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Abuso d'ufficio: non sussiste in caso di violazione di generici obblighi comportamentali sanciti


Tribunale di Cassino

La massima

In tema di abuso di ufficio, la modifica introdotta con l' art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76 , conv., con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 , ha ristretto l'ambito applicativo dell' art. 323 c.p. , con conseguente abolitio criminis in relazione alle condotte antecedenti all'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità, sicché deve escludersi che integri il reato la violazione di generici obblighi comportamentali sanciti, nei confronti dei pubblici impiegati, dall' art. 13 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 , e comunque la inosservanza di norme di principio quale l' art. 97 Cost



La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 07/04/2022, (ud. 07/04/2022, dep. 20/06/2022), n.23794

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza del Tribunale di Castrovillari del 15 gennaio 2019, che aveva condannato gli imputati G.G.G. e L.S. per il reato di cui agli artt. 110 e 323 c.p..


Agli imputati era stato contestato di aver, nel procedimento relativo al piano di lottizzazione "(OMISSIS)" del Comune di (OMISSIS), in violazione degli D.P.R. n. 207 del 2010, artt. 141,215 e 216 - che fa divieto di affidare incarichi di collaudo a coloro che hanno svolto attività di controllo, verifica, progettazione, approvazione, autorizzazione, vigilanza e direzione sul contratto da collaudare in concorso tra loro, il L., quale responsabile del procedimento, adottato la determinazione dirigenziale del 20 ottobre 2015 con la quale era stata liquidata e pagata al G. per l'attività di collaudatore la somma di Euro 4.260,98, nonostante che quest'ultimo (responsabile dell'Ufficio tecnico) avesse partecipato attivamente all'iter autorizzativo sia per la validazione del progetto e per la stipula della convenzione di lottizzazione, sia per il rilascio del permesso di costruire, così procurando intenzionalmente al G. un ingiusto vantaggio patrimoniale ed un danno ingiusto al Comune.


1.1. Dalla ricostruzione in fatto risultante dalle sentenze di merito emerge che:


- il 23 dicembre 2008 era stata stipulata una convezione urbanistica relativa al piano di lottizzazione "(OMISSIS)", nella quale il Comune di (OMISSIS) era rappresentato dall'arch. G.G.G., dirigente del settore "4 Territorio e Ambiente", che prevedeva che le opere di urbanizzazione primaria fossero poste a carico dell'esecutore dei lavori;


- su richiesta dei privati dell'11 giugno 2009, G., nella suddetta qualità dirigenziale, aveva rilasciato il 12 aprile 2011 il permesso di costruire per la realizzazione delle suddette opere di urbanizzazione;


- G., nella medesima veste, aveva nominato L.S. responsabile unico del procedimento (RUP) e sé stesso e il geom. R. quali collaudatori delle opere (comunicazione alle parti private del 13 settembre 2011 e interna de11111 ottobre 2011);


- il 4 giugno 2015 il direttore dei lavori aveva redatto il certificato di regolare esecuzione;


- la commissione di collaudo nel corso delle opere effettuava vari sopralluoghi, redigendo i relativi verbali e il 25 giugno 2015 un certificato di collaudo parziale delle opere di urbanizzazione (con il quale le stesse erano acquisite al patrimonio comunale);


- in data 20 ottobre 2015 il RUP L. aveva emesso la determina dirigenziale n. 1549, con la quale aveva liquidato al R. e al G. la somma di Euro 4.260,98 ciascuno quale compenso per l'attività di collaudatori svolta;


- il 5 novembre 2015 il dirigente G. aveva a sua volta liquidato con determina n. 1674 il compenso al RUP L. pari a 4.260,98.


2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, denunciando, a mezzo di difensore, i motivi di seguito sintetizzati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..


2.1. Ricorso G..


2.1.1. Violazione di legge (D.Lgs. n. 163 del 2006, artt. 32 e 141, D.P.R. n. 380 del 2012, artt. 7 e 16, art. 323 c.p.) e vizio di motivazione.


La Corte di appello ha respinto, con motivazione carente ed errata, la questione sottoposta dalla difesa sulla non applicabilità alle opere di urbanizzazione in esame del Codice degli appalti - trattandosi di opere "sotto soglia" comunitaria e poste a carico del titolare del permesso di costruire (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 16, comma 2-bis: "Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui al art. 28, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n.163 del 12 aprile 2006, art. 28, comma 1, lettera c), funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il D.Lgs. n.163 del 12 aprile 2006").


Si trattava pertanto di contratto di appalto di natura prettamente privatistica al quale non era applicabile la disposizione del D.Lgs. n.163 del 12 aprile 2006, art. 141, comma 5.


In ogni caso, risultavano mancanti - come prospettato nell'appello - gli elementi tipici del reato di cui all'art. 323 c.p..


La difesa aveva dedotto che la convenzione stipulata il 23 dicembre 2008 con il Comune prevedeva una procedura semplificata: la nomina dei collaudatori spettava al privato appaltante e al Comune soltanto una "alta sorveglianza" dell'attività tecnica del privato lottizzatore (cfr. art. 17 del contratto).


La Corte di appello ha dato rilievo alla impropria terminologia usata in concreto dalle parti, non verificando se in definitiva G. avesse effettivamente svolto l'attività di collaudo ai sensi del D.Lgs. n.163 del 12 aprile 2006, art. 141 o - come dedotto - soltanto la sorveglianza nel passaggio di consegne delle opere espletate con la verifica della corrispondenza del "certificato di regolare esecuzione" (redatto dal direttore dei lavori V.), senza commistione di ruoli e senza incorrere in alcuna incompatibilità.


Quindi illogicamente si è attribuita al G. la funzione di "collaudatore" quando era provato che era stato redatto il certificato di regolare esecuzione e quindi svolta dal predetto soltanto quella alta sorveglianza espressamente richiamata dalla convenzione urbanistica.


In ogni caso, il G. ha certamente svolto la sua opera nell'esclusivo interesse del Comune, prima della acquisizione delle opere all'ente, ricevendo il compenso dal privato e senza alcun onere per il Comune.


Non è stato accertato il dolo, tenuto conto anche della complessa materia normativa, di non chiara applicazione - stante la presenza intrecci e deroghe. 2.2. Ricorso L..


2.2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione.


Erroneamente la Corte di appello ha ritenuto di applicare alla vicenda in esame il codice degli appalti e in particolare il regime di cui al D.Lgs. n.163 del 12 aprile 2006, art. 141 quando invece le opere ricadevano nel regime dell'art. 32, comma 1, del medesimo codice (versione all'epoca vigente) - quali opere di urbanizzazione primaria "sotto soglia" - e quindi nella previsione derogatoria del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 16.


In ogni caso, lo stesso Codice degli appalti prevede delle deroghe all'art. 141 cit. quanto al collaudo e il caso in esame rientrava in tali ipotesi (segnatamente, la sussistenza delle condizioni per il rilascio del certificato di regolare esecuzione) (cfr. art. 17 della convezione di lottizzazione).


Nel caso in esame, infatti, il privato ha presentato il certificato di regolare esecuzione delle opere a firma del suo direttore dei lavori e su tale certificato il G. ha svolto la verifica per la sua approvazione e consegna delle opere al comune. Solo in modo improprio tale controllo è definito "collaudo" dalla convezione (il vero collaudo era stato effettuato dal privato direttore dei lavori).


L'opera del G. era stata economicamente sostenuta - come da convezione - dal privato che ha versato le relative somme al Comune.


Tali circostanze risultano accertate in dibattimento.


Inoltre, al ricorrente, responsabile del procedimento, sono stati attribuiti dalla Corte di appello compiti di controllo e verifica che non gli competevano, dovendosi lo stesso attenere a quanto previsto dal contratto.


La scelta del collaudatore non era di competenza del RUP ma competeva alla Stazione appaltante, nella persona del Dirigente, che lo ha nominato attenendosi alla normativa del Codice (art. 120).


Quindi, stante l'attuale formulazione dell'art. 323 c.p., difetterebbe la norma di legge specifica che imponga al RUP (al quale è affidata la cura del regolare evolversi del procedimento, restando in capo all'unità organizzativa competente il potere decisionale sull'atto conclusivo) di procedere alla verifica delle nomine di competenza dirigenziale e quindi a non dar seguito al pagamento previsto dalla Convenzione (che era invece atto conseguenziale e necessitato).


In ogni caso, la procedura era quella semplificata disciplinata dalle norme di diritto civile.


Venendo al reato contestato, difetta del tutto la prova del dolo intenzionale e la ricorrenza della c.d. doppia ingiustizia.


Il Comune non ha subito alcun danno ingiusto, posto che le somme sono state pagate dal privato (l'incameramento era una mera partita di giro).


3. Disposta la trattazione scritta del procedimento, ai sensi del D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 23 comma 8, convertito dalla L. n.176 del 18 dicembre 2020, (così come modificato per il termine di vigenza dal D.L. 30 dicembre 2021, n. 228), in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale e il difensore di G. hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono fondati per le ragioni di seguito indicate.


2. Preliminarmente va disattesa la tesi difensiva volta a contrastare sia l'applicabilità alle opere di urbanizzazione, oggetto della convenzione urbanistica in esame, della normativa sul Codice degli appalti (allora vigente) e segnatamente del divieto figurante all'art. 141, sia la qualificazione dell'attività svolta dal G. come "collaudo".


2.1. Sulla prima questione, va osservato che l'imputazione si basa sulla violazione del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 141, che prevedeva per i contratti pubblici che "il collaudatore o i componenti della commissione di collaudo non devono avere svolto alcuna funzione nelle attività autorizzative, di controllo, di progettazione, di direzione, di vigilanza e di esecuzione dei lavori sottoposti al collaudo. Essi non devono avere avuto nell'ultimo triennio rapporti di lavoro o di consulenza con il soggetto che ha eseguito i lavori. Il collaudatore o i componenti della commissione di collaudo non possono inoltre fare parte di organismi che abbiano funzioni di vigilanza, di controllo o giurisdizionali."


La norma derogatoria invocata dalla difesa (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 16, comma 2-bis, che per la realizzazione dele opere di urbanizzazione primaria escludeva l'applicazione del citato D.Lgs. n. 163 del 2006) è stata introdotta solo dal D.L. n. 201 del 6 dicembre 2011, convertito con modificazioni dalla L. n. 214 del 22 dicembre 2011. Quindi successivamente sia alla stipula del contratto di lottizzazione (dicembre 2008) sia anche del rilascio del permesso a costruire (12 aprile 2011) e della stessa nomina del G. come collaudatore (settembre 2011) e quindi non applicabile alle opere in questione.


In assenza di un regime transitorio specifico per l'applicazione della novella, occorre fare riferimento ai principi generali in materia di successione delle leggi nel tempo: i rapporti negoziali e, in generale, i rapporti di carattere sostanziale, restano regolati dalla fonte vigente al momento della nascita del rapporto stesso. Nella specie doveva essere preso in considerazione il momento in cui si sostanziava l'accordo di volontà tra il comune ed il titolare del permesso di costruire o del piano urbanistico, ovvero alla stipula della convenzione urbanistica che conteneva anche l'impegno del privato a realizzare a propria cura e spese le opere di urbanizzazione.


Per gli accordi perfezionatisi prima del 6 dicembre 2011, doveva quindi trovare applicazione la previgente disciplina codicistica, che comportava in tale ambito l'obbligo di utilizzare la procedura negoziata di cui all'art. 122, comma 8 del Codice, ferma, in ogni caso, la facoltà del privato e dell'amministrazione comunale di addivenire, di comune accordo, ad una modifica della convenzione edilizia già stipulata, così da rendere immediatamente operante la nuova facoltà prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 16 comma 2-bis (cfr. deliberazione Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, del 13 marzo 2012).


Nel caso in esame, all'epoca della stipula del contratto (non modificato in seguito) e del rilascio del permesso di costruire e della nomina del G., era vigente il D.Lgs. n.152 del 11 settembre 2008, - che ha novellato il Codice degli appalti del 2006 (art. 122, comma 8) - e che imponeva per l'affidamento delle opere di urbanizzazione anche sottosoglia il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, con invito almeno cinque soggetti.


2.2. Quanto al secondo profilo, va rilevato che la normativa dell'epoca prevedeva in tema di collaudo di lavori pubblici che:


- il soggetto appaltante per i lavori di importo superiore, ma non eccedente il milione di Euro, potesse sostituire il certificato di collaudo con quello di regolare esecuzione (D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 141, comma 3);


- il certificato di regolare esecuzione dei lavori fosse emesso dal direttore lavori e confermato dal responsabile del procedimento (D.P.R. n. 554 del 1999, art. 208, Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici, applicabile in virtù delle disposizioni transitorie del Regolamento del Codice degli appalti, emanato con D.P.R. n. 207 del 2010).


La Corte di appello ha ritenuto in modo non manifestamente illogico che il Comune non abbia fatto ricorso alla procedura semplificata sopra indicata in quanto la convenzione urbanistica, pur prevedendo il suddetto certificato, richiedeva in ogni caso il "collaudo finale" da parte del Comune; G. si era definito "collaudatore" delle opere e aveva effettuato controlli in corso d'opera, aveva redatto il "certificato di collaudo parziale" e aveva percepito per tale attività il compenso liquidatogli dal RUP L..


La tesi dei ricorrenti dell'alta sorveglianza (ovvero di un mero controllo sul certificato) si scontra in ogni caso con la competenza riconosciuta dalla citata norma a tal fine al solo RUP L. senza la previsione di alcun compenso.


3. La sentenza impugnata merita censura invece sotto altri profili.


3.1. Il primo punto critico è quello concernente la individuazione del soggetto intraneo alla P.A. che ha commesso l'abuso d'ufficio.


L'imputazione pone l'abuso in capo al solo RUP L., che avrebbe liquidato e pagato al G. il compenso come collaudatore, in violazione del divieto di cui all'art. 141 D.Lgs. n. 163 del 2006.


La difficoltà di costruire l'abuso sulla sola condotta di L. ha peraltro portato i giudici di merito a descrivere la condotta di quest'ultimo in termini di contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente del concorrente G. ed affermare che senza il suo contributo nella qualità di RUP il reato non poteva essere commesso, risultando il reato integrato dall'azione concorrente dei due imputati, che "hanno posto in essere atti e provvedimenti amministrativi tipici delle rispettive funzioni", che sono confluiti nel risultato finale dell'indebito vantaggio patrimoniale del G..


In tal modo si è del tutto snaturata l'imputazione che aveva ravvisato l'abuso in una precisa condotta del pubblico ufficiale L. (la adozione della determina dirigenziale del 20 ottobre 2015), nella quale aveva concorso il G. solo nella veste di destinatario dell'atto abusivo.


La nomina del G. quale collaudatore, in violazione del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 141 è imputabile invero soltanto a quest'ultimo, e risale alla sua delibera 2011, e sulla base della sua nomina già esistente L. ha proceduto alla liquidazione del compenso al G..


3.2. La difesa aveva puntualmente sostenuto con l'appello che L. non era responsabile della nomina del collaudatore e che nessuna violazione di legge era a lui imputabile.


La Corte di appello ha superato tale obiezione difensiva, richiamando la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13 (norme di comportamento del pubblico dipendente) per sostenere che il pubblico ufficiale L. ha violato il divieto di dar seguito ad un atto illegittimo.


Questa argomentazione è errata sotto un duplice profilo.


La violazione della norma che impone al pubblico dipendente statale di prestare la sua opera "in conformità delle leggi" non può integrare la violazione di legge sanzionata dall'art. 323 c.p..


In tema di abuso d'ufficio, si è affermato invero che la modifica, introdotta con D.L. n.76 del 16 luglio 2020, art. 23, convertito con modificazioni dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, ha ristretto l'ambito applicativo dell'art. 323 c.p., determinando una parziale "abolitio criminis" in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità (Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Rv. 280296).


Pertanto, non può essere ricondotta nel fuoco della disposizione incriminatrice così novellata la violazione di generici obblighi comportamentali sanciti dall'art. 13 cit.


In secondo luogo tale norma non è applicabile ai dipendenti degli enti locali, che la giurisprudenza di legittimità, nella vigenza della precedente formulazione dell'art. 323 c.p., riteneva invece soggetti ai generali principi di imparzialità e di buon funzionamento dell'amministrazione, codificati nel dettato costituzionale dell'art. 97 (Sez. 6, n. 38357 del 12/06/2014, Rv. 260472). Parametro quest'ultimo anch'esso ritenuto non più idoneo ad integrare la "violazione di legge" rilevante ai fini dell'abuso d'ufficio: la condotta di abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche così da impedire che si sussurra nell'ambito della fattispecie tipica anche l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost. (così, Corte Cost., sent. n. 8 del 2022; cfr. al riguardo, Sez. 6, n. 13136 del 17/02/2022, Rv. 282945).


3.3. A questi rilievi già assorbenti per escludere la sussistenza del fatto ascritto agli imputati, si aggiungono quelli relativi alla prova del concorso nel reato, ovvero dell'intesa intercorsa tra i due imputati, non essendo a tal fine sufficiente la sola domanda del privato volta ad ottenere dal pubblico agente un atto illegittimo (Sez. 6, n. 15837 del 20/12/2018, dep. 2019, Rv. 275540) o dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro (Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Rv. 264460).


Nella specie, la Corte di appello in modo carente ha desunto l'esistenza di un accordo per avvantaggiare ingiustamente il G. soltanto al loro "comune interesse" per la reciprocità delle rispettive liquazioni.


4. Conclusivamente sulla base di quanto premesso, la sentenza impugnata---deve, pertanto, essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.


Così deciso in Roma, il 7 aprile 2022.


Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2022


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