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Concussione: sussiste se le intimidazioni sono tali da non lasciare margine di autodeterminazione


Corte di Cassazione

La massima

In tema di concussione di cui all'art. 317 c.p., così come modificato dall'art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciatogli. (Fattispecie in cui la Corte ha qualificato come concussione la condotta di un carabiniere che, compiendo un controllo con modalità arbitrarie e vessatorie nei confronti di un imprenditore cinese, ingenerava un clima di tensione e preoccupazione, tale da rendere necessitata l'offerta di una somma di denaro quale corrispettivo per omettere la denuncia della condizione di clandestinità dei dipendenti - Cassazione penale , sez. VI , 11/07/2014 , n. 37655).



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. VI, 11/07/2014, (ud. 11/07/2014, dep. 12/09/2014), n.37655

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 14 marzo 2013 la Corte d'appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa dal G.i.p. presso il Tribunale di Prato in data 26 marzo 2010, ha rideterminato la pena inflitta a P.G. in anni due di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e confermando nel resto l'impugnata sentenza.


1.1. All'esito del giudizio di primo grado, svoltosi nelle forme del rito abbreviato, l'imputato veniva ritenuto colpevole, nella sua qualità di Carabiniere effettivo presso il Nucleo radiomobile della Compagnia dei Carabinieri di (OMISSIS), del reato di cui all'art. 317 c.p. e condannato, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, alla pena di anni due e mesi due di reclusione, oltre all'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque ed alla rifusione delle spese in favore della parte civile, D. X., che secondo il tema d'accusa egli aveva, nella notte del (OMISSIS), costretto e indotto a promettergli, attraverso una serie di condotte analiticamente descritte nel capo d'imputazione, la somma di Euro cinquecento quale corrispettivo dell'omessa denuncia delle situazioni di irregolarità riscontrate all'esito di un controllo effettuato presso la ditta di confezioni di cui era titolare la madre del predetto cittadino cinese, al quale fissava per l'indomani un appuntamento per la consegna della somma, raccomandando al suo interlocutore di non farne parola con nessuno; presentatosi al concordato appuntamento, allorchè il cittadino cinese gli offriva la minor somma di trecento Euro, egli rispondeva dicendo che li avrebbe ricevuti tutti insieme la prossima volta.


2. Avverso la su indicata sentenza ha personalmente proposto ricorso per cassazione il P., deducendo i motivi di doglianza qui di seguito sinteticamente riassunti.


2.1. Violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p., poichè, a fronte di una originaria contestazione del delitto di cui all'art. 317 c.p. sotto forma di induzione alla promessa di una somma di denaro (oggi rientrante nell'art. 319 quater c.p.), la Corte d'appello ha inteso condannare il ricorrente per il più grave reato di concussione integrata dalla "costrizione", condotta, invece, mai contestatagli, così violando il suo diritto di difesa.


2.2. Violazione di legge ed illogicità manifesta della motivazione con riferimento all'insussistenza dell'elemento costitutivo del metus publicae potestatis,non avendo la Corte d'appello chiarito quale sia stato l'effetto che l'asserita condotta di coazione posta in essere dal pubblico ufficiale abbia o meno sortito sulla eventuale soggezione psicologica in cui si sarebbe trovata la persona offesa.


Nel caso in esame, infatti, tutte le prove raccolte, ed in particolare le dichiarazioni della stessa persona offesa, hanno dimostrato come quest'ultima non fosse minimamente intimorita o preoccupata dal comportamento del pubblico ufficiale, ed anzi convinta che la persona presentatasi di notte all'interno della sua ditta fosse un falso carabiniere, cui aveva inteso offrire una somma di denaro solo per poterlo denunciare alle forze dell'ordine.


La persona offesa, infine, si decise a chiamare subito l'amico L.F. solo a causa di una pregressa, analoga, esperienza vissuta in altra occasione con dei falsi finanzieri.


2.3. Violazione di legge e contraddittorietà della motivazione con riferimento al requisito della "ingiustizia" del male minacciato, avendo la persona offesa comunque conservato un margine di libertà di autodeterminazione tale da non accedere subito alla richiesta di denaro - che in realtà il Carabiniere non ha mai formulato, ma, eventualmente, solo "suggerito" al suo interlocutore - o da accedervi, comunque, secondo le modalità dalla stessa scelte. La promessa della somma di denaro, dunque, venne effettuata solo per ragioni di tornaconto personale, a fronte della prospettazione di conseguenze sfavorevoli, derivanti dall'applicazione della legge per la presenza nella ditta di numerosi soggetti clandestini.


I fatti, in definitiva, avrebbero dovuto essere inquadrati nella meno grave fattispecie di cui all'art. 319 quater c.p..


2.4. Violazione di legge per l'erronea applicazione della pena, che avrebbe dovuto essere ridotta partendo dalla diversa pena base di cui alla meno grave ipotesi delittuosa dell'art. 319 quater c.p..


CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato per le ragioni qui di seguito esposte e precisate.


4. Palesemente infondata deve considerarsi la prima doglianza, ove si considerino le implicazioni della regula iuris da questa Suprema Corte al riguardo stabilita (Sez. 6, n. 31436 del 12/07/2012, dep. 01/08/2012, Rv. 253217; Sez. 6, n. 10094 del 22/02/2005, dep. 15/03/2005, Rv. 231833; Sez. 4, n. 14180 del 29/11/2005, dep. 21/04/2006, Rv. 233952), secondo cui la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto idonea ad integrare, in ipotesi, una nullità a regime intermedio verificatasi nel giudizio di primo grado, può essere correttamente dedotta ai sensi dell'art. 180 c.p.p. fino alla deliberazione della sentenza nel grado successivo, ciò che nel caso in esame non è avvenuto, mancando nei motivi di appello una censura specifica ed articolata in merito. Ne consegue che detta violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.


V'è da osservare, peraltro, che nel caso di specie il prospettato vizio neanche sussiste, contenendo espressamente il tema d'accusa una compiuta delineazione della contestata condotta costrittiva, sulla cui corretta qualificazione, anche a seguito dell'entrata in vigore della novella legislativa n. 190/2012, la Corte d'appello ha espressamente preso posizione con sequenze argomentative linearmente illustrate, e dal ricorrente non specificamente affrontate con validi argomenti di segno contrario.


5. Per quel che attiene alle ulteriori censure, tutte al limite dell'inammissibilità in quanto fortemente orientate verso una rivalutazione del merito, incompatibile con l'odierno scrutinio di legittimità, è necessario ribadire, sul piano generale ed al fine della verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte distrettuale, che tale decisione non può essere isolatamente valutata, ma deve essere esaminata in stretta correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che l'iter motivazionale di entrambe sostanzialmente si dispiega secondo la puntuale articolazione di sequenze logico-giuridiche pienamente convergenti (Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, dep. 11/04/2008, Rv.


239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Rv. 223061).


Siffatta integrazione tra le due motivazioni si verifica non solo allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, ma anche, e a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (da ultimo, Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 12/04/2012, Rv.


252615).


Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, in particolare, ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che sostanzialmente concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che l'impugnata pronunzia ha comunque offerto una congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza formulato nei confronti dell'odierno ricorrente.


Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, o perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv.


234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv.


235507).


Nel caso di specie, invero, l'adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nell'impugnata sentenza non è stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.


Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, dunque, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le censure dal ricorrente articolate.


6. Sulla base delle numerose emergenze probatorie offerte dall'esito dell'istruzione dibattimentale - e, segnatamente, dal contenuto delle convergenti dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa, D.X., dalla di lui moglie, dall'amico L.P. F. e da Z.W.J., che lavorava nella ditta di confezioni del primo, oltre che dagli esiti del servizio di appostamento, controllo e videoripresa svolto dagli organi investigativi in occasione del secondo incontro svoltosi nella mattina dello stesso giorno tra l'imputato e la persona offesa - i Giudici di merito hanno ricostruito analiticamente l'intera vicenda storico-fattuale oggetto della regiudicanda e puntualmente confutato le obiezioni ed i rilievi difensivi, evidenziando la decisiva circostanza di fatto secondo cui il D.X. ebbe ad attivarsi presso l'amico L. di notte, immediatamente dopo che l'imputato era uscito dai locali della sua ditta (ossia intorno alle ore 2.00), per informarlo dei fatti e rappresentargli le sue forti preoccupazioni per quanto era appena accaduto, a seguito dell'accesso del Carabiniere nella sua ditta (peraltro avvenuto di sua iniziativa, nottetempo, da solo, in divisa e con l'arma di ordinanza nella fondina) e del comportamento da lui tenuto durante la sua permanenza nei locali.


Lo stesso L., del resto, come posto in rilievo dai Giudici di merito, ben comprese la gravità di quanto riferitogli, tanto da renderne subito edotti, nelle prime ore della mattina del (OMISSIS) (ossia verso le ore 8.30), i Carabinieri del N.A.S. di Firenze, cui riferì di aver saputo da un imprenditore cinese di sua conoscenza che durante la notte appena trascorsa un Carabiniere si era presentato presso la sede della sua ditta di confezioni in (OMISSIS) per effettuare un controllo, e che lo stesso era quindi entrato nelle stanze degli operai, aveva frugato nei loro effetti personali e, nonostante le rimostranze espresse dal D. - che gli aveva fatto presente di non poter lasciare soli i tre figli minori - gli aveva detto che avrebbe dovuto portarlo in Caserma: avendo capito che il Carabiniere voleva del denaro per non denunciare le irregolarità riscontrate, il cittadino cinese ebbe ad offrirgli la somma di Euro 500,00 per evitare ritorsioni, somma che l'altro accettò, fissando per la relativa consegna un appuntamento per la mattina successiva.


Secondo quanto evidenziato dai Giudici merito, inoltre, dalle precise, dettagliate e convergenti dichiarazioni al riguardo rese dalla persona offesa D.X. e dalla di lui moglie è emerso, tra l'altro: a) che al momento dell'offerta della somma di Euro 500,00 - avvenuta dopo che il P. aveva fatto ingresso in sette-otto camere, aperto cassetti, guardato dentro le borse, controllato i documenti suoi e dei familiari, detto che doveva condurlo in Caserma per la presenza in loco di persone clandestine - il Carabiniere aveva accettato, raccomandandogli contestualmente di non far parola con alcuno di quanto accaduto, mentre faceva gli inequivocabili gesti del silenzio (portandosi il dito al naso) e dell'arresto (incrociando i polsi chiusi); b) che in occasione del successivo incontro, dai due concordato per le prime ore del mattino e oggettivamente documentato dal servizio di videoripresa, il Carabiniere non accettò la minor somma di trecento euro che la persona offesa era riuscita a reperire, e che aveva portato con sè (nel taschino della propria camicia), chiedendo di ricevere tutto insieme la prossima volta.


Nel percorso motivazionale dell'impugnata pronuncia si da altresì conto dell'indebito comportamento tenuto nella circostanza dall'imputato - il quale, violando ogni norma del relativo regolamento di servizio, non esitò a fare ingresso in uno stabile privato in piena notte, ancora in divisa ed armato, in assenza di una qualsiasi, riconoscibile, situazione di urgenza o di emergenza - nonchè dell'ulteriore elemento sintomatico rappresentato dal fatto che il riferimento alla necessità di condurre in Caserma la persona offesa è stato in più occasioni effettuato durante la permanenza del Carabiniere nella ditta di confezioni, traendone i Giudici di merito la logica inferenza della diretta ed intenzionale finalità di determinare a carico della vittima un clima di tensione, preoccupazione e paura, tale da rendere necessitata la conseguente offerta di una somma di denaro (anche in ragione della effettiva condizione di irregolarità in cui versavano taluni lavoratori di quella ditta per la loro condizione di clandestinità).


Dal complesso delle emergenze probatorie, sia analiticamente che globalmente valutate, i Giudici di merito hanno coerentemente desunto la sussistenza dell'ipotizzata condotta costrittiva, avuto riguardo, in particolare, all'esplicita e ripetuta minaccia di arresto in relazione ad una situazione che per nessuna ragione lo consentiva, alle circostanze temporali in cui si è verificato l'indebito accesso, alle forme e modalità con cui lo stesso è stato arbitrariamente condotto, all'approfittamento delle condizioni di debolezza in cui oggettivamente si trovavano il soggetto passivo ed i suoi familiari.


In relazione ai profili or ora evidenziati, in definitiva, deve ritenersi che la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa su un quadro probatorio linearmente rappresentato come completo ed univoco, e, come tale, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza dell'assetto logico - argomentativo.


In questa Sede, invero, a fronte di una corretta ed esaustiva ricostruzione del compendio storico-fattuale oggetto della regiudicanda, non può ritenersi ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti accertati nella decisione di merito, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l'iter argomentativo ivi tracciato, ed a verificarne la completezza e la insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza alcuna possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle correlative acquisizioni processuali.


Alla stregua delle su esposte considerazioni, pertanto, deve ritenersi che la Corte d'appello abbia fatto buon governo del quadro di principii che regolano la materia in esame, uniformandosi all'insegnamento da questa Suprema Corte dettato, secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di concussione di cui all'art. 317 c.p., come modificato dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che di conseguenza, come avvenuto nel caso in esame si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciatogli (Sez. Un., n. 12228 del 24/10/2013, dep. 14/03/2014, Rv. 258470; Sez. 6, n. 2305 del 19/12/2013, dep. 20/01/2014, Rv. 258655).


L'abuso costrittivo del pubblico agente si è infatti realizzato non certo attraverso una forma attenuata di pressione morale variamente configurabile come persuasione, suggestione o inganno, sì da lasciare un, sia pur ridotto, margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario, ma con la esplicita prospettazione della minaccia di un danno "contra ius", da cui è derivata una grave limitazione della libertà di determinazione del soggetto passivo, il quale, senza alcun vantaggio indebito per sè, è stato posto di fronte all'alternativa di subire un danno, o di evitarlo con la dazione di una utilità indebita.


7. Al rigetto del ricorso, conclusivamente, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ex art. 616 c.p.p..


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 11 luglio 2014.


Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2014



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