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Abuso d'ufficio: sulla "abolitio criminis" delle condotte commesse con violazione di norme generali


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso di ufficio, la modifica introdotta con l' art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76 , conv., con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120 , ha ristretto l'ambito applicativo dell' art. 323 c.p., determinando l'abolitio criminis delle condotte realizzate mediante violazione di norme generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse, o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità, sicché deve escludersi che integri il reato la sola inosservanza dei principi di imparzialità e buon andamento che devono governare i pubblici agenti, ai sensi dell' art. 97 Cost.


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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 17/02/2022, (ud. 17/02/2022, dep. 06/04/2022), n.13136

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Cagliari - in riforma della pronuncia del 18 ottobre 2018 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cagliari - assolveva con la formula "perché il non è più previsto dalla legge come reato" P.M. e M.F. dal reato loro ascritto ai sensi degli artt. 110 e 323 c.p., per avere il primo quale sindaco del Comune di (OMISSIS), in concorso con il secondo quale suo incaricato per la predisposizione del nuovo assetto organizzativo dell'amministrazione municipale, in violazione di norme di legge, previste dall'art. 97 Cost., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1 e D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 25, adottato il provvedimento sindacale del 3 marzo 2014 con il quale aveva nominato Pi.St. (moglie del M.) e Ma.An.Pa. responsabili di posizione organizzativa, così procurando loro un ingiusto vantaggio patrimoniale, benché nell'organigramma del comune vi fossero altri dipendenti - in particolare S.A. - di pari categoria giuridica, ma con superiore posizione economica e migliori requisiti professionali.


Rilevava la Corte territoriale come le modifiche dell'art. 323 c.p., introdotte dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, avessero determinato una abolitio criminis parziale, rendendo non più punibili le condotte che, nel caso di specie, erano state contestate almeno in parte in termini di violazione di regole di condotta non espressamente previste da norme di legge e, comunque, regole la cui applicazione comportava l'esercizio di poteri caratterizzati da margini di discrezionalità.


2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Cagliari il quale, con due distinti punti, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all'art. 323 c.p., e il vizio di motivazione, per carenza e apparenza, per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto che le condotte accertate fossero state depenalizzate, senza tenere conto che la riforma del 2020, escludendo la possibilità di valorizzare, nella valutazione delle condotte dei pubblici funzionari, la violazione dei principi di buona amministrazione e imparzialità della pubblica amministrazione previsti dall'art. 97 Cost., doveva considerarsi costituzionalmente illegittima; e che la condotta dei due imputati si era, in ogni caso, concretizzata nella violazione dell'obbligo di astensione in relazione alla nomina della Pi. - moglie del M., al quale il P. era legato da uno strettissimo rapporto personale - inosservanza che, dopo le modifiche introdotte dal citato D.L. n. 76 del 2020, continua ad integrare gli estremi del reato di abuso di ufficio.


3. Contro tale sentenza ha proposto ricorso anche la parte civile S.A., con atto sottoscritto dal suo difensore e procuratore speciale, la quale, con un unico articolato punto, ha dedotto la violazione di legge, in relazione all'art. 323 c.p., e il vizio di motivazione, per mancanza e manifesta illogicità, per avere la Corte di merito, senza seguire un percorso argomentativo rafforzato, necessario per poter riformare in appello una sentenza di condanna di primo grado, erroneamente ritenuto che le condotte accertate non fossero più previste dalla legge come reato: nonostante fosse risultato che gli imputati, che solo formalmente avevano esercitato un potere discrezionale, non avevano agito in concreto per il conseguimento di un interesse primario pubblico ma per realizzare arbitrariamente finalità del tutto personali; e che il sindaco P., prima di adottare il provvedimento indicato nell'imputazione, aveva nominato la S. ad un posto dirigenziale senza consentirle di esercitare le sue funzioni e così costringendola a rinunciare all'incarico, per poi farle sapere che avrebbe nominato la Pi. senza effettuare la valutazione comparativa prescritta da precise norme di legge.


4. Con memoria inviata via pec l'avv. Matteo Perra, difensore dell'imputato M., ha chiesto dichiararsi la inammissibilità o il rigetto dei ricorsi, in quanto la sentenza impugnata è stata adottata sulla base di corrette valutazioni giuridiche; non essendo stato accertato che il M. avesse emesso alcun provvedimento amministrativo, neppure come funzionario di fatto; non risultando formalmente contestata nel capo di imputazione una violazione dell'obbligo di astensione, peraltro insussistente con riferimento alla posizione del coimputato P.; e non essendo stata dimostrata l'esistenza del requisito della doppia ingiustizia né della ingiustizia del danno, in relazione all'emissione di un provvedimento la cui verifica di legittimità sarebbe spettata al segretario comunale. In via subordinata, ha domandato dichiararsi il reato estinto per intervenuta prescrizione.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente rilevato come il reato, dal quale gli odierni imputati sono stati mandati assolti, si sarebbe estinto dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado per intervenuta maturazione del termine massimo di prescrizione di sette anni e mezzo, decorrente dalla data di consumazione del 3 marzo 2014. E ciò senza che possa condurre a differenti conclusioni il computo del periodo di sospensione di 3 mesi e 20 giorni dovuta al rinvio dell'udienza disposto nel giudizio di primo grado su richiesta della difesa.


Non e', invece, applicabile nel caso di specie l'ulteriore causa di sospensione ex lege del termine di prescrizione per l'emergenza sanitaria legata all'epidemia da Covid-19, prevista dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, convertito dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, e successive modifiche, in quanto nel periodo di operatività di tale disciplina (dal 9 marzo all'11 maggio 2020) nel presente processo non era stata fissata alcuna udienza né vi è stata la decorrenza di alcuno specifico termine processuale (in questo senso Sez. U., n. 5292 del 26/11/2020, dep. 2021, Sanna, Rv. 280432-02).


Tale constatazione impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato agli effetti penali del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Palermo, in quanto è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che vi è un difetto di interesse concreto e attuale ad impugnare, nel caso del ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione qualora sia ormai maturata la prescrizione del reato, salvo che emerga un interesse concreto alla decisione rispondente a una ragione esterna al processo obiettivamente riconoscibile (così, tra le altre, Sez. 6, n. 34069 del 29/09/2020, Cozzolino, Rv. 279928; Sez. 6, n. 2025 del 12/12/2018, dep. 2019, Celsi, Rv. 274844; Sez. 5, n. 30939 del 24/06/2010, Mangiafico, Rv. 247971): ragione che nel caso di specie non è stata dedotta dalla parte pubblica ricorrente.


2. Il ricorso presentato dalla parte civile S.A. ai sensi dell'art. 576 c.p.p., va, invece, rigettato.


2.1. Le doglianze della parte civile sono infondate nella parte in cui è stata denunciata una violazione della norma incriminatrice, nei termini addebitati agli imputati nel capo d'imputazione.


Il fatto così come contestato non è più previsto dalla legge come reato a seguito della parziale abolitio criminis conseguente alle modifiche apportate all'art. 323 c.p., D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120: disposizione con la quale le parole "di norme di legge o di regolamento" contenute nell'art. 323, sono state sostituite con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".


Come noto, le novità introdotte dalla riforma sono tre.


Fermi restando l'immutato riferimento all'elemento psicologico del dolo intenzionale e l'immodificato richiamo alla fattispecie dell'abuso di ufficio per violazione, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti (ipotesi di reato che non è variata nei suoi elementi costitutivi), il delitto di abuso di ufficio per violazione di legge, in conseguenza delle indicate modifiche introdotte nell'art. 323 c.p., è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente pubblico abbia avuto ad oggetto "specifiche regole di condotta" e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate "da norme di legge o da atti aventi forza di legge", dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte subprimaria; e, in ogni caso, a condizione che le regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente, restando perciò esclusa l'applicabilità della norma incriminatrice laddove quelle regole di condotta rispondano in concreto, anche in misura marginale, all'esercizio di un potere discrezionale (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 8057 del 28/01/2021, Asole, Rv. 280965; Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, Rv. 280296).


Alla luce di tali premesse va, dunque, considerata giuridicamente corretta la decisione della Corte di appello di Cagliari di ritenere che il fatto di reato, così come addebitato nel capo d'imputazione in termini di violazione di legge, non è più previsto dalla legge come reato: avendo i giudici di merito chiarito, con motivazione adeguata, come fosse insufficiente il richiamo alle regole di condotta genericamente indicate nell'art. 97 Cost., a proposito dei principi di buona amministrazione e di imparzialità che devono governare l'operato dei pubblici agenti. Il tenore letterale della nuova norma incriminatrice e il significato che alla stessa va attribuito alla luce dei lavori parlamentari, idonei a illustrare quale sia stata la reale voluntas legis, consentono di affermare che con la riforma in argomento si sia voluto escludere la possibilità di ritenere integrato il reato de quo sulla base della sola accertata violazione dell'art. 97 Cost.. Ed infatti, "risulta trasparente l'intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla L. n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l'abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussurra nell'ambito della condotta tipica anche l'inosservanza di norme di principio, quale l'art. 97 Cost." (così Corte Cost., sent. n. 8 del 2022). Non e', dunque, condivisibile la diversa conclusione cui è prevenuta di recente la Cassazione (Sez. 1, n. 2028 del 06/12/2021, dep. 2022, Vezzola, non massimata) nell'esame di una situazione nella quale si era ritenuto di poter continuare a valorizzare gli indirizzi interpretativi raggiunti in materia dalla giurisprudenza di legittimità prima della entrata in vigore del D.L. n. 76 del 2020.


Inoltre, la specifica regola di condotta dettata dalla norma di legge contestata prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 25, comma 2 (secondo cui nell'assegnazione ai propri dipendenti di incarichi e responsabilità le pubbliche amministrazioni devono tenere conto della "professionalità sviluppata e attestata dal sistema di misurazione (...) secondo criteri oggettivi e pubblici") comporta di certo margini di discrezionalità nell'esercizio comparativo dei profili e nel bilanciamento tra le aspettative dei singoli dipendenti e le esigenze delle amministrazioni medesime.


D'altro canto, lo sviamento del potere, vale a dire l'esercizio della funzione pubblica orientato alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, finisce per diventare ininfluente - ai fini della configurabilità di una responsabilità penale ai sensi del "nuovo" art. 323 c.p. - laddove quel potere risulti caratterizzato dalla presenza di margini di discrezionalità, perché normativamente previsto come non vincolato. Carattere discrezionale del potere che esclude, come si è visto, la possibilità di ritenere integrati gli estremi del reato per violazione di specifiche regole di condotta e che, in questa ottica, rende irrilevante la circostanza - richiamata dal Procuratore Generale nel corso della discussione nell'odierna udienza - che quel potere si fosse concretizzato nell'adozione di un provvedimento amministrativo recante una motivazione incompleta ovvero insufficiente, dunque in violazione del generico obbligo di motivazione che deve qualificare tutti gli atti amministrativi che incidono sulla sfera giuridica dei relativi destinatari.


2.2. Nel corso dell'odierna udienza le parti hanno discusso della possibilità di attribuire al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica, benché non espressamente enunciata nell'addebito, in quanto nel capo d'imputazione vi sarebbe un implicito riferimento all'esistenza di un obbligo di astensione il cui rispetto sarebbe stato dovuto per il rapporto di coniugio tra uno due imputati, il M., e una delle beneficiarie del considerato provvedimento amministrativo di nomina.


Ora, è pacifico che, in conseguenza delle modifiche introdotte nell'art. 323 c.p., D.L. n. 76 del 2020, art. 23, sia rimasta immutata nei suoi elementi costituivi la fattispecie incriminatrice dell'abuso di ufficio per violazione dell'obbligo di astensione (così, tra le molte, Sez. 6, n. 7007 del 08/01/2021, Micheli, Rv. 281158): ed è certo che nella fattispecie fosse stata in qualche maniera evocata la mancata osservanza del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 78, comma 2 (contenente il Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), per cui "gli amministratori di cui all'art. 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado".


Tuttavia, la prospettata soluzione non e', nel caso di specie, condivisibile.


E ciò sia perché la questione è stata formalmente posta con il solo ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello - che, come detto, è stato per altre ragioni dichiarato inammissibile - e non anche con il ricorso della parte civile. Sia perché vi sono ragioni per ritenere che nella fattispecie il reato non sarebbe stato, in ogni caso, configurabile, tenuto conto che l'indicato obbligo di astensione non era riferibile al pubblico ufficiale, cioè al sindaco P. (che non aveva alcun rapporto parentale o di affinità con le beneficiate del provvedimento di nomina da lui adottato), ma al concorrente soggetto privato, il M.: questi, però, non avendo formalmente assunto alcun ruolo pubblicistico nell'ambito dell'amministrazione municipale, essendosi egli limitato a prestare da libero professionista una attività di consulenza esterna, non poteva considerarsi destinatario della norma prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, suddetto art. 78, comma 2, che, nel prevedere il considerato dovere di astensione - elemento costitutivo e non mera circostanza della norma incriminatrice in esame - lo collega necessariamente e in maniera specifica ad una situazione di incompatibilità soggettiva riferita all'amministratore pubblico, intraneus autore dell'illecito, e non anche all'eventuale extraneus con l'altro dovesse concorrere.


2.3. Al rigetto del ricorso segue la condanna della parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Cagliari. Rigetta il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2022.


Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2022

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