Reati contro la PA
Art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione
Il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni.
Pena
da tre a otto anni di reclusione
Competenza
Procedibilità
Prescrizione
Arresto
Fermo
Custodia cautelare
Alla luce della previgente disposizione, la quale sanzionava la condotta del "pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sè o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa", si riteneva occorresse una "proporzione" tra l'atto dell'ufficio e la dazione indebita, attesa la natura "retributiva" di quest'ultima.
Di conseguenza, ai fini della configurabilità del reato di cui al "vecchio" art. 318 c.p., deve ritenersi fosse necessario che l'atto o gli atti dell'ufficio fosse o fossero determinati o quanto meno determinabili. Inoltre, sempre in ragione della natura "retributiva" della dazione, deve ritenersi che, sempre per l'integrazione di tale figura delittuosa, fosse necessario un collegamento causale tra la corresponsione dell'utilità e l'atto o gli atti dell'ufficio.
Non a caso, del resto, la giurisprudenza antecedente alla entrata in vigore della novella di cui alla L. n. 190 del 2012, quando risultassero indebite dazioni di notevole consistenza e gli atti dell'ufficio non potessero essere individuati, nè fossero sufficientemente individuabili, aveva individuato la figura dello "stabile asservimento" del pubblico ufficiale agli interessi del privato ed aveva ricondotto la stessa nello schema della corruzione propria di cui all'art. 319 c.p. (così, tra le tante, Sez. F, n. 34834 del 25/08/2009, Ferro, Rv. 245182, nonchè Sez. 6, n. 34417 del 15/05/2008, Leoni, Rv. 241081).
In applicazione di questo principio, anzi, i giudici di legittimità avevano espressamente escluso la configurabilità del reato di corruzione - anche propria - in un caso in cui un consigliere provinciale aveva ricevuto somme di denaro da un imprenditore risultato aggiudicatario di un appalto in relazione al quale pendeva un contenzioso amministrativo, in ragione dell'assenza di elementi di prova dai quali desumere nei comportamenti dell'imputato una situazione di asservimento della funzione pubblica dallo stesso esercitata (cfr. Sez. 6, n. 20046 del 16/01/2008, Bevilacqua, Rv. 241184).
Per completezza, deve aggiungersi che, anche in materia di corruzione, secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, non può essere ricondotta alla nozione di "atto di ufficio" la "segnalazione" o "raccomandazione" con cui un pubblico ufficiale sollecita il compimento di un atto da parte di altro pubblico ufficiale, trattandosi di condotta commessa "in occasione" dell'ufficio, e che, quindi, non concreta l'uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell'agente (cfr. Sez. 6, n. 38762 del 08/03/2012, D'Alfonso, Rv. 253371, nonchè Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234359; per l'espressione di identico concetto in tema di fattispecie di abuso d'ufficio v. Sez. 6, n. 5895 del 09/01/2013, Verdini, Rv. 254892).
La L. n. 190 del 2012, facendosi carico delle tensioni interpretative manifestatesi durante la vigenza del precedente testo dell'art. 318 c.p., che ricollegava la sanzione esclusivamente al compimento di uno specifico atto dell'ufficio, ha inteso infatti estendere la tutela penale alle ipotesi di corruzione sistemica, quelle, cioè, non legate ad una specifica prestazione da parte del pubblico agente, ma, piuttosto, alla messa a disposizione della propria funzione per gli interessi di terzi (il c.d. "pubblico ufficiale a libro paga"), avendo il legislatore preso atto che già solo tale distorsione potenziale del concreto esercizio della funzione è sufficiente a ledere il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione.
In alcun modo, però, la novella ha inteso escludere dal perimetro della norma le ipotesi, già sanzionate in precedenza, in cui il patto corruttivo fosse diretto ad un specifico atto del pubblico agente o ne costituisse la remunerazione successiva: infatti, la formula testuale utilizzata ("per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri") è volutamente ampia, nell'esplicito intento di ricomprendervi la vendita sia del singolo atto che, più in generale, della funzione, come pure tanto la corruzione antecedente quanto quella susseguente (nel precedente testo, invece, tenute distinte e diversamente sanzionate, ma oggi condivisibilmente ritenute espressive di un identico disvalore, poiché entrambe idonee a minare la fiducia dei cittadini nella pubblica amministrazione).
La condotta tipica descritta dalla vigente fattispecie di cui all'art. 318 c.p., assegna rilevanza penale autonoma al mercimonio della funzione, a prescindere dalla individuazione di un atto specifico di ufficio, non essendo strutturata in termini di sinallagmaticità della prestazione tra intraneus e privato, conclusione confermata dalla sostituzione, a livello semantico, del termine "retribuzione" con la locuzione "denaro o altra utilità".
Proprio l'uso del termine retribuzione aveva condotto gli interpreti a ravvisare quale elemento costitutivo del reato di cui all'art. 318 c.p., il requisito della proporzione tra il vantaggio conseguito dal privato e l'entità dell'utilità oggetto di dazione o promessa, diversamente dalla fattispecie di cui all'art. 319 c.p. ove era sufficiente che la "datio" fosse correlata all'atto contrario ai doveri di ufficio che il pubblico ufficiale, per l'accordo intervenuto, deve compiere o ha compiuto ed aveva dato aidito all'interpretazione giurisprudenziale orientata ad escludere dall'ambito della corruzione impropria tutte quelle ipotesi di scambio nelle quali non potesse ravvisarsi un rapporto sinallagmatico fra le due prestazioni costituenti l'accordo corruttivo (Sez. U, n. 2780 del 24/01/1996, Panigoni e altri, Rv. 203972).
Superando le discussioni che investivano la originaria previsione di cui all'art. 318 c.p., a seconda che si fosse in presenza di corruzione cd. antecedente o susseguente, la individuazione del bene giuridico protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 318 c.p., appare ravvisabile, nella violazione del principio di imparzialità della pubblica amministrazione, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione - indicati nell'art. 97 Cost., comma 1 - che risalenti ma ancora attuali affermazioni di questa Corte individuano quale bene giuridico tutelato dall'art. 319 c.p. (ex multis Sez. 6, n. 7259 del 12/01/1990 - dep. 24/05/1990, Lapini, Rv. 184397).
La modifica normativa operata con la L. n. 190 del 2012, ha trasposto nella norma un orientamento giurisprudenziale che sanziona espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con l'impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell'ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente (cfr. sul punto Sez. 6, n. 47271 del 25/09/2014, Casarin, Rv. 260732).