top of page

Status di rifugiato, protezione sussidiaria e permesso per ragioni umanitarie: Il quadro normativo.

Articoli

Il quadro normativo di riferimento della protezione internazionale è costituito dal d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 e s.m. (in particolare cfr. la novella del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18), fonte attuativa delle disposizioni eurounitarie ed internazionali pattizie succedutesi nel tempo (le direttive 2004/83/CE, 2011/95/UE e la Convenzione di Ginevra del 28.4.1951 recepita dall'Italia attraverso la legge 24.7.1954 n. 754).

L'art. 2, primo comma, lett. a) del d.lgs. 251/2007 e s.m. stabilisce che "...Ai fini del presente decreto s'intende per: a) "protezione internazionale": lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria di cui alle lettere f) e h)...". La successiva lett. e) prevede che lo status di rifugiato compete al "cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno" e la lett. g che è "persona ammissibile alla protezione sussidiaria" il "... cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese..."

L'art. 14 chiarisce che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, sono considerati danni gravi:

"a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte;

b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine;

c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

I successivi articoli 5 e 7 del decreto stabiliscono, rispettivamente, che "...Ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale, i responsabili della persecuzione o del danno grave sono:

a) lo Stato;

b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;

c) soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell'articolo 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi.";

E che "Ai fini della valutazione del riconoscimento dello status di rifugiato, gli atti di persecuzione, ai sensi dell'articolo 1 A della Convenzione di Ginevra, devono alternativamente:

a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga e esclusa, ai sensi dell'articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione sui diritti dell'Uomo;

b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).

Gli atti di persecuzione di cui al comma 1 possono, tra l'altro, assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'articolo 10, comma 2; e-bis) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale".

La protezione internazionale, nelle due forme menzionate, viene, dunque, riconosciuta in favore di vittime di comportamenti persecutori che provengono dalle autorità statuali riconosciute o da chi eserciti di fatto la sovranità territoriale nel paese di origine del richiedente e financo da soggetti diversi laddove le autorità preposte non siano in grado di offrire la protezione necessaria.

È, altresì, indispensabile, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, una connessione tra la vis persecutoria che si rivolge specificamente contro il ricorrente ed i motivi razziali, religiosi, sociali o politici presi in considerazione dalla legge (art. 8, primo comma) e si deve considerare che ciò che rileva non è la reale appartenenza dell'interessato ad una comunità, la sua professione di fede o l'adesione ad un'idea, ma l'effettiva attribuzione dell'appartenenza o dell'adesione da parte dell'autore delle persecuzioni (art. 8, secondo comma).

Non integrano, quindi, gli estremi dell'azione persecutoria singoli atti riconducibili ad episodi di criminalità ordinaria, essendo invece necessario un sistema di condotte deliberatamente preordinate alla persecuzione personale e diretta del richiedente protezione, motivata dalle causali indicate.

La Corte di Giustizia dell'U.E. ha sottolineato, al riguardo, che "quando gli Stati membri valutano se un richiedente ha un fondato timore di essere perseguitato, è irrilevante se egli possegga effettivamente la caratteristica relativa all'appartenenza a un determinato gruppo sociale all'origine della persecuzione, sempre che tale caratteristica gli sia attribuita dall'autore della persecuzione" (CGUE c. 473/2016 F c. Bevandorlasi és Àllampolgarsagi Hivatal). Non rileva, dunque, la veridicità dei fatti addebitati al richiedente, quanto la circostanza che le accuse avanzate siano reali, id est effettivamente rivolte all'interessato, in quanto "è la sussistenza di queste accuse che rende attuale il pericolo di persecuzione o di danno grave, in relazione alle conseguenze possibili secondo l'ordinamento straniero" (Cass., Sez. VI-I, ordinanza n. 2875 del 6.2.2018).

In sede giudiziale, è necessaria, dunque, una verifica sulla sussistenza di un rapporto di diretta pertinenzialità tra il rischio paventato dal richiedente e l'identificazione di quest'ultimo quale esponente di un determinato gruppo etnico, religioso, sociale o politico e non integrano, dunque, gli estremi dell'azione persecutoria singoli atti riconducibili ad episodi di criminalità ordinaria, essendo invece necessario un sistema di condotte deliberatamente preordinate alla persecuzione personale e diretta del richiedente protezione, motivata dalle causali indicate.

L'art. 7 del medesimo decreto individua gli atti in cui la condotta persecutoria si concreta attraverso l'espresso rinvio alla Convenzione di Ginevra del 1951.

In particolare, gli atti persecutori devono essere sufficientemente gravi, per natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali e possono, tra l'altro, assumere la forma di:

a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale;

b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio;

c) azioni giudiziarie o sanzione penali sproporzionate o discriminatorie;

d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;

e) sanzioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'articolo 10, comma 2;

f) atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l'infanzia.


La protezione sussidiaria è accordata, invece, laddove venga accertato che il ritorno nel paese di origine (o di dimora abituale nel caso degli apolidi) esporrebbe i richiedenti al rischio di danni gravi e cioè la condanna a morte o l'esecuzione di una pena di morte, torture o trattamenti inumani o degradanti, la minaccia alla vita o all'incolumità derivante da una situazione di violenza indiscriminata generata da un conflitto armato.

L'art. 5, comma 6, del d.lgs. 286/1998 (Testo Unico dell'Immigrazione) prevede, infine, che "Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione...". L'art. 32, comma terzo, del d.lgs. 25/2008 e s.m. stabilisce che "Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286".


La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "La protezione umanitaria è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica "status" di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità" (Cass., sez. VI-I, ord. 23604/2017) ed ha, poi, specificato che "In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d'origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel Paese d'accoglienza. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d'origine)." (Cass., 4455/2018).

In altri termini, laddove siano carenti i presupposti per il riconoscimento di una delle forme di protezione internazionale, occorre verificare la concedibilità del permesso di soggiorno per motivi umanitari verificando l'esistenza di situazioni di vulnerabilità del richiedente per compressione del nucleo fondamentale dei diritti umani nel paese di origine anche in base ad una valutazione comparativa con lo stato attuale e con il grado di integrazione effettivamente conseguito.


Sempre in punto di diritto, si osserva che la domanda è stata presentata il 30/10/2017 e quindi sotto la vigenza della disciplina normativa precedente al D.L. 113/2018 che aveva abrogato la previsione, contenuta all'art. 5, comma 6, D.Lgs. N. 286/1998, il quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno quando ricorressero seri motivi di carattere umanitario.

Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite prima richiamato, infatti, la linea di demarcazione temporale per stabilire la disciplina applicabile deve essere individuata nella data di presentazione della domanda in sede amministrativa, sicché, con riferimento alle domande, esaurito l'iter procedimentale della domanda proposta nel vigore del regime anteriore all'introduzione del D.L. 113/2018, la nuova domanda dovrà esser valutata alla luce della nuova normativa.

Nondimeno, si osserva che con l'entrata in vigore del D.L. N. 130/2020 sono state apportate nuove modifiche al sistema della protezione ed in particolare:

- reintroduzione all'art. 5, comma 6, D.Lgs. 286/98, del riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano (soppresso dal D.L. 113/18), ma non anche il riferimento ai motivi di carattere umanitario (parimenti soppresso dal D.L. 113/2018);

- introduzione all'art. 19, comma 1.1, T.U.I. di una nuova ipotesi di divieto di espulsione, stabilendo che: "1.1. ... Non sono altresì ammessi il respingimento o l'espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine";

- ampliamento dei contenuti del permesso di soggiorno per protezione speciale, equiparandolo a quello del previgente (anteriormente al d.l. n. 113/18) permesso di soggiorno per motivi umanitari (in sintesi: durata biennale, rinnovabilità, convertibilità alla scadenza in permesso di soggiorno per lavoro).

La riforma in questione, quindi, se da un lato non ha voluto porre nel nulla il sistema di tipizzazione elaborato dalla previgente normativa, dall'altro, ha reintrodotto all'art. 5 comma 6 T.U.I. il riferimento al rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali, con ciò ripristinando l'attuazione legislativa del portato dell'art. 10 Cost.

Se è vero che il D. L. 130/2020 non ha riproposto la stessa formulazione dell'art. 5, comma 6 T.U.I. nella versione precedente alle modifiche del 2018, è vero anche che è stato reintrodotto il divieto di revoca e di rifiuto del permesso di soggiorno se risulta contrario al necessario rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali, sì da garantire in ogni caso la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale.

Sul portato della nuova protezione speciale ex art. 5, comma 6 T.U.I., si deve ritenere che, essendo la stessa l'espressa attuazione sul piano delle fonti primarie del diritto costituzionale di asilo ex art. 10 Cost., essa trova applicazione tutte le volte in cui il richiedente la protezione sia impedito, nel suo paese d'origine, nell'esercizio delle libertà democratiche garantite dall'ordinamento italiano.

In buona sostanza, è necessario che il ricorrente provenga da un paese ove le libertà fondamentali riconosciute dallo Stato italiano risultano compromesse, sicché il rimpatrio si risolverebbe in una violazione dei diritti fondamentali della persona, eventualmente esposta alla deprivazione di quelle stesse libertà di cui godrebbe ove ne fosse consentita la permanenza nello Stato italiano.

La modifica legislativa, quindi, pur non avendo ripristinato il riferimento ai gravi motivi di carattere umanitario, risulta essere del tutto congruente con la precedente formulazione dell'art. 5, comma 6 T.U.I. nella misura in cui assicura la presenza di una clausola aperta (gli obblighi costituzionali) attuativa del diritto di asilo.


Come visto, il D.L. 130/2020 ha introdotto anche significative modifiche all'art. 19 del T.U.I., introducendo una nuova ipotesi di divieto di espulsione ancorata al rispetto della vita privata e familiare della persona.

La questione che si pone, quindi, è quella di interpretare il nuovo disposto dell'art. 19 comma 1, punto 1 del T.U.I. nella misura in cui sancisce il divieto di respingimento ove vi siano fondati motivi di ritenere che l'allontanamento del soggetto dal territorio italiano possa determinare una violazione del rispetto alla propria vita privata e familiare.

Sono proprio i concetti di vita privata e familiare che necessitano di essere interpretati al fine di comprendere la portata di questa nuova ipotesi di divieto di espulsione.

Merita osservare, sin da ora, che la disposizione in questione individua chiaramente i fattori di comparazione, in un'ottica di bilanciamento tra le "ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica", da un lato, e le condizioni soggettive ed oggettive del cittadino straniero, dall'altro, valorizzando, come ostativi al rimpatrio, la solidità dei legami con il nostro paese e l'affievolimento di quelli con il paese di origine.

A norma dell'art. 19, comma 1, punto 1 del T.U.I., infatti, si deve tener conto "della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d'origine".

È evidente, quindi, il richiamo, seppur non espresso, all'elaborazione sorta intorno l'art. 8 Cedu ed alla giurisprudenza che si è formata in ambito sovrannazionale in ordine all'interpretazione delle nozioni di vita privata e familiare.

Da un'attenta analisi delle pronunce della Corte Europea dei diritti dell'uomo emerge, infatti, chiaramente come il criterio guida è quello della "solidità dei legami sociali, culturali, e familiari con il paese ospite e il paese di origini".

Ciò è anche quanto sostenuto da Cass. Civ. N. 28316/2020 in occasione della rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa alla configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, nella vigenza del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, quando sia stato allegato ed accertato il "radicamento" effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale.

Sarà, quindi, necessario verificare nel caso concreto quali siano i legami di tipo culturale, sociale ed anche familiare con il nostro paese al fine di confrontarli con la sussistenza o meno di legami con il paese d'origine, tenuto conto anche del tempo di permanenza dello straniero nello Staro italiano.

Si dovrà, quindi, porre su un piatto della bilancia le "ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica", che giustificherebbero il rimpatrio, e sull'altro piatto "la natura e la effettività dei vincoli familiari dell'interessato", il suo "effettivo inserimento sociale in Italia", la "durata del suo soggiorno nel territorio nazionale", "l'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine".

Quanto più forti siano i legami con il nostro paese e più allentati, invece, quelli con il paese di origine, tanto meno sarà giustificabile l'interferenza del rimpatrio con il diritto al rispetto della vita privata e/o familiare, e tanto più forti dovranno essere, conseguentemente, le ragioni di ordine e sicurezza pubblica idonee a giustificare tale interferenza.

Hai bisogno di assistenza legale?

Prenota ora la tua consulenza personalizzata e mirata.

 

Grazie

oppure

PHOTO-2024-04-18-17-28-09.jpg
bottom of page