, ad eccezione di quanto ritenuto di acquisire per i compiti di cui alla L. n. 241 del 1990, artt. 5 e 6.


In tale prospettiva, il P. nel caso in esame, si era premurato di analizzare e studiare la documentazione prodotta, chiedere documentazione integrativa per approfondire e chiarire i contenuti formali e sostanziali delle DIA da verificare, chiedere al G. l'atto di asservimento (mai consegnato) essenziale per stabilire la legittimità della pratica (ed in particolare la potenzialità edificatoria di un lotto urbanistico già unitario e parzialmente edificato e poi frazionato).


Neppure era macroscopica la illegittimità della DIA, stante l'acceso dibattito esistente all'epoca sul ricorso a tale strumento per edificare nuove costruzioni (c.d. super DIA).


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.


Il ricorrente si è limitato in definitiva a reiterare questioni già esaminate sin dal primo grado di giudizio e ampiamente affrontate dalla sentenza impugnata, finendo quindi per non correlare le sue critiche alle ragioni esposte dalle sentenze di merito e per sollecitare una nuova rivalutazione delle evidenze probatorie, notoriamente preclusa in questa sede.


In ogni caso, le deduzioni, oltre che generiche e non consentite, si rivelano anche all'evidenza prive di fondamento.


In particolare, generica appare la censura sulla incertezza all'epoca sul regime giuridico di edificabilità, a fronte delle puntuali argomentazioni sul punto avanzate dalla Corte di appello (che ha richiamato a riscontro ulteriore anche la stessa versione difensiva, relativamente alla disposta sospensione dei lavori).


Quanto al dolo intenzionale, il ricorrente ha riproposto in questa sede la tesi sostenuta nel gravame di appello e già esaminata dalla Corte di appello, con motivazione coerente e giuridicamente corretta.


Va rammentato infatti che la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 c.p., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (tra tante, Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv. 272331).


Nella specie, la Corte di appello ha evidenziato che veniva in considerazione non solo la mera inazione del ricorrente a fronte della macroscopica illegittimità dell'opera da realizzare (già desumibile dagli atti in suo possesso), bensì anche la sua persistente inerzia e la sua attività dilatoria, pur a seguito di insistenti richieste di procedere alla verifica.


Le diverse argomentazioni in ordine alla desumibilità dagli atti della illegittimità dell'opera da realizzare e alla responsabilità del ricorrente in ordine al procedimento amministrativo appaiono generiche e non correlate al ragionamento probatorio della sentenza impugnata, come innanzi sintetizzato.


Quanto alla norma violata, la questione, non proposta specificatamente in appello, era stata già esaminata in primo grado, come in narrativa sopra esposto, e la doglianza in questa sede appare viepiù generica.


2. Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.


Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.


In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso siano stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di duemila Euro, in favore della cassa delle ammende.


Consegue, ancora, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado a favore della parte civile costituita, liquidate come indicato nel dispositivo.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.


Condanna inoltre il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla costituita parte civile G.A., che liquida in complessivi Euro 3.500, oltre accessori di legge.


Così deciso in Roma, il 27 settembre 2018.


Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2018

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