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Posso pubblicizzare tramite Tiktok ed Instagram la vendita di bitcoin e criptovalute?

No, perché commetteresti il reato di abusivismo finanziario, punito con la reclusione fino ad otto anni.

La Suprema Corte di Cassazione, ha infatti stabilito in due sentenze di seguito riportate che, in tema di intermediazione finanziaria, la vendita "on line" di moneta virtuale "bitcoin" pubblicizzata quale forma di investimento per i risparmiatori - ai quali vengano offerte informazioni sulla redditività dell'iniziativa - è attività soggetta agli adempimenti previsti dalla normativa in materia di strumenti finanziari, di cui agli artt. 91 e ss. t.u.f., la cui omissione integra il reato di cui all'art. 166, comma 1, lett. c), t.u.f.

Indice:


1) Che cos'è il reato di abusivismo finanziario?

Il reato di abusivismo finanziario è previsto dall'art. 166 del Decreto legislativo del 24/02/1998 - N. 58 e punisce chiunque, senza esservi abilitato ai sensi del citato decreto :

a) svolge servizi o attività di investimento o di gestione collettiva del risparmio;

b) offre in Italia quote o azioni di OICR;

c) offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento.

c-bis) gestisce un APA o un ARM a cui si applicherebbe la deroga prevista dall'articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 600/2014 e dai relativi atti delegati​.

2. Con la stessa pena è punito chiunque esercita l'attività di consulente finanziario abilitato all'offerta fuori sede senza essere iscritto nell'albo indicato dall'articolo 31.

2-bis. Con la stessa pena e' punito chiunque esercita l'attivita' di controparte centrale di cui al regolamento (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, senza aver ottenuto la preventiva autorizzazione ivi prevista.

3. Se vi è fondato sospetto che una società svolga servizi o attività di investimento o il servizio di gestione collettiva del risparmio o la gestione di un APA o di un ARM a cui si applicherebbe la deroga prevista dall'articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 600/2014 e dai relativi atti delegati ovvero l'attivita' di cui al comma 2-bis senza esservi abilitata ai sensi del presente decreto, la Banca d'Italia o la Consob denunziano i fatti al pubblico ministero ai fini dell'adozione dei provvedimenti previsti dall'articolo 2409 del codice civile ovvero possono richiedere al tribunale l'adozione dei medesimi provvedimenti. Le spese per l'ispezione sono a carico della società.


2. Come è punito il reato di abusivismo finanziario?

Prevede una pena molto severa, ovvero la reclusione da uno a otto anni e la multa da euro quattromila a euro diecimila.


3) La Sentenza n. 44337 del 2021

Cassazione penale sez. II, 10/11/2021, (ud. 10/11/2021, dep. 30/11/2021), n.44337

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 4 giugno 2021 il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del riesame, rigettava la richiesta di riesame proposta nell'interesse di S.M. (indagato per i reati di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166 e art. 648 bis c.p.) e, per l'effetto, confermava il decreto di convalida del sequestro probatorio emesso dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Parma emesso l'8 maggio 2021, relativo al sito (OMISSIS) poiché lo stesso era da considerare corpo del reato e cosa pertinente al reato in quanto "strumento attraverso il quale vi sono la pubblicizzazione dell'attività illecita e l'offerta alla clientela, strumenti propedeutici alla messa in circolazione della moneta elettronica".


1.1 Avverso l'ordinanza del Tribunale ricorrono per Cassazione i difensori di Stanzani, eccependo la violazione di legge in relazione agli art. 91 T.U.F., D.Lgs. n. 58 del 1998 art. 166 e art. 355 c.p.p., (anche in relazione all'art. 125 c.p.p.): la difesa aveva infatti contestato l'assenza del fumus del reato di abusivismo finanziario richiamandosi ai principi giurisprudenziali elaborati in materia e secondo i quali la vendita delle criptovalute è assoggettata alla disciplina contenuta nel T.U.F. solo quando la stessa viene pubblicizzata come investimento finanziario; sul punto, la mera associazione del bitcoin all'oro digitale non poteva, come ritenuto dal Tribunale, considerarsi elemento sufficiente a ritenere applicabile il concetto normativo di investimento di natura finanziaria, viste le precisazioni effettuate dalla Consob, e che secondo la normativa di settore i bitcoin non erano unici strumenti per investire in oro finanziario: le criptovalute non sono strumenti finanziati, pertanto non assoggettabili al T.U.F. salvo nelle residuali ipotesi in cui la loro vendita è direttamente influenzata dalle specifiche modalità di sponsorizzazione del prodotto da parte del venditore.


1.2 Il difensore rileva che nell'atto di gravame era stata contestata anche la sussistenza del reato di riciclaggio: sul punto, il Tribunale del Riesame aveva ritenuto riscontrabile il dolo eventuale del reato, in considerazione del fatto che le risultanze investigative avevano evidenziato che alcuni investitori avessero utilizzato per le operazioni di acquisto delle criptovalute documenti di identificazione di soggetti deceduti e che molti acquirenti risultavano privi di redditi propri e segnati da molteplici precedenti di polizia; il Tribunale non aveva però considerato che la normativa imposta dal D.Lgs. n.231 del 2007, artt. 17 e 18, non avrebbe comunque permesso a Stanzani di rilevante i precedenti penali e di polizia dei clienti, oltre che la loro effettiva capacità economica, per cui non poteva assolutamente configurarsi il dolo eventuale del reato di riciclaggio.


1.3 Il difensore osserva che con l'atto di gravame si era sottolineato che la Polizia Giudiziaria avesse ricondotto sotto il vincolo di cui all'art. 252 c.p.p., beni di proprietà dell'indagato sprovvisti del requisito di pertinenzialità e cose che non erano affatto contemplate nel decreto autorizzatorio del 30.04.2021 emesso dalla Procura della Repubblica; si era lamentata anche l'illegittima esecuzione della perquisizione informatica, in quanto la Pubblica accusa aveva onerato la Polizia Giudiziaria di provvedere all'estrazione della copia forense dei soli documenti e dei dati contenuti nei dispositivi elettronici appartenenti all'indagato e pertinenti ai fini del reato, mentre in sede di esecuzione la Polizia giudiziaria aveva effettuato una copia integrale dei supporti informatici, provvedendo ad estrarre files e foto di natura privata e personale, materiale nemmeno lontanamente riconducibile, in termini di pertinenza, alle ipotesi di reato contestate al ricorrente; sul punto, prosegue il difensore, il Tribunale aveva risposto che la difesa avrebbe dovuto impugnare il decreto di perquisizione e sequestro, senza considerare che il potere dispositivo e di controllo della Polizia Giudiziaria compete al Pubblico Ministero e che a quest'ultimo spetta anche il compito di vigilare sull'applicazione delle norme, per cui il Pubblico Ministero avrebbe dovuto astenersi dal convalidare il sequestro.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Il ricorso è inammissibile.


1.1 Appare opportuno chiarire qualche concetto sulla moneta virtuale che, nella direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018 (in modifica della c.d. IV direttiva antiriciclaggio), viene definita come "una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente"; la ratio della norma vuole evidentemente disciplinare i rapporti tra moneta virtuale e moneta corrente, senza però correttamente definire il fenomeno (disciplinando "in negativo" le caratteristiche della moneta virtuale); il considerando n. 10 della Dir. antiriciclaggio dimostra l'assunto in quanto afferma che "sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L'obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali".


La definizione che ne dà il legislatore italiano si rinviene nel D.Lgs. n. 231 del 2007 , art. 1, dal D.Lgs. n. 4 ottobre 2019, n. 125 dove la moneta virtuale viene definita (lett. qq) "la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente"; si nota subito che tale definizione aggiunge, rispetto a quella del legislatore comunitario, espressamente la finalità di investimento.


Passando ai soggetti che operano nell'ambito delle valute virtuali, si deve rilevare che per exchanger si intende il soggetto che gestisce le piattaforme exchange, intendendosi per exchange la piattaforma tecnologica che permette di scambiare questo prodotto finanziario, la cui funzione, quindi, è quella di poter permettere di effettuare l'acquisto e la vendita delle criptovalute e di realizzare un profitto: con la IV e la V Direttiva UE Antiriciclaggio, recepite rispettivamente con il D.Lgs. n. 90 del 2017 e con il D.Lgs. n. 125 del 2019, sono stati previsti specifici obblighi nei confronti dell'exchanger (cambiavalute di bitcoin et similia, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all'utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da, ovvero in, valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all'acquisizione, alla negoziazione o all'intermediazione nello scambio delle medesime valute, D.Lgs. n. 231 del 2007, art. 1, comma 2, lett. ff) e del wallet provider (gestori di portafogli virtuali, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali, art. 1, comma 2, lett. ff bis), entrambi inseriti nella categoria "altri operatori non finanziari".


Ciò premesso, questa Corte ha precisato (Sez. 2, Sentenza n. 26807 del 17/09/2020, De Rosa, Rv. 279590 - 01) che ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF ("La CONSOB esercita i poteri previsti dalla presente parte avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché all'efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali"), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all'art. 166 comma 1 lett.c) TUF, (che punisce chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento); pertanto, allo stato, può ritenersi il bitcoin un prodotto finanziario qualora acquistato con finalità d'investimento: la valuta virtuale, quando assume la funzione, e cioè la causa concreta, di strumento d'investimento e, quindi, di prodotto finanziario, va disciplinato con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell'investimento.


Tali principi, affermati dal Tribunale del Riesame nell'ordinanza impugnata, vengono in realtà condivisi anche dal ricorrente, che contesta però la valutazione operata dal Tribunale del bitcoin come strumento di investimento in quanto assimilata all'oro digitale.


A tale proposito, si deve però ribadire che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, alla luce del richiamo operato dal art. 355 c.p.p., comma 3 e dell'all'art. 324 (e, in conseguenza 1 all'art. 325) del medesimo codice, il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro probatorio (al pari del ricorso contro le ordinanze in tema di sequestro preventivo) è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (vedi Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269656).


Non può, invece, essere dedotta l'illogicità manifesta della motivazione, il ché comporta l'inammissibilità del motivo, non trovandoci certo in presenza di una motivazione inesistente o quantomeno apparente; ciò che infatti il ricorrente contesta è la valutazione operata dal Tribunale sulla equiparabilità del bitcoin all'oro digitale, ma tale valutazione non può essere sindacata nella presente sede, alla luce di quanto sopra precisato.


Analogo ragionamento deve essere fatto relativamente alla eccezione sulla insussistenza del dolo eventuale nel comportamento del ricorrente, avendo il Tribunale argomentato a pagina 9 della ordinanza impugnata, cui il ricorrente contrappone inammissibili motivi di merito.


1.3 Infine, relativamente all'ultimo motivo di ricorso, il Tribunale ha correttamente applicato la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale "oggetto della richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro probatorio ai sensi dell'art. 257 c.p.p., non può essere l'esecuzione del sequestro probatorio ma solo il decreto del Pubblico Ministero che lo dispone. Pertanto, nell'ipotesi in cui la polizia delegata abbia eseguito in quantità eccedenti quanto indicato nel provvedimento o con modalità per altro verso illegittime un sequestro probatorio disposto dal Pubblico Ministero, è possibile chiedere a quest'ultimo la restituzione delle cose sequestrate in eccesso, e, contro il provvedimento del Pubblico Ministero si può proporre opposizione davanti al giudice, ai sensi dell'art. 263 c.p.p., commi quarto e quinto" (3, Sentenza n. 20912 del 25/01/2017, Zambelli, Rv. 270126 - 01).


2. Per le considerazioni esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 3.000,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.


PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 10 novembre 2021.


Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2021


4) La Sentenza n. 26807 del 2020

Cassazione penale sez. II, 17/09/2020, (ud. 17/09/2020, dep. 25/09/2020), n.26807

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 21 gennaio 2020 il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame respingeva il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 16 dicembre 2019, che aveva disposto il sequestro preventivo a carico di D.R.G., indagato per i reati di cui all'art. 110 c.p. e art. 648 bis c.p., D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) e art. 493 ter c.p. della somma di Euro 206.442,32 e degli ulteriori beni (carte che abilitano al prelievo di denaro, dispositivi elettronici, telefonini) già oggetto di sequestro probatorio emesso dal Pubblico Ministero l'8 novembre 2019.


1.1 Avverso l'ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di D.R., eccependo la violazione dell'art. 325 c.p.p. e art. 648 bis c.p., art. 125 c.p.p., comma 3 e in relazione al combinato disposto dell'art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p.: il Tribunale aveva infatti completamento omesso di motivare sui motivi nuovi depositati dalla difesa, che attenevano all'elemento soggettivo del reato e che così si riassumevano: gli accrediti sui conti correnti riconducibili agli indagati (presso l'istituto di credito N26 e presso Widiba) erano relativi a vendite di criptovalute eseguite sul sito (OMISSIS), sito non riconducibile agli indagati; le transazioni per l'acquisto dei bitcoin avvenivano in modo assolutamente spersonalizzato, senza nessun contatto tra venditore e acquirente, per cui il venditore non poteva avere alcuna consapevolezza circa la provenienza della provvista utilizzata dal compratore per l'acquisto di criptovalute; gli indagati non potevano quindi avere nessuna certezza rilevante ai sensi dell'art. 648 bis c.p. della provenienza illecita del denaro usato da D.R.A. e da M.S.G. (o da chi aveva utilizzato le generalità di questi ultimi) per l'acquisto di bitcoin (come, del reato, alcuna prova, vi era del loto concorso nei presunti delitti di truffa presupposti); nessuna rilevanza aveva la tempistica di apertura dei conti correnti, visto che mancava l'elemento soggettivo del reato e non si poteva ricorrere alla figura del dolo eventuale, posto che non vi era alcun indice sintomatico che potesse far maturare il sospetto che le somme oggetto delle transazioni fossero di provenienza illecita; neppure il dolo eventuale poteva desumersi da una omissione degli obblighi di identificazione imposti dalla normativa anticiriclaggio, essendo tali obblighi imputabili solo alla (OMISSIS).


Su tali punti, osserva il difensore, il Tribunale si era limitato ad evidenziare le vicende relative alle transazioni sul sito (OMISSIS), per poi affermare che tali vicende, qualificate come truffaldine, sarebbero state "tutte convergenti ai conti correnti riconducibili agli odierni indagati", convergenza che non era stata posta in discussione, visto che le contestazioni avevano riguardato l'elemento soggettivo del reato.


1.2 Con un secondo motivo, il difensore lamenta la violazione dell'art. 240 bis c.p. e art. 125 c.p.p., comma 2 e del combinato disposto dell'art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: il giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro della somma di Euro 206.442,32 ritenendo che fosse fortemente sproporzionata rispetto al reddito dichiarato e alla attività economica svolta, mentre con il ricorso per riesame si era dimostrato che tale sproporzione non sussisteva; il Tribunale aveva però operato un sintetico e non puntuale riferimento alla questione, del tutto obliterata nelle motivazioni rese, che non solo non si erano peritate di vagliare argomenti e deduzioni difensive, ma avevano posto la quaestio iuris della sproporzione del tutto al di fuori di qualsiasi orizzonte valutativo.


1.3 Il difensore eccepisce poi la violazione dell'art. 1, comma 2 e del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) (TUF), dell'art. 125c.p.p., comma 3, dell'art. 321 c.p.p. e del combinato disposto dell'art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: l'attività di cambiavalute virtuale era stata definita dal D.Lgs. n. 90 del 2017, delineando per i cambiavalute uno statb proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l'art. 1, comma 2 TUF prevede che "gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari"); tale scelta era perfettamente coerente con l'ordinamento comunitario e, in particolare, con l'orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d'opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad "atti comunitari e provvedimenti Consob" e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perchè non ancora recepita dall'ordinamento interno.


Il difensore aggiunge che il Tribunale aveva richiamato l'attività che gli indagati avrebbero svolto tramite il sito bitcoingo.it che, come risultava già dalla provvisoria contestazione mossa al capo A) della rubrica, non era formalmente riferibile al ricorrente D.R.G., ma a D.R.A. per cui, se il Tribunale avesse voluto ipotizzare una responsabilità del ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che tale ditta individuale era in realtà simulata, e cioè volta a celare una società di fatto tra il ricorrente e l'intestatario, prospettiva estranea all'orizzonte valutativo del Tribunale e in contrasto con le allegazioni difensive ( D.R. operava non con il sito bicoingo.it, ma con quello (OMISSIS)).


Il difensore eccepisce poi l'erronea determinazione del profitto sequestrabile: avendo il giudice per le indagini preliminari disposto il sequestro finalizzato alla confisca per sproporzione, sarebbe stato necessario individuare il profitto del delitto ex art. 166 TUF asseritamente connesso alla attività della (OMISSIS), profitto che avrebbe potuto rintracciarsi esclusivamente tramite una effettiva ricostruzione dei flussi finanziari riferibili alla ditta indicata, non potendo identificarsi la somma sequestrabile con il profitto della (OMISSIS); volendo poi individuare il profitto sequestrabile, avrebbe dovuto calcolarsi il saldo positivo tra i valori relativi all'acquisto di bitcoin e quelli relativi alla vendita della criptovaluta, al netto delle tasse; il Tribunale aveva rigettato tale sottolineatura fatta per tuziorismo, visto che nessun profitto della (OMISSIS) risultava dimostrato- con motivazione apparente mediante richiamo alla sentenza di questa Corte n. 37120/19, che aveva per oggetto il delitto di riciclaggio ove, per l'individuazione del profitto, non sono necessari conteggi particolari, dovendosi avere esclusivamente riferimento alle somme oggetto del reato, meccanismo di computo non estendibile ad altre figure di reato, di modo che non pareva dubbio che il reato di abusivismo finanziario avesse un profitto immediatamente identificabile nell'eventuale saldo attivo tra il prezzo di acquisto dei prodotti e quello di collocamento, da computarsi al netto delle imposte pagate sulle transazioni finanziarie.


1.4 Il difensore eccepisce infine la violazione dell'art. 493 ter c.p. in quanto il Tribunale, a fronte della eccezione sulla omessa motivazione da parte del giudice per le indagini preliminari in ordine al requisito del periculum, non aveva espresso alcuna valutazione, applicando al caso di specie -caratterizzato dall'utilizzo di una carta bancomat- una giurisprudenza relativa alle carte di credito, argomentazione che solo apparentemente replicava ai rilievi difensivi (il difensore richiamata la sentenza n. 7910 di questa sezione, dalla quale si evince che rispetto alla carta di debito il delitto contestato può sussistere solo se la carta e/o il relativo codice siano stati sottratti all'intestatario e si sia proceduto all'utilizzo): vi era stata quindi una violazione della norma sostanziale, visto che questa prevede un reato che non si consuma con l'uso dell'altrui carta, ma solo allorchè questo sia indebito, circostanza che non ricorreva nel caso in esame, ove il titolare formale aveva consegnato al ricorrente carta e codice pin, legittimandolo all'utilizzo.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1.E' fondato il secondo motivo di ricorso.


1.1 In via preliminare, osserva questa Corte che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l'art. 325 c.p.p. consente il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge: nella nozione di "violazione di legge" rientrano, in particolare, gli "errores in iudicando" o "in procedendo", ma anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093). Non può, invece, essere dedotta l'illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui all'art. 605 c.p.p., lett. e) (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).


Nel caso in esame, quanto all'elemento soggettivo del reato, il Tribunale ha risposto al primo motivo di ricorso, avendo ricostruito l'intera vicenda, e in particolare osservando che:


vi era stata una truffa ai danni di Me.An., per il quale era stato utilizzato un conto ING Bank, alimentato con un bonifico da lui effettuato e con altri due bonifici, sempre relativi ad una truffa e ad un furto di identità;


il conto ING Bank era stato immediatamente svuotato con due bonifici a favore di un conto corrente acceso in Germania presso la N26 Bank GMBH intestato ad A.S., aperto on line mediante l'invio anche di un numero di telefono riconducibile all'indagato D.R.G., figlio della A.;


nella movimentazione in uscita del conto tedesco risultavano due ricariche postepay per l'acquisto di criptovalute, la prima mediante il sito (OMISSIS), e la seconda a favore di L.E.P., che aveva dichiarato di avere trattato ia vendita con un soggetto con nickname "(OMISSIS)" tramite utenza telefonica intestata a D.R.G. (la foto inserita da "(OMISSIS)" sul suo profilo whatsapp corrispondeva a quella di D.R.G.);


altro conto su cui erano finiti i proventi di truffe, intestato a D.R.A., aveva avuto uscite sul già citato conto N26 e su un conto aperto on line intestato a D.R.D. (sorella di D.R.G.) su banca WIDIBA, per l'apertura del quale era stata fornita l'utenza telefonica di D.r.G. tutto ciò premesso, il Tribunale traeva la logica conclusione della sussistenza dell'elemento priscologico relativo al reato di cui all'art. 648 bis c.p.; va infatti osservato che l'indagato non si è limitato ad occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si è inserito attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi delle truffe, che venivano poi utilizzati per le relative transazioni, per cui appare esente da censura la motivazione del Tribunale secondo cui "le citate circostanze in sede di indagini appaiono difficilmente compatibili con un atteggiamento psicologico diverso dal dolo in relazione al reato di cui al capo A)" (pag.11 ordinanza impugnata).


1.2 Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poichè le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag.13 dell'ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all'iniziativa, affermando che "chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%"; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all'art. 166, comma 1, lett. c) TUF.


Quanto alla censura secondo cui il sito (OMISSIS) non sarebbe riconducibile all'indagato, si deve osservare come il conto N26 acceso mediante la comunicazione del numero di telefono riconducibile all'utenza di D.R.G. sia stato utilizzato per l'acquisto e la successiva cessione di bitcoin da parte di F.F., avvenuta tramite quel sito (pag.8 ordinanza impugnata), il chè rende evidente che, a prescindere dalla formale riferibilità del sito a D.R.A., lo stesso era adoperato anche da D.R.G..


1.3 Relativamente all'ultimo motivo di ricorso, questa Corte ha precisato che "Anche l'uso di una carta di credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui al D.L. 3 maggio 1991, n. 143, art. 12, convertito nella L. 5 luglio 1991, n. 197 (ora art. 493-ter c.p.), in quanto la legittimazione all'impiego del documento è contrattualmente conferita dall'istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all'eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all'atto dell'uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un'autorizzazione a sottoscriverla con la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come "longa manus" o mero strumento esecutivo di un'operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto. (Fattispecie in cui l'agente, che conosceva gli estremi della carta di credito della persona offesa in ragione di un precedente utilizzo per conto di quest'ultima, acquistava un biglietto aereo destinato esclusivamente a sè stesso)"(Sez. 2, Sentenza n. 17453 del 22/02/2019, PMT/ Pautasso, Rv. 276422 - 01); il fatto che nel caso in esame si tratti di una carta di debito anzichè di credito è del tutto irrilevante, considerato che il bancomat è un "documento analogo" (alla carta di credito) che abilita al prelievo di denaro contante e quindi rientra nell'art. 493 ter c.p..


1.3 Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso.


Già in sede di riesame, il ricorrente aveva censurato la motivazione contenuta nel decreto di sequestro emesso dal giudice per le indagini preliminari, secondo la quale la quale la somma di Euro 206.442,32 appariva "fortemente sproporzionata rispetto al reddito dichiarato e all'attività svolta" (pag.5 decreto di sequestro e il Tribunale dà atto della censura a pag.5 dell'ordinanza impugnata; quando però passa a trattare della determinazione del profitto confiscabile, nessuna motivazione viene espressa sulla eccezione proposta dalla difesa e reiterata nel ricorso per cassazione, con conseguente omissione della motivazione, che integra la violazione di legge di cui all'art. 325 c.p.p. in quanto inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice, tanto più in quanto non vi è neppure un accenno a quale sarebbe il reddito sul quale poter operare un giudizio di sproporzione.


L'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio sul punto, ritenendo assorbiti gli ulteriori profili di censura sulla determinazione del profitto confiscabile.


PQM

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Milano competente ai sensi del 324 c.p.p., comma 5.


Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.


Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2020

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